I molti contagi e pochi morti da coronavirus in Corea del Sud
L'Italia in confronto ha un po' più della metà dei contagi e il triplo dei morti, ma è perché loro hanno fatto tantissimi test: un modo diverso di affrontare l'epidemia, con pregi e difetti
Dopo la Cina, la Corea del Sud è il paese in cui sono stati rilevati più contagi da coronavirus (SARS-CoV-2) e in proporzione meno decessi: su 5.800 positivi, si sono verificati 35 morti. Il tasso di letalità sudcoreano è al momento inferiore all’1 per cento e al di sotto del dato medio globale della COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, attualmente intorno al 3,4 per cento. In Italia, per avere un termine di paragone, i casi positivi ai test sono stati finora 3.089 con 107 morti: ha un po’ più della metà dei contagi e il triplo dei morti.
È ancora presto per stabilire con certezza quali differenze abbiano portato la Corea del Sud ad avere da un lato così tanti casi positivi e, dall’altro, un numero relativamente basso di decessi. Se si osservano i dati messi a disposizione finora dal governo sudcoreano si nota che nel paese è stato eseguito un numero enorme di test, che ha reso possibili politiche di contenimento e pratiche cliniche più mirate per trattare da subito i casi di COVID-19, riducendo il rischio che progrediscano in gravi polmoniti (che per i soggetti più deboli e anziani possono rivelarsi letali).
La Corea del Sud sembra avere soprattutto imparato dagli errori del passato. Nel 2015 un’imprevista epidemia di MERS (altra grave sindrome respiratoria causata da un coronavirus) passò inosservata per diverso tempo a causa della mancanza di kit per effettuare i test sui pazienti, che si spostarono tra diversi ospedali cercando aiuto, diffondendo inconsapevolmente il contagio. Quando fu chiaro che cosa fosse andato storto, il governo decise di organizzare un sistema per le emergenze di questo tipo, che ora prevede il coinvolgimento di diverse aziende biomediche specializzate nella produzione di strumenti per rilevare le malattie virali.
Dopo le prime notizie provenienti dalla Cina sulle polmoniti atipiche a Wuhan, la città epicentro della crisi sanitaria, e la diffusione della sequenza genetica dell’attuale coronavirus a metà gennaio, le aziende specializzate in biotecnologie sudcoreane si sono messe al lavoro per sviluppare un test. Il processo di creazione e di approvazione da parte delle autorità del sistema ha richiesto poche settimane, concentrando nel tempo una pratica che in passato avrebbe richiesto all’incirca un anno per essere completata.
La Corea del Sud ha finora eseguito più di 140mila test, utilizzando tamponi e analisi di laboratorio che si sono rivelati affidabili in oltre il 90 per cento dei casi. Per fare un confronto, in Italia sono stati eseguiti finora quasi 30mila test, con sistemi altrettanto affidabili, ma (soprattutto nell’ultima settimana) soltanto su individui che mostravano già sintomi tali da far sospettare la COVID-19.
I test eseguiti su una porzione consistente della popolazione stanno consentendo alla Corea del Sud di controllare la situazione, attuando politiche di contenimento più mirate rispetto a cosa avviene in altri paesi. A Seul, la capitale del paese, sono stati rilevati poco più di 100 casi da coronavirus, un numero piuttosto contenuto per una grande conurbazione che conta oltre 10 milioni di abitanti.
Gli individui che risultano positivi e con sintomi lievi vengono tenuti da subito sotto controllo, sia per evitare nuovi contagi, sia per provare a ridurre l’insorgenza di sintomi più gravi e rischiosi. Anche per questo motivo, sostengono le autorità sanitarie locali, finora è stato possibile mantenere il tasso di letalità al di sotto dell’1 per cento. I responsabili dei centri di ricerca attribuiscono questo risultato alla capacità di intervenire più rapidamente sugli infetti, evitando ritardi.
Grazie allo sviluppo precoce di test affidabili, e a una notevole capacità di produzione dei kit necessari per realizzarli, in Corea del Sud si eseguono ogni giorno circa 10mila verifiche su altrettante persone. Le immagini delle postazioni lungo le strade, dove gli operatori sanitari effettuano i prelievi dagli automobilisti con sintomi sospetti, sono state ampiamente riprese dai media internazionali, ma non sono una semplice trovata comunicativa del governo per mostrare la presenza di numerosi controlli: si stanno rivelando una risorsa importante per valutare l’espansione del contagio, e cercare di prevenirlo. Le persone restano inoltre nelle loro automobili, senza la necessità di entrare in contatto con altri, come avverrebbe in ospedale.
