I limiti del cosmopolitismo
Spiegati dalla filosofa americana Martha C. Nussbaum nel suo ultimo saggio, in cui partendo dalle idee di Cicerone e Adam Smith prova a dare una risposta ai nazionalismi di oggi
Martha C. Nussbaum è una delle più note filosofe politiche del mondo, conosciuta anche al di fuori del mondo accademico per aver sempre cercato di parlare di filosofia anche ai non filosofi. Da pochi giorni è uscito in italiano il suo ultimo saggio, La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto (Bocconi Editore), in cui ha messo insieme una storia sintetica del pensiero cosmopolita – di cui negli ultimi anni si parla in opposizione alle nuove forme di nazionalismo – analizzandone anche i limiti, dal ruolo delle organizzazioni internazionali ai diritti delle minoranze e alle crisi migratorie.
Allieva di John Rawls, uno dei più importanti filosofi politici del Novecento, e docente alle facoltà di legge e di filosofia dell’Università di Chicago, Nussbaum ha pubblicato più di 35 libri e centinaia di articoli scientifici, e ha ricevuto più di 50 riconoscimenti tra cui il premio Kyoto, il più importante riconoscimento in un campo come quello della filosofia, per cui non esiste un premio Nobel. Nella sua lunga carriera si è occupata di una grande varietà di temi: dal liberalismo politico all’etica stoica, dai diritti degli animali alla politica indiana, dal ruolo della cultura classica nella formazione delle persone ai diritti delle persone disabili.
Il suo libro più noto è La fragilità del bene, uno dei principali bestseller di filosofia contemporanea, in cui contestò l’idea secondo cui una persona buona sarebbe immune dal compiere azioni sbagliate sotto pressioni esterne. Lo stesso anno in cui fu pubblicato, il 1986, cominciò a lavorare con Amartya Sen, l’economista indiano vincitore del premio Nobel, grazie al quale cominciò a interessarsi dell’India e in generale ai diritti delle persone nei paesi meno privilegiati. Partendo dalle idee di Sen volte ad aggiornare e migliorare il concetto dei diritti umani, sviluppò una propria teoria delle capacità, cioè degli elementi dell’esperienza umana che ogni persona dovrebbe essere in grado di sperimentare nella propria vita e che la società dovrebbe garantirle.
Nell’introduzione di La tradizione cosmopolita, di cui pubblichiamo un estratto, Nussbaum spiega come ha strutturato il saggio: nei primi cinque capitoli riassume la storia del cosmopolitismo a partire dalle opere di alcuni grandi pensatori della storia (Cicerone, gli stoici greci, il filosofo olandese Ugo Grozio (1583-1645) e il teorico del liberismo Adam Smith), mentre in quelli successivi affronta cinque temi problematici in relazione al cosmopolitismo nel mondo contemporaneo.
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Il primo di questi temi ha a che fare con la psicologia morale: un terreno su cui Cicerone ci offre a mio avviso una soluzione promettente, da sviluppare ulteriormente. Così come possiamo sostenere l’importanza sia intrinseca che motivazionale dei legami con la famiglia e con gli amici senza per questo negare che siamo in debito anche verso i nostri concittadini (di qui probabilmente l’importanza di un sistema fiscale giusto), allo stesso modo è possibile coltivare (attraverso l’educazione morale e civica) un tipo di patriottismo compatibile, da un lato, con forti legami familiari, amicali e personali e, dall’altro, con lo sviluppo di rapporti di riconoscimento e di attenzione con chi vive fuori del nostro paese. Gli esempi sono numerosi, e i grandi leader politici, come Lincoln, Nehru, Franklin D. Roosevelt o Martin Luther King, sono riusciti, almeno a tratti, a promuovere nel proprio paese lo sviluppo di questa forma di attenzione più ampia e sfaccettata.
