Inventario di alcune cose perdute
Il nuovo libro di Judith Schalansky raccoglie 12 storie di ville, isole, poesie, film e biblioteche smarrite, cercate e distrutte
Inventario di alcune cose perdute è il nuovo libro di Judith Schalansky, scrittrice e designer tedesca famosa soprattutto per l’Atlante delle isole remote, un libro che ebbe molto successo e ispirò la moda degli atlanti su qualsiasi cosa usciti negli ultimi anni.
Inventario di alcune cose perdute, appena pubblicato da Nottetempo, raccoglie dodici storie di cose smarrite o che non esistono più: l’ultimo esemplare della tigre del Caspio, impagliato e distrutto in un incendio; le lacune nelle poesie di Saffo; un atollo sprofondato durante un maremoto e cancellato dalle mappe solo 30 anni dopo; il primo film di Friedrich Wilhelm Murnau, disperso e mai andato in sala; i libri di Mani, fondatore del manicheismo, e poi ancora dipinti, biblioteche e lo scheletro di un presunto unicorno. Sono racconti di ricerche e ritrovamenti, perdite e conquiste, nella convinzione che «la distinzione tra presenza e assenza può essere marginale finché esiste la memoria». Schalansky, come per i suoi libri passati, ha curato anche la grafica dell’Inventario.
Schalansky è nata a Greifswald, in Germania, nel 1980. Il suo primo libro, Fraktur mon Amour (2006) è un trattato sui caratteri gotici, la sua prima opera di narrativa, Lo splendore casuale delle meduse pubblicato in Italia sempre da Nottetempo nel 2013, è il ritratto di un’insegnante di biologia in un paesino della DDR che sconfina a volta in un saggio di biologia romanzato.
Il successo internazionale è arrivato grazie all’Atlante delle isole remote, pubblicato in Italia da Bompiani nel 2013. Raccoglie 50 isole sperdute che Schalansky sognava di visitare sin da piccola. Ognuna ha una doppia pagina: a sinistra, informazioni basilari come il nome, la nazione, le coordinate geografiche, la distanza dalle coste più vicine, seguite da un racconto semi-fittizio che ne ricostruisce la storia semi-mitologica e quasi mai a lieto fine, tra catastrofi naturali, guerre, test nucleari e cannibalismo; a destra c’è una mappa disegnata dalla stessa Schalansky.
L’Atlante vinse molti premi di design e venne scelto come libro più bello dell’anno dalla Fondazione per le arti tedesche. In Italia ha venduto finora 30 mila copie (di cui 10 mila nell’edizione tascabile).
Di seguito riportiamo, nella traduzione di Flavia Pantanella, la nota introduttiva dell’Inventario di alcune cose perdute scritta da Schalansky, che è un altro repertorio di oggetti smarriti e ritrovati, e un estratto da una delle 12 storie, quella dedicata a una villa progettata a Roma dal pittore e architetto Pietro da Cortona e poi caduta in rovina, dove si parla di Giovanni Battista Piranesi, l’architetto che nelle sue incisioni ricostruì o inventò la grandezza dell’antichità.
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Nota dell’autrice
Mentre lavoravo a questo libro la sonda spaziale Cassini si disintegrò nell’atmosfera di Saturno; il lander marziano Schiaparelli si schiantò sul roccioso paesaggio color ruggine del pianeta che avrebbe dovuto analizzare; un Boeing 777 scomparve senza lasciare tracce mentre volava tra Kuala Lumpur e Pechino; a Palmira vennero rasi al suolo i templi di Bel e Baalshamin, antichi di duemila anni, la facciata del teatro romano, l’arco di trionfo, il tetrapilo e parti del colonnato; nella città irachena di Mosul furono distrutte la Grande Moschea di al-Nuri e la moschea del profeta Giona, e in Siria fu ridotto in cenere il monastero paleocristiano di Mar Elian; durante un terremoto a Katmandu la torre Dharahara crollò per la seconda volta; un terzo della Muraglia Cinese fu vittima di vandalismo ed erosioni; ignoti rubarono la testa del cadavere di Friedrich Wilhelm Murnau; in Guatemala s’insabbiò il lago di Atescatempa, un tempo noto per le sue acque verdeazzurre; l’arco di roccia della Finestra Azzurra precipitò nel Mar Mediterraneo davanti all’isola di Malta; nella Grande barriera corallina si estinse il ratto dalla coda a mosaico originario di Bramble Cay; l’ultimo maschio di rinoceronte bianco settentrionale fu soppresso all’età di quarantacinque anni, lasciando in vita solo due esemplari di questa sottospecie: la figlia e la nipote; da un laboratorio dell’Università di Harvard scomparve l’unico campione di idrogeno metallico ottenuto dopo ottant’anni di ricerche infruttuose, e nessuno sa se la microscopica particella sia stata rubata, distrutta, o sia semplicemente tornata allo stato gassoso.
