Il coronavirus mette a dura prova gli ospedali
In Lombardia i posti di terapia intensiva per i malati da COVID-19 sono pieni e il personale sanitario fatica a stare dietro ai nuovi casi
In un’intervista pubblicata domenica sul Corriere della Sera, il primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, ha spiegato che la struttura sanitaria in cui lavora «è in piena emergenza», a causa dei numerosi ricoveri da COVID-19, la malattia causata dal coronavirus (SARS-CoV-2). La situazione è complicata in buona parte della Lombardia, la più interessata dall’epidemia con quasi mille casi positivi e oltre cento persone ricoverate nei reparti di terapia intensiva.
L’aumentare dei contagi – finora 1.694 in Italia – comporterà ulteriori stress per gli ospedali sia in termini di posti letto sia di assistenza fornita dal personale sanitario.
Terapia intensiva
La terapia intensiva è un reparto dove sono forniti trattamenti particolarmente raffinati ai pazienti, di solito ricoverati in condizioni di salute di media e alta gravità. È un’area attrezzata con sistemi per il supporto vitale (come i respiratori meccanici), per il monitoraggio delle condizioni del paziente (come i rilevatori del battito cardiaco e dell’ossigenazione del sangue) e con la presenza in media di almeno un infermiere per ogni due pazienti e di un medico, di solito specializzato in anestesia e rianimazione.
In terapia intensiva sono ricoverati i pazienti che hanno subìto importanti interventi chirurgici, oppure che sono in condizioni precarie di salute a causa di altre malattie. La permanenza in questo reparto dipende dalla gravità del paziente e può variare da un paio di giorni, per i casi meno problematici, a diverse settimane per quelli più complicati.
Pazienti con COVID-19
Sulla base dell’andamento della COVID-19 in Italia, si stima che nella metà circa dei casi i malati non abbiano particolari sintomi, e possano quindi rimanere a casa assumendo farmaci contro la febbre (antipiretici) e altri medicinali in attesa di guarire, sotto sorveglianza del medico curante.
C’è poi una percentuale significativa di persone che ha bisogno di un ricovero in ospedale, a causa del peggioramento dei sintomi, solitamente respiratori. Un malato su dieci ha bisogno di ulteriore assistenza specializzata in terapia intensiva.
La terapia intensiva in Lombardia
Nel complesso, gli ospedali lombardi hanno una capacità di 900 posti per la terapia intensiva. Tipicamente, un reparto di questo tipo non ha particolari divisioni tra i letti, perché il personale deve essere libero di muoversi rapidamente da un paziente all’altro, nel caso di imprevisti ed emergenze. Le aziende ospedaliere hanno quindi dovuto provvedere a soluzioni per isolare parte dei loro reparti, in modo da impiegarli per i pazienti con COVID-19 senza il rischio di contagi per le persone ricoverate in terapia intensiva per altri motivi.
Questi “blocchi COVID-19” sono stati realizzati in 15 ospedali lombardi, tra cui il Niguarda e il Policlinico di Milano, il San Matteo di Pavia, i Civili di Brescia e gli ospedali di Lodi, Cremona e Bergamo. Sono inoltre in corso attività per realizzare nuovi blocchi in altri ospedali, come quelli di Vimercate e di Busto Arsizio.
I posti di terapia intensiva dedicati ai pazienti gravi con COVID-19 sono finora 120, con un livello di saturazione che si aggira intorno al 90 per cento. Questo significa che la capacità è quasi al colmo e per questo la Regione sta lavorando per attivare nuovi blocchi COVID-19 negli altri ospedali, coinvolgendo anche le strutture sanitarie dei privati.
Non basterebbe dedicarne di più tra le 900 disponibili?
Poiché in questi giorni si parla quasi esclusivamente di coronavirus, tendiamo a dimenticare che gli ospedali si devono occupare di migliaia di altri pazienti che non hanno la COVID-19 e che sono ricoverati per altri motivi: fratture, patologie cardiache e operazioni chirurgiche, per citarne solo alcuni.