Un secondo problema è rappresentato dalle molteplici «dottrine omnicomprensive», ossia dalle varie visioni, religiose o secolari, della buona vita umana. I pensatori della tradizione cosmopolita tendevano a credere che esistesse un’unica visione normativa corretta e che le persone andassero governate in conformità con essa. Ma già ai tempi di Grozio, e ancor più di Smith, c’erano persone che la pensavano diversamente: essi ritenevano che la libertà religiosa e l’assenza di una chiesa ufficiale fossero componenti chiave di qualsiasi ordine nazionale giusto. Anche il cosmopolitismo deve arrivare a riconoscere questo aspetto. Io approfondisco, e approvo, la forma generalizzata di questa idea: quello che John Rawls ha chiamato «liberalismo politico», l’idea cioè che i principi politici non possano essere fondati su un’unica dottrina generale e debbano rifuggire il più possibile dal settarismo, pur facendo proprie alcune dottrine morali di base idonee a raccogliere un «consenso per intersezione» tra i sostenitori di tutte le dottrine omnicomprensive ragionevoli. A questo punto, cerco di illustrare quale possa questa idea nel contesto più ampio dei rapporti tra paesi, e quale tipo di società internazionale possa fondarsi su di essa. Su questo terreno il cosmopolitismo dev’essere assolutamente corretto; ma buona parte dei suoi contenuti rimangono validi, come dimostra il movimento internazionale per i diritti umani (che già Maritain considerava una forma di liberalismo politico).
I due problemi successivi sono più spinosi dei precedenti. Entrambi partono dal riconoscimento dell’importanza sia pratica che normativa della nazione. La centralità normativa di quest’ultima, per Grozio, deriva dal fatto che la nazione è l’entità più grande capace, da un lato, di fungere da strumento efficace dell’autonomia umana e, dall’altro, di essere responsabile verso le persone. Inoltre, la nazione ha una grande importanza pratica: le sue istituzioni hanno un grande potere nel mondo attuale, in quanto sono le sedi in cui trovano attuazione sia i doveri di giustizia che quelli di aiuto materiale. Se la nazione non fosse normativamente tanto importante, sarebbe auspicabile individuare un’entità che possa sostituirla sul piano pratico; ma la sua centralità normativa ci consiglia di tenere a freno simili ambizioni.
Dato questo duplice ruolo – normativo e pratico – della nazione, il nostro terzo problema è la perdurante fragilità e inefficacia del diritto internazionale dei diritti umani. Questa debolezza, oltre che vera da un punto di vista fattuale, è anche normativamente auspicabile, alla luce del ruolo morale essenziale della nazione. Tuttavia, rimane problematica: quali strutture dovremmo sostenere, se abbiamo a cuore il benessere delle persone ovunque si trovino? Focalizzandomi sul caso dei diritti umani femminili, affermo che gli accordi internazionali hanno soprattutto un valore morale e dimostrativo, assai più che legale, e che comunque essi possano favorire l’evoluzione giuridica nelle singole nazioni. Il diritto internazionale non incide direttamente sulle leggi nazionali, e probabilmente è giusto così. Ma ciò non significa che i movimenti e le leggi internazionali siano impossibilitati a produrre veri cambiamenti. Il diritto internazionale dei diritti umani aiuta i movimenti politici a organizzarsi per combattere le ingiustizie e cambiare le cose nella propria nazione. Con buona pace di tanti teorici dei diritti umani, è bene che le cose restino così, alla luce dello statuto morale della nazione e della sovranità nazionale, di cui sono fermamente convinta.
Il mio quarto problema è simile al precedente: che fare riguardo all’aiuto materiale, considerando il ruolo delle nazioni. Anche questo è un tema normativo e al tempo stesso pratico. Possiamo portare argomenti morali molto forti a sostegno dell’idea che la morale imponga alle nazioni ricche e ai loro cittadini di aiutare molto più di oggi i paesi poveri. È una tesi negata dalla dicotomia: ma tutto il mio ragionamento verte proprio sul suo superamento. Gli aiuti, se elargiti in modo paternalistico, possono comportare problemi sul piano normativo: la prima questione, dunque, è come dare aiuto senza violare il diritto altrui a darsi proprie leggi. Ma oggi iniziamo a comprendere che, anche se risolvessimo il problema normativo, rimarrebbe comunque un problema di ordine pratico. Prove crescenti, presentate in modo estremamente persuasivo dall’economista Angus Deaton ma confermate da molti altri studiosi dell’economia e delle relazioni internazionali, indicano che gli aiuti internazionali sono essenzialmente inutili, e spesso addirittura controproducenti, in quanto la dipendenza da risorse finanziarie esterne intacca la volontà politica del paese beneficiario degli aiuti di gestire la sanità, l’istruzione e così via in modo efficace e durevole. Che fare, allora, visto che siamo moralmente tenuti a fare qualcosa, ma non riusciamo a capire che cosa possiamo fare per migliorare davvero le cose? Provo ad azzardare una risposta cauta ma non del tutto sconfortante a questa domanda.
