L’isolamento del ceppo italiano del coronavirus non è una gran scoperta, dicono gli stessi ricercatori
«Abbiamo fatto quello che dovevamo fare», ha detto Massimo Galli, primario del reparto di malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano
Giovedì sera i ricercatori dell’ospedale Sacco di Milano hanno annunciato di aver isolato il ceppo italiano del coronavirus (SARS-CoV-2), di cui finora ci sono 650 casi di contagio in Italia.
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Il lavoro di ricerca, coordinato dalla professoressa Claudia Balotta, e a cui hanno partecipato i ricercatori Alessia Loi, Annalisa Bergna, Arianna Gabrieli, Maciej Tarkowski e Gianguglielmo Zehender, permetterà di studiare con maggiore dettaglio il virus, ottenerne la sequenza genetica e cercare un vaccino.
L’isolamento del virus contribuirà quindi a trovare una cura ma, intervistato dal TG1, il primario del reparto di malattie infettive del Sacco, Massimo Galli, ne ha parlato come di qualcosa che andava fatto, e non come di qualcosa di eccezionale:
«Come ho già detto in altre occasioni non è ‘sta gran scoperta, abbiamo fatto quello che dovevamo fare, cioè arrivare all’isolamento del ceppo in circolazione (dei ceppi, perché in realtà gli isolamenti sono stati quattro da quattro pazienti diversi) nella cosiddetta zona rossa o comunque in circolazione in questo momento in Italia. È un contributo, credo, importante ma anche modesto, un atto dovuto, però non posso togliere niente ai meriti, alla volontà e alla capacità di lavoro dei miei collaboratori con tutto questo, ma è quello che dovevamo fare per dare il nostro contributo alla possibilità di sviluppo di piani di ricerca sul vaccino. E soprattutto è uno degli aspetti per andare a cercare di capire come si è mosso il virus in questo nostro paese. Da un bel po’ di tempo in qua, qualche settimana, è sotto traccia: dobbiamo anche vedere se è veramente così e provare questo».
Nell’intervista Galli ha anche confermato la precarietà lavorativa di alcuni dei ricercatori che hanno contribuito all’isolamento del virus, dicendo che «la ricerca in Italia qualcuno l’ha definita un’attività adolescenziale non remunerata: questi giovani che hanno voglia di fare fanno, nonostante tutto, in condizione di precarietà assoluta. Non è una novità quel che dico».