Il coronavirus e il commercio di animali selvatici in Asia
La vendita di animali selvatici c'entra con le più recenti epidemie virali, compresa quella di COVID-19, e per questo in passato era stata vietata in Cina
Il coronavirus (SARS-CoV-2), così come il virus della SARS, quello della MERS, gli ebolavirus e l’HIV, prima di contagiare gli umani era diffuso tra diverse specie di animali selvatici. Nel caso di SARS-CoV-2 non sappiamo ancora con certezza da quale specie sia avvenuto il cosiddetto spillover, cioè il passaggio alle persone, ma si sospetta che c’entrino i pangolini. Si ritiene con una certa sicurezza però che il contagio sia partito da un mercato dove si vende carne di animali selvatici, a Wuhan: per questo, come era già successo ai tempi dell’epidemia di SARS e quella di MERS, chi si occupa di difesa degli ambienti naturali dice che bisognerebbe vietare il commercio di animali selvatici in Asia, dove queste epidemie hanno avuto origine.
La Cina e i paesi del sud-est asiatico sono quelli in cui è più probabile che si diffondano malattie zoonotiche, cioè inizialmente trasmesse alle persone dagli animali, per una combinazione di fattori. Uno sono i processi di deforestazione e gli altri tipi di trasformazione dell’ambiente naturale in corso in questi paesi: fanno sì che le persone e gli animali domestici vivano a stretto contatto con le specie selvatiche e quindi possano esserne infettati. L’altro è l’alta richiesta – soprattutto in Cina – di carne di animali selvatici, considerata una prelibatezza, e di altri derivati dei loro corpi per la produzione di farmaci della medicina tradizionale cinese. Le scaglie di pangolini, per esempio, sono molto ricercate proprio per questo motivo.
Non ci sono dati certi sulla dimensione del commercio globale di animali selvatici, spiega un articolo del New York Times, anche perché si tratta in parte di traffici illegali, ma esistono delle stime: secondo uno studio pubblicato lo scorso ottobre su Science, una delle più autorevoli riviste scientifiche del mondo, sarebbero 5.600 le specie di animali selvatici che vengono comprate e vendute nel mondo, quasi un quinto di tutte le specie di vertebrati conosciuti. Alcune di queste specie sono protette perché a rischio di estinzione (tra queste ci sono i pangolini), altre no: oltre ad animali diffusissimi come i ratti, ci sono serpenti, rane e pipistrelli, che secondo diversi studi sono i mammiferi con le più alte probabilità di diffondere nuovi virus tra gli esseri umani. In Cina le specie di animali selvatici di cui è consentito il commercio sono 54.
Gli spillover sono fenomeni rari, ma è più probabile che avvengano nei posti in cui ogni giorno avvengono milioni e milioni di contatti tra animali selvatici e persone, i mercati appunto. Nei mercati asiatici le probabilità di uno spillover sono aumentate dal fatto che spesso gli animali sono trasportati e venduti vivi. Un virus può passare dal cadavere di un animale ad altri animali solo per un periodo limitato di tempo, dopodiché muore. Inoltre nei mercati in cui diversi tipi di animali vivi si trovano all’interno di gabbie messe l’una sull’altra la trasmissione di patogeni è facilitata. Come ha detto al New York Times Christian Walzer, dirigente della fondazione americana Wildlife Conservation Society: «C’è un uccello che fa la cacca su una tartaruga che fa la cacca su una civetta delle palme. Per far saltare fuori il virus non si può fare meglio nemmeno provandoci».
Anche le norme d’igiene presenti in questi mercati contribuiscono al problema: non c’è l’abitudine di lavarsi le mani e vengono usati gli stessi piani di lavoro e gli stessi coltelli per tagliare tutti i pezzi di carne venduti, anche di specie diverse. In uno dei banchi del mercato di Wuhan da cui si pensa sia partita la diffusione del SARS-CoV-2 erano vendute più di otto specie di animali diverse. La trasmissione non avviene quando una persona mangia la carne cotta di un certo animale, ma quando ad esempio entra in contatto con il suo sangue a breve tempo dal macello, oppure se tocca una superficie sporca di escrementi: è molto facile che dopo aver toccato una superficie infetta una persona si tocchi la bocca o gli occhi, ed è così che avviene il contagio.
Cosa ha fatto la Cina da quando è arrivato il nuovo coronavirus
A gennaio, con la diffusione del nuovo coronavirus, il governo della Cina ha emesso un divieto temporaneo su tutte le forme di commercio di animali selvatici, in tutto il paese, nonostante una volta che un virus diventa trasmissibile tra le persone e non solo tra animali e persone, questo genere di divieti perda un po’ di senso: non è servito a ridurre la diffusione del SARS-CoV-2. Comunque durerà fino alla fine della crisi sanitaria in atto nel paese.
Lunedì scorso è stato annunciato che il governo sta lavorando a una legge per vietare «la dannosa abitudine di mangiare gli animali selvatici» in modo permanente, ma non è detto che entri davvero in vigore. Nel 2003, durante l’epidemia di SARS, era entrato in vigore un divieto sul commercio di animali selvatici, ma a un anno dalla fine della crisi sanitaria le cose erano tornate come prima e nonostante il grande impatto dell’epidemia non c’era stata una durevole riduzione della domanda di carne di animali selvatici. Anche in questi mesi, nonostante il nuovo coronavirus, la domanda di questi prodotti è rimasta, secondo una ricerca dell’organizzazione britannica Environmental Investigation Agency, che si occupa di crimini ambientali.
Peraltro sia in Cina che in altri paesi del sud-est asiatico vengono venduti, come rimedi contro il SARS-CoV-2, dei farmaci di medicina tradizionale cinese contenenti derivati di animali selvatici.
Il dibattito sul divieto del commercio di animali selvatici
Secondo alcuni esperti che si occupano di salvaguardia ambientale, il commercio di animali selvatici dovrebbe essere reso illegale in modo permanente per cercare di risolvere una volta per tutte il problema degli spillover ed evitare epidemie future. È da più di trent’anni che scienziati e ambientalisti lo chiedono.
C’è però anche chi pensa che un divieto totale non sia necessario, oltre che poco pratico. Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliance, un’organizzazione che si occupa di malattie infettive emergenti, tra le altre cose, ha detto al New York Times che non bisogna considerare il commercio di animali selvatici una pratica disdicevole: è diffusa in tutte le culture umane, sebbene si sia ridotta nei paesi occidentali. Secondo Daszak e altri scienziati la Cina dovrebbe più che altro fare controlli più rigidi su certe specie di animali, vietare il commercio di quelle con cui è più probabile che avvenga uno spillover, come i pipistrelli, e introdurre migliori regole di igiene nei mercati.