Quinto, e ultimo, dobbiamo fare i conti con il problema dell’emigrazione: dei rifugiati che chiedono asilo per sfuggire alle persecuzioni e alle guerre e dei migranti che cercano una vita migliore (due motivazioni non sempre facilmente distinguibili, alla luce dell’importanza delle condizioni materiali per l’esercizio dei nostri poteri umani). Questo problema è stato ignorato da gran parte della tradizione cosmopolita, sebbene un primo passo pratico importante in tal senso risalga proprio ai romani (l’estensione della cittadinanza romana alla maggior parte dell’impero), e sebbene Smith abbia osservato in modo caustico come il problema delle disuguaglianze di ricchezza tra i vari paesi dipenda in larga parte dallo sfruttamento coloniale. Quali che siano le cause della disperazione che spinge tante persone a fuggire dalla propria terra, dobbiamo avere qualcosa da dire in proposito, se vogliamo accertare la praticabilità del progetto cosmopolita ai nostri giorni. Si tratta di un problema filosofico gigantesco, che richiederebbe un libro a parte, ed è già stato affrontato da alcune eccellenti analisi filosofiche. Qui mi limiterò ad abbozzare brevemente l’approccio che bisognerebbe seguire alla luce del tipo di visione che sto sviluppando, in coerenza con la mia difesa del ruolo della nazione e dell’identità nazionale.
Come è facile notare, fin qui non ho detto nulla su uno dei maggiori problemi della tradizione cosmopolita: il disprezzo per gli animali non umani e per il mondo della natura. Per questa tradizione, il fondamento dei nostri doveri risiede nel valore e nella dignità dell’agentività morale/razionale. Questo approccio non è ottimale neanche per gli esseri umani, in quanto esclude chi ha gravi disabilità cognitive, che pure è nostro concittadino e dev’essere considerato come un essere dotato di pari valore. E certamente esclude gli animali non umani: anzi, la tradizione spesso argomenta a favore del valore dell’umanità proprio contrapponendo a essa le «bestie brute», intese in senso peggiorativo. Ci occorre una politica internazionale che sia davvero cosmopolita: una politica che, come spiego, dev’essere fondata sul valore e sulla dignità degli organismi fisici senzienti, e non della sola ragione. Questo ampliamento di prospettiva risale forse all’inizio della tradizione, allo stesso Diogene il Cinico, che non provava alcuna vergogna del proprio corpo e non era particolarmente attratto dall’idea di una gerarchia delle facoltà. Ma questo approccio fu lasciato cadere dai pensatori successivi, ai cui occhi era troppo radicale. […]
Nell’ultimo capitolo, intitolato «Dal cosmopolitismo all’approccio delle capacità», indico a che punto siamo: a una versione del mio approccio delle capacità che include tutte le nazioni e tutte le persone, ma assegna un ruolo speciale alla nazione. In questo capitolo mi chiedo che cosa dobbiamo pensare delle rispettive pretese della nazione e del mondo e quali siano le prospettive delle emozioni morali in un mondo sempre più complesso. Quanto alla dicotomia dei doveri, come pensare i diritti economici e sociali come doveri nazionali? Ed esiste, alla luce dei problemi sollevati nel precedente capitolo, un modo proficuo per estendere tali doveri al mondo intero? Concludo sottolineando che l’approccio della tradizione mantiene un valore generale (anche se non nei dettagli): i doveri morali non finiscono ai confini della nostra nazione, e tutti noi siamo reciprocamente connessi a chiunque altro da legami di riconoscimento e attenzione.
Chiudo […] con la sfida più grande in assoluto: estendere la tradizione cosmopolita agli animali non umani e al mondo della natura. Lo stoicismo era, tra le varie scuole filosofiche dell’antica Grecia, la meno attenta alle esigenze morali degli animali non umani, che gli stoici consideravano creature brute, ignorando qualsiasi prova delle loro capacità complesse e restando indifferenti alla loro capacità di sentire. Possiamo e dobbiamo fare meglio di così.
© 2019 by Martha C. Nussbaum
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