Come sarebbe lo scenario peggiore
Qualche anno fa la Commissione Europea cercò di stimare quale sarebbe stato l'impatto economico di una pandemia senza cura che uccidesse milioni di persone
All’inizio degli anni Duemila, il timore che la cosidetta “influenza aviaria” si trasformasse in una pandemia mondiale portò a un rinnovato interesse per lo studio delle malattie epidemiche e dei loro effetti sulla società. Nel 2006 la Commissione Europea commissionò a due ricercatori uno studio su quali effetti avrebbe avuto sull’economia europea una pandemia paragonabile per virulenza e letalità a quella micidiale del 1918-1919, la famigerata influenza spagnola.
Oggi, di fronte a una nuova epidemia di una malattia contro la quale non abbiamo difese e che minaccia di trasformarsi in una ben più vasta pandemia (qui è spiegata la differenza tra epidemia e pandemia), quello studio, insieme a molti altri, vecchi e nuovi, è iniziato a circolare nuovamente. Con tutti i limiti che un lavoro come questo può avere, ammessi dagli stessi autori, lo studio aiuta a farsi un’idea delle dimensioni economiche e sociali di una crisi come quella che stiamo vivendo.
Per realizzare lo studio, gli autori hanno immaginato una possibile pandemia e hanno preso a prestito l’idea già usata per uno studio simile dal Congresso degli Stati Uniti. Si sono figurati che l’Unione Europea venisse colpita da una pandemia in grado di contagiare il 30 per cento degli abitanti, con un tasso di letalità (il numero di persone infette che muoiono) pari al 2,5 per cento.
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Se dovesse succedere davvero, sarebbe un’epidemia devastante, paragonabile alla famosa spagnola, che contagiò quasi la metà degli europei e causò la morte di decine di milioni di persone in tutto il mondo. Per fare un confronto, una normale epidemia d’influenza stagionale riguarda di solito il 15 per cento della popolazione e ha una mortalità dello 0,01 per cento. Nello scenario ipotizzato dai ricercatori, 150 milioni di europei finirebbero ammalati e assenti dal lavoro per 2-3 settimane, e tre milioni di loro non sopravviverebbero alla malattia.
Una volta stabilite le caratteristiche della malattia e i suoi effetti, i due ricercatori hanno inserito questi parametri in un modello economico, cioè un insieme di equazioni che rappresenta una versione approssimativa della nostra economia. Con questo modello, hanno cercato di calcolare i due differenti impatti economici della pandemia.
Da un lato lo shock che subisce l’offerta: per esempio le ore di lavoro perse a causa della malattia e il danno permanente causato dalla perdita dello 0,75 per cento della popolazione dovuto alle morti.
Per calcolare questo impatto, i due ricercatori hanno usato una stima che hanno definito molto ampia: ogni malato è stato contato come improduttivo per una media di tre settimane (molto di più del periodo di quarantena e di quello per cui di solito durano i sintomi di un’influenza). Secondo i due ricercatori, una pandemia con queste caratteristiche e iniziata nel primo trimestre del 2006 avrebbe prodotto entro la fine dell’anno una perdita dell’1,1 per cento del PIL europeo a causa dello shock dal lato dell’offerta.
Accanto a quest’ultimo è stato previsto lo shock del lato della domanda, quello che vediamo in maniera più evidente anche in questi giorni: strade vuote, negozi deserti, ristoranti chiusi.
A causa dei consigli delle autorità sanitarie e dei timori per il contagio, le persone durante un’epidemia cambiano le loro abitudini e questo causa una riduzione della domanda di beni e servizi. Aggiungendo a questo anche il crollo del settore turistico, i due ricercatori hanno calcolato che a causa della minore domanda l’Unione Europea perderebbe circa lo 0,5 per cento di PIL.
Sommando le due componenti, è venuta fuori una perdita di PIL pari all’1,6 per cento nel primo anno, con un recupero abbastanza rapido a partire dall’anno successivo.
Inasprendo tutte le variabile del modello, quindi immaginando che la gente rimanga a casa malata più a lungo, che il turismo venga colpito ancora più duramente, che le persone decidano di evitare luoghi affollati più a lungo, la stima più alta alla quale i due ricercatori sono arrivati è -3,3 per cento del PIL nel corso del primo anno. Per fare un paragone, nel 2009, l’anno culmine della recessione, il PIL europeo calò del 4,3 per cento (e quello italiano del 5,3 per cento).
