La persona più potente dell’intrattenimento sudcoreano
Miky Lee, produttrice esecutiva di "Parasite", ha capito prima degli altri che la cultura del suo paese si poteva esportare e ha saputo farlo
Il 9 febbraio, sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles dove il film sudcoreano Parasite aveva appena ricevuto l’Oscar per il miglior film, l’ultima persona a parlare per i rituali ringraziamenti ha rischiato di non farlo. Per un malinteso, erano stati spenti i microfoni e abbassate le luci. Poi, anche grazie all’insistenza di chi era seduto nelle prime file – in particolare Tom Hanks e Charlize Theron – tutto è stato riacceso.
La 61enne produttrice Miky Lee – che non ha materialmente vinto l’Oscar per Parasite, ma che ne è stata produttrice esecutiva – ha così potuto fare il suo discorso. Ha ringraziato il regista Bong Joon-ho per essere sempre se stesso e ha detto di amare tutto di lui: «Il sorriso, i suoi bizzarri capelli, il modo in cui parla, il modo in cui cammina e, soprattutto, il modo in cui dirige i film». Poi ha anche ringraziato suo fratello e «il pubblico cinematografico sudcoreano, che non esita mai a dare opinioni molto dirette su quel che pensa dei nostri film». È stato uno di quelli che tutti vorrebbero fare, che sembrano spontanei e invece probabilmente sono preparati, e che in giusto un paio di minuti riescono a comunicare un messaggio, facendo anche ridere il pubblico.
"I really, really, really want to thank our Korean film audience, our moviegoers…without you, our Korean film audience, we are not here." https://t.co/8kz7m5vtnF #Oscars pic.twitter.com/QlZwYlKVMI
— ABC News (@ABC) February 10, 2020
Quasi di certo, la maggior parte degli spettatori che hanno visto quel discorso non aveva idea di chi fosse Lee. È invece il caso di saperlo: perché è la produttrice del primo film non in inglese che ha vinto l’Oscar per il miglior film, ma anche perché ha una storia notevole, che ha a che fare con la Corea del Sud, con la sua più grande azienda e le sue vicende politiche degli ultimi decenni. Ma anche, da molto prima degli Oscar, con gli Stati Uniti.
Lee – che ha 62 anni e il cui nome coreano è Lee Mi-kyung (la cui pronuncia ricorda più o meno l’inglese “Miky”, nome con cui è spesso chiamata) – è stata descritta come «la visionaria del cinema sudcoreano» e come «la più potente impresaria dei media della Corea del Sud»; e come ha scritto BBC «in tutto il cinema e in tutta la televisione coreana succede molto poco senza che ci sia di mezzo lei».
La prima cosa da dire su Miky Lee è che è la nipote di Lee Byung-chul, che negli anni Trenta fondò la Samsung Sanghoe, un’azienda allora specializzata nella distribuzione alimentare, tra le altre cose di pesce essiccato, e che oggi è il più grande e ricco chaebol del paese (il nome con cui in Corea del Sud sono noti i grandi conglomerati industriali gestiti, generazione da generazione, dalla stessa famiglia): Samsung. Lee è nata a Knoxville, in Tennesse, ma si trasferì in Corea del Sud quando aveva tre anni. Lì fece studi umanistici e in seguito andò a studiare anche a Taiwan, in Giappone e, infine, ad Harvard, negli Stati Uniti.
Qualche anno più tardi, quando per la prima volta si parlò dei suoi affari negli Stati Uniti, il Los Angeles Times scrisse che «mentre gli altri studenti coreani compravano vestiti firmati e andavano alle feste della gente che conta, lei faceva la spesa da Gap e insegnava il coreano». Le sue biografie raccontano che proprio in quel periodo Lee si accorse che c’era un considerevole interesse per diverse lingue e culture asiatiche, ma non per quelle della Corea del Sud. Dopo Harvard, e dopo aver nel frattempo studiato e vissuto anche a Hong Kong e Shanghai, Lee – che oltre all’inglese e al coreano parla fluentemente anche giapponese e mandarino – tornò negli Stati Uniti, dove c’era un lavoro che l’aspettava.
