Perché l’accordo di pace con i talebani mostra i limiti del potere americano
La guerra in Afghanistan verrà ricordata dagli Stati Uniti come quella del Vietnam, scrive il New York Times: infinita e impossibile da vincere
Sabato gli Stati Uniti e i talebani hanno firmato un importante accordo di pace a Doha, in Qatar, accordo che nella migliore delle ipotesi porterà al ritiro graduale dei circa 13mila soldati statunitensi dall’Afghanistan e all’avvio di negoziati tra talebani e governo afghano. Nonostante sia arrivato alla fine di lunghi e faticosi negoziati, l’accordo è stato giudicato per lo più insufficiente e dalla dubbia efficacia, per diverse ragioni: per esempio perché ai colloqui non ha partecipato il governo afghano e perché non si è riusciti a decidere un vero e proprio cessate il fuoco.
Nonostante quasi vent’anni di guerra contro un avversario sulla carta infinitamente più debole, gli Stati Uniti non sono quindi riusciti a imporsi né militarmente né politicamente. La guerra, ha sostenuto un editoriale del New York Times, verrà ricordata nella storia americana come il simbolo di un conflitto senza fine, complicato dal coinvolgimento di forze straniere, proprio come era successo quasi mezzo secolo prima con il conflitto in Vietnam.
La guerra americana in Afghanistan iniziò nell’ottobre 2001, quando l’allora amministrazione Repubblicana di George W. Bush decise di invadere il paese in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre, i più gravi nella storia degli Stati Uniti. Gli attacchi erano stati compiuti da al Qaida, organizzazione che era guidata da Osama bin Laden e che aveva le sue basi in Afghanistan. Al Qaida era protetta dal regime afghano, controllato dalla seconda metà degli anni Novanta dai talebani, gruppo estremamente radicale che aveva instaurato nel paese una Repubblica Islamica.
Nel giro di poche settimane gli americani riuscirono a rovesciare il regime talebano e a indebolire al Qaida, che cominciò a spostare le sue basi nel vicino Pakistan.
I talebani però si riorganizzarono in fretta. Cominciarono a fare azioni di guerriglia e attacchi mirati contro soldati e convogli americani e dell’esercito afghano, oltre che attentati contro i civili: una tattica che gli esperti chiamano insurgency.
L’insurgency è stata spesso usata nei conflitti cosiddetti “asimmetrici”, cioè dove una parte è sulla carta molto più forte dell’altra, proprio allo scopo di ridurre questa differenza. Come hanno dimostrato diversi altri conflitti “asimmetrici”, come per esempio l’insurrezione sunnita nell’Iraq occidentale prima della nascita dell’ISIS, spesso l’unico modo per vincere l’insurgency è quello di guadagnarsi la fiducia della popolazione locale: un obiettivo che in Afghanistan gli americani non sono riusciti a raggiungere, per diverse ragioni.
Uno dei problemi principali nella guerra contro i talebani è stato l’alto livello di corruzione del regime afghano appoggiato e finanziato dagli Stati Uniti. Dopo anni di addestramento e investimenti americani, le forze di sicurezza afghane hanno continuato a mostrarsi corrotte e incapaci di affrontare l’insurgency dei talebani, che in molti casi è stata aiutata anche dalla divisione tra le molte tribù presenti nel paese.
La presenza statunitense, inoltre, non è mai stata vista particolarmente bene dalla popolazione dell’Afghanistan, un paese che aveva giù vissuto una lunga occupazione di una potenza straniera – l’Unione Sovietica – per tutti gli anni Ottanta.
Il risultato è stato che la guerra in Afghanistan è diventata la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti nella loro storia. A un certo punto, ha scritto il New York Times, gli Stati Uniti hanno dimenticato le ragioni per continuare a mandare i propri soldati a combattere e morire «in una terra resa molto difficile da governare dalle molte tribù presenti, e quasi impossibile da conquistare a causa del suo territorio montuoso».
Nonostante per anni il governo americano avesse detto pubblicamente di essere a un passo dal vincere la guerra, diversi leader militari in privato parlavano del conflitto con molto meno ottimismo, come hanno dimostrato alcuni documenti ottenuti e pubblicati dal Washington Post alla fine dello scorso anno: «Ci mancano le conoscenze di base sull’Afghanistan, non sappiamo cosa stiamo facendo», diceva per esempio il generale statunitense Douglas Lute.
Le rivelazioni del Washington Post non hanno fatto altro che confermare quello che diversi analisti sostenevano da tempo: cioè che una vittoria statunitense in Afghanistan non è mai stata una possibilità.
L’editoriale del New York Times, così come uno dell’Economist pubblicato la scorsa settimana, sostiene che l’accordo di pace con i talebani sia una buona notizia per gli Stati Uniti, che potranno così iniziare a ritirare i propri soldati da una guerra che aveva perso significato da molto tempo. Allo stesso tempo, sostiene che l’intesa – debolissima per quello che contiene e per l’esclusione del governo afghano – sia stata un’ammissione da parte degli Stati Uniti di non poter vincere la guerra contro i talebani, nemmeno dopo quasi vent’anni di combattimenti.