Mentre lavoravo a questo libro un bibliotecario della Schaffer Library di New York trovò in un almanacco del 1793 una busta contenente delle ciocche di capelli argentei di George Washington; riapparvero un romanzo di Walt Whitman ancora sconosciuto e l’album scomparso del sassofonista jazz John Coltrane Both Directions at Once; un tirocinante diciannovenne del Kupferstichkabinett di Karlsruhe scoprì centinaia di disegni di Piranesi; si riuscì a decifrare una doppia pagina del diario di Anna Frank con della carta da pacchi incollata sopra; venne identificato l’alfabeto più antico del mondo, inciso 3800 anni fa su tavole di pietra; furono ricostruiti i dati delle fotografie scattate dagli orbiter lunari nel 1966-67; vennero scoperti i frammenti di due poesie di Saffo prima ignote; nella savana alberata del Brasile alcuni ornitologi avvistarono più volte la Columbina cyanopis, creduta estinta dal 1941; un’équipe di biologi scoprì la specie Deuteragenia ossarium, una vespa che costruisce grossi nidi nelle cavità degli alberi e lascia in ogni cella un ragno morto come fonte di nutrimento; nell’Artide furono ritrovate Erebus e Terror, le navi della spedizione Franklin dichiarata fallita nel 1848; nel Nord della Grecia alcuni archeologi portarono alla luce un immenso tumulo, probabilmente non l’ultima dimora di Alessandro Magno, ma forse quella del suo compagno Efestione; vicino al complesso templare di Angkor Wat in Cambogia fu scoperta Mahendraparvata, la prima capitale khmer, che deve essere stata il più grande insediamento medievale; alcuni archeologi s’imbatterono in un laboratorio di mummificazione nella necropoli di Saqqara; nella costellazione del Cigno, a 1400 anni luce dal Sole, in una cosiddetta zona abitabile fu trovato un corpo celeste sul quale – dato che la sua temperatura media è all’incirca allo stesso livello di quella della Terra – può darsi che ci sia acqua o che una volta ci sia stata, e di conseguenza anche vita, così come noi la immaginiamo.
Valle dell’Inferno
Villa Sacchetti anche detta Villa al Pigneto del marchese Sacchetti
* Commissionata dai fratelli Giulio e Marcello Sacchetti e costruita tra il 1628 e il 1648, Villa Sacchetti è considerata la più importante opera giovanile dell’architetto Pietro da Cortona.
† Verso la fine del XVII secolo la casa padronale mostra già i primi segni di decadenza. A metà del XVIII secolo crollano entrambe le ali dell’edificio; le ultime rovine vengono rimosse dopo il 1861.
Pochi hanno cura della conservazione delle rovine romane, ma di certo nessuno lo fa con la passione e l’energia bellicosa del veneziano Giovanni Battista Piranesi, che litiga con chiunque gli rivolga la parola o si premuri per lui. Pertanto è quasi un miracolo che quest’uomo, che predilige la compagnia delle pietre a quella degli uomini, a trentadue anni trovi una moglie che lo sopporti e metta al mondo cinque figli, sebbene lui spenda l’intera dote, una somma non irrilevante, per acquistare una grossa scorta di lastre di rame.
Tanto l’inclinazione al dissidio e all’irascibilità quanto la dedizione e il sacrificio caratterizzano quest’uomo alto dagli occhi di uno scuro splendore, e chi sostiene che basti un quarto d’ora in sua compagnia per incupirsi non riconosce il vero male di quel collerico dalla fronte corrucciata: le rovine gli parlano come se si trovasse in uno stato febbrile, gli tolgono la serenità e il riposo, ed evocano immagini a non finire, visioni che sente il dovere di immortalare per smentire tutti i posteri e gli ignoranti che osano sostenere la superiorità dell’arte greca su quella romana.