Alcuni di loro hanno bisogno della terapia intensiva e sarebbe quindi difficile aumentare ulteriormente il numero di posti letto per i casi gravi da COVID-19: implicherebbe trascurare i pazienti con altri problemi di salute.
Smistamento
Lo smistamento dei casi gravi da COVID-19 in Lombardia viene gestito dall’Unità di crisi per le terapie intensive. In linea di massima, un paziente con sintomi gravi da COVID-19 viene visitato nella struttura ospedaliera dove è stato trasportato (di solito nell’area di medicina d’urgenza) e a diagnosi completata viene poi trasferito in un reparto di terapia intensiva.
Il centro di smistamento si occupa di affidare il caso a uno degli ospedali con posti letto disponibili in terapia intensiva. Nell’ambito dell’autonomia delle strutture ospedaliere, ogni ospedale può comunque valutare le singole richieste e – entro certi limiti – rifiutare la richiesta di ricovero portando chiare motivazioni.
La ricerca di posti letto disponibili è una delle attività che portano via più tempo al personale sanitario coinvolto.
Altri reparti
I pazienti con sintomi importanti da COVID-19, che non hanno bisogno della terapia intensiva, vengono ricoverati in altri reparti degli ospedali.
Molte strutture hanno provveduto a realizzare aree isolate dal resto dei pazienti con altre malattie, proprio per ridurre il rischio di nuovi contagi. I pazienti vengono seguiti e trattati per ridurre i sintomi e per superare la fase acuta della malattia, che può comportare una grave polmonite (soprattutto nelle persone anziane o a rischio, a causa di altre patologie). Se le condizioni di un paziente peggiorano, l’ospedale può fare riferimento all’Unità di crisi se non ha più posti in terapia intensiva.
Personale sanitario
Il ministero della Salute e le regioni hanno diffuso negli ultimi giorni circolari e istruzioni per le aziende ospedaliere, con indicazioni su come gestire i casi di COVID-19 e ridurre il più possibile i rischi di nuovi contagi. In diversi ospedali sono state allestite aree all’esterno delle zone di accoglienza, come quelle del pronto soccorso, per fare una prima valutazione dei casi sospetti da coronavirus ed evitare che entrino in contatto con gli altri utenti degli ospedali.
Uno degli obiettivi principali è fare in modo che medici, infermieri e altri operatori sanitari possano lavorare con un rischio minimo di contagio: se si ammalano loro, l’intero sistema smette di funzionare.
Questo comporta, soprattutto in terapia intensiva, l’uso di doppi copriscarpe (sono simili alle cuffie per la doccia), doppi guanti, occhiali di sicurezza e mascherina per coprire la bocca. Deve essere inoltre indossato un ulteriore strato protettivo al di sopra del normale camice. La vestizione e la svestizione avvengono in un’area franca isolata prima dell’ingresso nella terapia intensiva vera e propria, in modo da ridurre il rischio di contaminazioni.
Queste condizioni, inevitabili per ridurre il rischio di contagi, complicano il lavoro del personale sanitario, che per turni di otto o più ore deve fare i conti con la scomodità e il caldo delle protezioni (immaginate di respirare per otto ore attraverso una mascherina premuta sulla faccia). Se si rende necessaria l’uscita temporanea dalla terapia intensiva (anche solo per andare in bagno), si devono lasciare guanti, mascherina e il resto nella zona franca e ripetere poi da capo la vestizione.
Un’ulteriore complicazione è data dalla mancanza di personale specializzato in alcune strutture ospedaliere.
Gli anestesisti, per esempio, hanno un ruolo centrale nella gestione dei pazienti nei reparti di terapia intensiva, ma ce ne sono pochi a causa dei tagli attuati negli ultimi anni nel settore sanitario pubblico. Le assenze dovute ai contagi o ad altri motivi di salute causano ulteriori difficoltà, comportando un ulteriore carico di lavoro per il personale di cui dispone ogni ospedale.