Cos’hanno in comune l’Etiopia e New York
Lo racconta il nuovo numero di Cartography, una rivista per chi viaggia per capire il mondo
È appena uscito l’ultimo numero di Cartography, una rivista di grande formato dedicata ai viaggi fondata da Paola Corini, che lavora nell’organizzazione di mostre, e Luca De Santis, art director, fotografo e videomaker. La rivista esce due volte all’anno solo su carta, in inglese e in italiano, e in ogni numero racconta tre luoghi e itinerari: in questo ci sono 9 giorni in Etiopia, 12 dalla Toscana alla Corsica e 9 a New York. Ogni meta è accompagnata da un articolo e da un servizio fotografico e a parte c’è un fascicoletto con consigli di ristoranti, alberghi, musei, librerie, parchi e archivi da visitare.
Cartography – spiega De Santis – vuole essere «un archivio, un contenitore che cerca di avvicinare la diversità e far diventare il mondo un po’ più piccolo»; c’è molta narrativa di viaggio ma l’aspetto antropologico è sempre presente perché Cartography è pensato per «chi viaggia per comprendere il mondo». Per questo in ogni numero c’è un’intervista a un antropologo, a un’etnologo, a uno studioso che aiuti ad «avvicinare le culture e a farle comprendere di più».
Da qui anche la scelta di avvicinare nello stesso numero le tribù della valle dell’Omo in Etiopia e le tante comunità di New York: «per avere un confronto» spiega De Santis «per imparare che siamo molto diversi – ci accoppiamo per ragioni diverse, seppelliamo i morti per ragioni diverse – ma esistiamo e possiamo prendere il meglio e provare a stare insieme».
Cartography si può comprare online sul sito, nelle librerie di alcuni musei (come il PS1 MoMA di New York e il Palais Tokyo di Parigi) e in edicole e librerie indipendenti come l’Edicola 518 di Perugia, Verso e Reading Room sempre a Milano.
New York City
Testo di Sam Reiss
Traduzione di Anna Bissanti
Fotografie di Adrianna Glaviano
C’è un grande emporio russo di alimentari all’estremità di Brighton Beach, in fondo a Brooklyn, fuori dalla fermata della linea Q della metropolitana, vicino al mare. Il negozio è situato in un vecchia sala cinema risalente più o meno agli anni Trenta, una di quelle con le scalinate di sei metri che si possono vedere all’anteprima di un film o nella scena di un tipico spettacolo di Broadway. In quell’emporio non ci sono luci, ma fuori sono allineate varie file di sedie e, quando ci siamo andati a dicembre, ognuna di esse era occupata: l’intera parete era affollata di russi sui cinquanta-sessanta anni, seduti a osservare l’andirivieni dei pedoni in una giornata con una temperatura inferiore ai dieci gradi.
A Brighton Beach il cinema-negozio di alimentari è soltanto uno dei tanti. Nel quartiere ve ne sono in abbondanza. In quello si trovano per metà alimenti reperibili in una qualsiasi catena di grandi supermercati americani e per metà specialità russe, mescolate le une agli altri. Puoi trovare il caviale accanto alle bibite Monster Energy, le mele vicino all’aneto, lo yogurt greco a fianco di quelli con scritte in cirillico. È più grande e appariscente della maggior parte degli altri negozi di alimentari di Brighton e di altri quartieri di Brooklyn e del Queens, quelli che compaiono in questa serie di foto.
Da sempre esistono due New York, ma la linea di confine tra le due dipende dalla persona alla quale lo chiedi e a che ora del giorno lo fai. Chi decide in che modo dividere in due la città? Vi sono alcuni modi alquanto ovvi. Separare Manhattan da tutto il resto resta il modo più valido, anche se meno utile negli ultimi vent’anni. Dividere la città tra Brooklyn e qualsiasi altra zona è un modo moderno di delineare un confine, anche se meno utile della divisione sopra menzionata. Non tiene conto di molte cose, e Brooklyn è grande, molto grande.
Una terza divisione è quella tra l’area dei pendolari metropolitani e la zona ancora oltre, la “one-transfer zone” dove soltanto un autobus o un tratto di metropolitana ti consente di raggiungere un ufficio o un posto di lavoro a Manhattan o a Downtown Brooklyn, dove lavorano in tanti. Vi sono anche modi non-geografici per dividere la città: originari di qui e non, gente appena arrivata in città e non, persone stabilitesi qui per sempre e persone di passaggio. Quanto più ho trascorso tempo in quei quartieri, tanto meno sono sicuro che tali distinzioni esistano sul serio.