Nel 1987, l’anno in cui in Corea del Sud ci fu una importante transizione verso la democrazia, suo nonno – il fondatore di Samsung – morì e tutte le attività che aveva avviato e creato vennero redistribuite tra i membri della sua famiglia. Per via di complicate vicende familiari, a capo di Samsung finì il figlio minore del fondatore: Lee Kun Hee, lo zio di Miky Lee. Al padre di Miky Lee – Lee Maeng-hee, il primogenito del fondatore della Samsung – spettò invece un’azienda minore all’interno del gruppo: la Cheil Jedang, poi nota semplicemente come CJ; un’azienda di prodotti chimici e alimentari, molto più piccola di Samsung e descritta come «noiosa». Lee sarebbe dovuta finire alla CJ con il padre; invece lo zio, il nuovo capo della Samsung, la scelse per gestire gli affari americani dell’azienda.
Nel 1994, lavorando per Samsung dagli Stati Uniti, Lee entrò in contatto con tre investitori che volevano sapere se Samsung fosse per caso interessata a investire in una casa cinematografica che volevano aprire insieme. I tre erano Steven Spielberg, David Geffen e Jeffrey Katzenberg e la casa cinematografica era la DreamWorks. Lee ne parlò allo zio e lo convinse a sedersi a un tavolo per parlare di un possibile finanziamento da quasi un miliardo di dollari a una società che allora non aveva «né una sede né dei film pronti». Ci furono contatti e incontri, ma alla fine l’affare saltò. Spielberg disse che capì che «per diventare soci era meglio comunicare nella stessa lingua»; altre versioni dicono che gli americani si lamentarono del fatto che i sudcoreani fossero interessati solo «ai semiconduttori» e non al cinema; altre ancora che i sudcoreani ci rimasero male per il fatto che Spielberg volesse avere troppo controllo.
Lee – già allora interessata al cinema – voleva però collaborare con DreamWorks, e trovò il modo. Nel 1995, quando la DreamWorks aveva nel frattempo aperto senza i soldi della Samsung, ricontattò il trio e propose un nuovo accordo. Anziché dalla Samsung, i soldi per la DreamWorks sarebbero arrivati da CJ, l’azienda di suo padre e di cui lei, insieme a suo fratello Lee Jay-hyun, aveva pian piano preso il controllo. CJ, che nel frattempo si stava anche progressivamente staccando da Samsung, investì quindi 300 milioni di dollari nella DreamWorks ottenendo tra le altre cose una percentuale sui diritti di distribuzione per l’Asia.
Fu un’operazione ritenuta fondamentale per l’esistenza della casa di produzione, al punto che Katzenberg ha parlato di Lee come di una delle due persone senza le quali la DreamWorks non esisterebbe (l’altra è Paul Allen, co-fondatore di Microsoft primissimo finanziatore). Ma fu anche un accordo determinante nel trasformare CJ in una società che operava nel settore cinematografico e, più in generale, dell’intrattenimento. Grazie a Lee, CJ passò dall’essere un’azienda alimentare a un’azienda che collaborava alla produzione dei film di Spielberg, il regista che aveva da poco diretto film come Schindler’s List e Jurassic Park. E, come scrisse negli anni Novanta il Los Angeles Times, «il profitto generato da un film come Jurassic Park è equivalente a quello derivato dall’esportazione di 60mila automobili Hyundai».
Già negli anni Novanta, quindi, il nome di Miky Lee iniziò a farsi conoscere, in Corea ma anche in America, grazie a una serie di azioni che, scrisse il New York Times «lasciarono stupefatte molte persone dai due lati del Pacifico». Qualcuno criticava le sue scelte, qualcun altro già ammirava le sue capacità e il fatto che fosse, come scrisse sempre il New York Times, «un raro caso di donna d’affari di successo, in un contesto molto maschilista». Katzenberg disse: «Non trovammo nessuna affinità con Samsung, un’azienda da 65 miliardi di dollari. E non ha niente a che fare nemmeno con CJ. È tutto merito di Miky Lee».