Lo studio è utile per farsi un’idea di massima dell’impatto di un’epidemia, ma non va preso alla lettera. Cambiando anche poche variabili, questi modelli così complessi possono produrre risultati parecchio differenti. Secondo uno studio più recente, ad esempio, in caso di pandemia il PIL mondiale calerebbe dello 0,6 per cento e quello delle aree avanzate come l’Europa, soltanto dello 0,3 per cento. Altri studi realizzati negli ultimi anni dalla Banca Mondiale ipotizzano che una pandemia come quella spagnola potrebbe causare una contrazione del PIL mondiale tra il 4 e il 5 per cento (qualche punto in meno nelle aree più sviluppate come l’Europa).
Questa varietà di risultati è dovuto al fatto che stimare il PIL è, anche in condizioni normali, un esercizio complicato, che comprende fare molte ipotesi e congetture e non sono rari gli errori, anche importanti. Ma a parte questo, sembra che ci sia una sorta di consenso sul fatto che una vata pandemia avrebbe conseguenze economiche pari a quelle dell’anno peggiore della recente recessione.
Detto questo, bisogna comunque considerare che la situazione del 2006, quando venne elaborato lo studio della Commissione Europea, era molto diversa da quella odierna e questo spinge a fare considerazioni in parte inquietanti e altre che invece fanno ben sperare. Quelle più preoccupanti sono che lo studio venne fatto utilizzando nel modello i numeri dell’economia europea di 15 anni fa: prima, quindi, della grande crisi e dei suoi effetti che vediamo ancora oggi. In altre parole, il coronavirus sta colpendo un continente molto più prostrato di quanto immaginato dai due ricercatori e questo rischia di rendere alcune loro conclusioni piuttosto ottimistiche.
Ad esempio, gli effetti dello shock di domanda sono inferiori a quelli dello shock di offerta perché viene ipotizzato un forte intervento della Banca Centrale Europea che, scrivono i due ricercatori, di fronte alla crisi avrebbe tagliato i tassi di interesse di un punto percentuale, introducendo nel sistema economico la liquidità necessaria a riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa della domanda dei cittadini preoccupati dall’epidemia. Era una conclusione ragionevole e sensata nel 2006, quando il tasso di interesse chiave della BCE era sopra il 4 per cento.
Oggi, quel tasso di interesse è a -0,5 per cento ed è ritenuto impossibile abbassarlo ulteriormente di un intero punto percentuale. La BCE potrebbe utilizzare altri strumenti per iniettare liquidità nel sistema, ma è una scelta politicamente complicata (ed è una strada che, per il momento, la BCE non sembra disposta a intraprendere).
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Per quanto riguarda invece gli aspetti che fanno ben sperare, non bisogna dimenticare che lo studio ipotizza che l’Europa venga colpita da una pandemia ben diversa dall’attuale epidemia di coronavirus. I ricercatori immaginano una malattia capace di contagiare un terzo della popolazione europea, decine e decine di milioni di persone e non le migliaia di casi che abbiamo al momento di fronte. Anche la letalità dell’epidemia è pari alle ipotesi peggiori riguardo al coronavirus: una letalità del 2,5 per cento, mentre secondo le stime più ottimistiche la letalità del nuovo virus potrebbe essere intorno allo 0,8 per cento (ma a Wuhan, nel centro dell’epidemia, la letalità è stimata al 4,4 per cento).
Per il momento, quindi, sembra che le ipotesi dello studio rispecchino lo scenario peggiore di tutti: la trasformazione dell’epidemia di coronavirus in un’autentica pandemia con le stesse proporzioni di quelle viste nel secolo scorso. L’epidemia che abbiamo di fronte in questo momento, invece, appare molto più limitata e non sembra un caso che le principali, ma ancora provvisorie, stime che circolano sul suo impatto economico ipotizzino un calo del PIL di alcuni decimi di punto percentuale, ben lontano dalla forchetta 1,6-3,3 per cento ipotizzata dallo studio.