Irremovibile come un innamorato, punta il dito contro un presente irriflessivo, la cui terribile stupidità, scrive instancabile nei suoi pamphlet, dovrebbe far disperare chiunque sia consapevole dell’immensa superiorità del passato. E Piranesi la conosce bene, l’ha vista con i suoi occhi, perché gli antichi popolano i suoi sogni da quando, bambino, a casa dello zio, un ingegnere cui spettava la manutenzione delle mura di contenimento dell’importuno Mare Adriatico, leggeva gli annali di uno storiografo romano nel soggiorno rischiarato dallo scintillio della laguna.
E poiché il presente, come fanno i coralli, si insedia sempre su qualcosa che sta affondando, il suo corpo, non vecchio ma già grave, è attratto da una forza magnetica negli abissi, nelle viscere della terra, nelle cantine dai soffitti a volte e nelle catacombe, nei complessi tombali sepolti lungo le strade consolari al di là delle mura cittadine, dove gli antichi Romani, che temevano il regno di Plutone più di ogni altra cosa, esiliavano i morti. Là, da quando innumerevoli guerre avevano insegnato loro che solo bruciare i corpi li protegge dalla profanazione del nemico, avevano costruito delle necropoli che custodivano solo le ceneri dei defunti.
Così Piranesi, armato di accetta e fiaccola, avvolto in un mantello nero e illuminato dalla luna come un personaggio dei romanzi a venire, si fa strada attraverso la sterpaglia e la penombra e accende il fuoco per scacciare serpenti e scorpioni. Scavando con la zappa e la vanga s’immerge nelle profondità della terra, porta alla luce piedistalli e sarcofagi, scopre antiche costruzioni militari prive di fortificazioni e ponti erosi dalle intemperie cui mancano contrafforti e piloni, analizza opere murarie e ordini architettonici, studia facciate e fondamenta, decifra le iscrizioni dei colombari e ricopia le scanalature delle colonne e i fregi degli archi, abbozza piante e prospetti di arene e gabbie di animali feroci, le sezioni trasversali e verticali di templi e fortezze ricoperte di sterpi – e con mano instancabile disegna leve e travi, ganci e catene, pendoli e supporti, indispensabili per edificare tanta imponenza.
Non c’è pietra così muta, muro così friabile, colonna così menomata che lui non riesca a scorgervi le membra e i muscoli in cui un tempo si articolava il corpo forzuto di questa città, i vasi sanguigni e gli organi che allora lo nutrivano: ponti e grandi vie di comunicazione, acquedotti e cisterne, ma soprattutto le canalizzazioni diramate della labirintica cloaca maxima, che lui, malgrado o forse proprio perché rimanda ai bisogni più bassi, considera l’apice dell’architettura, e la cui grandiosità, a suo giudizio, supera perfino le sette meraviglie del mondo. Come aveva fatto un secolo prima l’anatomista Vesalio con i cadaveri ancora caldi di assassini condannati, Piranesi disseziona i corpi architettonici in sfacelo, relitti di un impero decaduto, ai suoi occhi tramontato senza averne colpa.
Da queste rovine eloquenti l’architetto, che non costruirà neanche un edificio in vita sua, progetta la pianta di un passato vagheggiato e al tempo stesso la visione di un’opera completamente nuova che, trasposta nelle sue incisioni su rame, avvince più persone di quanto possa fare qualsiasi costruzione saldamente ancorata alla realtà.
Quando nel suo laboratorio si china sul metallo freddo e lucido e riporta i veloci schizzi a sanguigna sulla lastra incerata – un’infinità di strisce, punti e uncini, forme simili a macchie e linee vibranti che di rado s’incrociano, benché a ogni dettaglio prendano una direzione nuova, come se cambiassero rotta – il suo sguardo sicuro penetra sedimenti e materiali. Immerge la lastra in una bacinella e a ogni ripetizione copre delle aree mentre ne bagna delle altre, cosicché l’acido s’infiltra fin nei solchi più sottili, fissando per sempre quel che non vuole e non può dimenticare.
Quando i grandi fogli si liberano dai rulli, il sole batte impietoso sulle incisioni all’acquaforte, le ombre sono morbide e nere come l’oblio, le fughe quasi infinite, gli angoli visuali sono fantastici e gli edifici fatiscenti sono colossali perfino nelle vedute dall’alto. Sullo sfondo di un cielo infuocato i monumenti si stagliano audaci su una massa brulicante di figure minute, esili arlecchini che agitano le braccia. A costruire questa città devono essere stati dei giganti, ciclopi romani all’apice della loro creatività.
© Suhrkamp Verlag Berlin 2018
© 2020 nottetempo srl
Traduzione di Flavia Pantanella