Adrianna Glaviano, che ha scattato queste fotografie, è cresciuta a Manhattan e a Brooklyn, e ha trascorso gli ultimi dieci anni vivendo perlopiù all’estero, soprattutto in Italia, e poi in Francia e in Grecia. Astoria – il quartiere del Queens da cui provengono molte di queste fotografie – è stato la sua prima tappa naturale in questo progetto.
“La Grecia mi ha sempre interessato molto” dice. “Dovendomi trasferire a New York, dopo aver vissuto in altre città per dieci anni, ho avuto la sensazione che quartieri come questi esistessero a questo livello soltanto a New York. Astoria era simile alla Grecia, piena di supermercati nei quali puoi trovare tutto quello che desideri, in giro senti parlare greco e ogni cartello stradale è scritto in greco. Quando cresci a New York non te ne accorgi, perché è normale, ma quando ritorni scopri quanto sia incredibile che esista una cosa di questa portata”.
Con i suoi 8,5 milioni di abitanti, e altri 2,5 milioni circa sia a Brooklyn sia nel Queens, New York ovviamente è enorme. Le comunità crescono e si espandono in quartieri diversi e si trasformano con il passare del tempo. Brighton Beach è la comunità russa più grande d’America, ma molti russi vivono anche a Gravesend, Sheepshead Bay, e Midwood.
A Sunset Park, non molto distante, c’è la grande Chinatown di Brooklyn, ma la comunità cinese si estende fino a Dyker Heights, Bensonhurst e Bath Beach. (Ci sono tre Chinatown a Brooklyn, tre nel Queens e una a Manhattan.) In passato abitata da una grande comunità LGBTQ – molti artisti vi si trasferirono dalla zona dei teatri – e da una folta popolazione ebraica, negli anni Sessanta Jackson Heights è cambiata per accogliere un numero sempre più grande di immigrati latinoamericani e sudamericani e di esponenti del ceto medio, molti dei quali con famiglia. In questo quartiere una lingua convive accanto a un’altra.
Proprio accanto Woodside, nel Queens, un tempo era perlopiù popolato da irlandesi, ma da allora è diventato un quartiere più cinese. Da Donovan, che occupa un intero isolato della città, si possono gustare ottimi hamburger. Passeggiare lungo Roosevelt Boulevard significa vivere un bombardamento sensoriale. Le insegne cambiano da inglese a spagnolo, da urdu a hindi a russo talvolta in un unico isolato, in qualche altro caso sono l’una a fianco all’altra. Tutti i negozi sembrano piccoli e, chissà perché, le catene sembrano piccole anch’esse.
L’autunno scorso, quando Adrianna e io siamo andati in giro un po’ ovunque, siamo stati cacciati dai negozi di generi alimentari di Brighton e accolti in bar e social club, abbiamo condiviso un pasto economico sedendo accanto a monaci tibetani e abbiamo giocato, o quanto meno cercato di giocare, a pingpong contro alcuni ebrei chassidici.
Viviamo entrambi a New York in permanenza in quartieri diversi da quelli che abbiamo visitato, quindi in un certo senso abbiamo viaggiato, ma senza spostarci di molto. Il nostro è stato un unico viaggio, ma differente. Molte nostre interazioni sono state puramente estetiche, come passeggiare per strade non poi tanto dissimili da quelle nelle quali abitiamo, fermarci all’improvviso davanti a un edificio o a un’insegna o ad alcuni outfit. Dato che questa è New York, quasi nessuno ha fatto caso a noi.
Quanto è diversa l’altra New York? Non moltissimo: le catene dei negozi e gli edifici e il clima sono gli stessi, come anche i treni. Le insegne appaiono completamente diverse, hanno scritte risalenti a 10 o 30 anni fa e usano un linguaggio molto più diretto della maggior parte di quelli usati da noi: Panther Personal Trainer, Wealthy Laundromat, Mega Dream bodega. “Sono io a scoprire dettagli casuali in un quartiere, a scoprirvi cose che si vedono in tutto il mondo” dice Glaviano, “ma diverse”. Un mondo capovolto e differente, che sbilancia i più giovani e i più vecchi – anche se forse siamo noi a essere sbilanciati.