Un numero così consistente di test comporta inevitabilmente la rilevazione di molti più casi positivi, considerato che secondo la maggior parte degli epidemiologi i casi effettivi di infezioni da coronavirus sono molto più numerosi di quelli di cui siamo a conoscenza. Questo spiega in parte perché la Corea del Sud risulti il paese con il maggior numero di contagiati al mondo dopo la Cina. La maggior quantità implica che risulti inferiore il rapporto con i decessi causati dalla malattia (il tasso di letalità).
L’approccio della Corea del Sud assomiglia a quello seguito in Italia subito dopo la scoperta dei primi contagi: furono eseguiti in poco tempo centinaia di test, anche su persone che non mostravano sintomi per verificare se fossero comunque già infette o nel periodo di incubazione (il tempo che intercorre tra il contagio e quando si manifestano i sintomi). Nei giorni seguenti, il ministero della Salute e la Protezione Civile hanno cambiato approccio, disponendo che siano eseguiti i test solamente sui pazienti con sintomi tali da fare sospettare la COVID-19.
Un’ipotesi è che – a differenza della Corea del Sud dove si eseguono molti più test – in Italia il numero effettivo di casi positivi sia ampiamente sottostimato, perché ora si eseguono i test solamente su persone con sintomi sospetti rilevanti. Questo fa sì che ci sia una maggiore incidenza di decessi sul totale dei risultati positivi, banalmente perché sono di meno. La sottostima dei casi positivi in Italia è condivisa da diversi epidemiologi e virologi, come Ilaria Capua che in un’intervista sulla Stampa ha ricordato che i contagiati sono “molti di più” di quelli dichiarati: “Forse anche oltre 100 volte tanto”.
Nella maggior parte dei casi, la COVID-19 comporta sintomi piuttosto lievi, e alcuni soggetti non si accorgono nemmeno di essersi ammalati, se non nel momento di picco della malattia. Questo può contribuire a una maggiore diffusione del coronavirus, perché vuol dire che le persone mantengono una vita attiva anche quando iniziano a essere contagiose.
È ancora presto per dire se l’approccio seguito in Corea del Sud (con contenimenti molto mirati e un numero enorme di test) sia più adeguato rispetto a quello seguito in molti altri paesi del mondo come l’Italia (con test su chi ha sintomi importanti e contenimento in ampie aree geografiche). Su una scala molto più grande, la Cina ha applicato una strategia simile alla nostra e nelle ultime settimane ha ottenuto una riduzione nel numero di nuovi casi, ma con enormi costi sociali ed economici.
Un’epidemia è un fenomeno complesso e ci potrebbero essere diversi altri fattori che condizionano i suoi effetti in un’area geografica, rispetto a un’altra. I virus tendono a tipicizzarsi assumendo caratteristiche diverse, a seconda delle condizioni in cui si replicano, e questo complica i confronti tra luoghi con caratteristiche e popolazioni molto diverse. Sul dato potrebbe inoltre influire il modo in cui sono ricondotti i singoli decessi alla COVID-19 o meno.
In Corea del Sud i problemi legati al coronavirus non sono comunque indifferenti. Se da un lato è vero che il numero dei decessi è contenuto, dall’altro anche gli ospedali sudcoreani devono fare i conti con un alto numero di ricoveri. Più persone diagnosticate implica che ci siano più persone da seguire e da tenere isolate dal resto della popolazione. In diverse città i posti letto in ospedale scarseggiano, così come alcuni presìdi per tutelare il personale sanitario (mascherine, occhiali protettivi, ecc).
In un discorso tenuto martedì 3 marzo, il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, ha detto che: “Stiamo testando le persone sulla scala più grande possibile, alla maggior velocità possibile, e stiamo diffondendo tutti i dati in modo trasparente e istantaneo. Crediamo che questo sia il modo migliore per provenire i contagi nelle comunità locali”. Il governo ha diffuso campagne informative e sta facendo di tutto per dimostrare di non trascurare l’emergenza sanitaria. In Corea del Sud ad aprile si dovrebbero tenere le elezioni politiche e il governo vuole evitare polemiche legate alla gestione dell’epidemia.