CJ – che in realtà negli anni ha cambiato più volte nomi e assetti societari – esisteva dal 1953 e pochi giorni prima di vincere l’Oscar con Parasite, Lee ha detto all’Hollywood Reporter che prima di entrare nel settore dell’intrattenimento «l’azienda si era allargata anche nel settore biochimico e farmaceutico, ma era sempre restata un’azienda B2C» e che per iniziare a occuparsi dei media «dovette ricostruire tutto da zero». In un paese che a sua volta stava uscendo da anni politicamente complicati.
Nel 1998 CJ aprì il primo multisala della Corea del Sud (creando quella che nel frattempo è diventata la più grande catena di distribuzione cinematografica del paese, con importanti quote in diversi altri paesi). Aiutata anche da alcune leggi che obbligavano i cinema a trasmettere spesso film sudcoreani, CJ fece anche importanti investimenti nella produzione di film nazionali. Rich Gelfond, fondatore e capo della IMAX Corporation, ha detto: «Miky e la CJ sono stati dei pionieri per come hanno modernizzato e reinventato l’esperienza cinematografica».
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L’azienda seppe anche capire, sostenere e sfruttare la crescita dei nuovi autori del cinema sudcoreano che proprio in quegli anni iniziavano a fare film, tra i quali Bong Joon-ho. Lee fece qualcosa di simile anche in altri settori, per esempio quello musicale: controllando etichette discografiche e agenzie di musicisti e creando il KCON, il più importante evento mondiale (itinerante) legato al k-pop, il pop sudcoreano che sta avendo grande successo internazionale negli ultimi anni. Oltre al cinema e alla musica, CJ si buttò anche nella televisione, arrivando a gestire diversi canali, e nella ristorazione.
Nel 2013, Miky Lee disse, intervistata da Wired, che il suo sogno era di vedere «le persone di tutto il mondo apprezzare la cultura coreana», e spiegò che per farlo era fondamentale «impacchettare la cultura sudcoreana e portarla fuori dall’Asia». In un’altra intervista, fatta un anno dopo con Bloomberg, disse anche di immaginarsi che un giorno ci sarebbe stato «un mondo in cui le persone mangiavano cibo coreano una volta a settimana, ascoltavano ogni tanto musica coreana e guardavano un paio di film coreani all’anno».
Ci è in gran parte riuscita, ha spiegato l’Hollywood Reporter, «inglobando i suo concorrenti e proponendosi come un hub per la creazione e la produzione di contenuti di ogni tipo: film, musica, televisione, teatro e prodotti digitali, tutti sotto un solo tetto. È difficile trovare qualcosa nel cinema, nella televisione o nell’industria musicale sudcoreana in cui CJ non abbia messo le mani».
Sempre l’Hollywood Reporter ha scritto che Lee – che da alcuni anni vive in California – ha fatto tutto questo «con una passione e un’intensità quasi evangelica», in particolare quando si parla di cinema. Si racconta, per esempio, che fosse solita andare a visitare i produttori statunitensi portando loro DVD dei film sudcoreani. A proposito dei suoi gusti, tra i suoi film preferiti ci sono Mad Max: Fury Road, Love Story e Il giustiziere della notte e che tra i suoi attori preferiti ci sono Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Catherine Deneuve e Alain Delon.
Negli ultimi anni, l’ascesa di Lee e della sua società si è anche dovuta confrontare con le complicate vicende politiche della Corea del Sud, che hanno portato all’impeachment, alle dimissioni e all’incarcerazione dell’ex presidente Park Geun-hye ; e che avevano portato, nel 2013, all’arresto (con accuse di appropriazione indebita ed evasione) del fratello di Lee, al tempo capo del CJ Group. Il fratello che Lee ha ringraziato due volte sul palco degli Oscar – la seconda dicendo: «Grazie Jay, voglio ringraziare mio fratello Jay» – dopo che erano stati riaperti i microfoni e riaccese le luci. È una vicenda complicata, probabilmente legata al fatto che il fratello di Lee fosse inviso all’ex presidente, e in cui Miky Lee non è comunque mai stata coinvolta.
Ora CJ Group – la holding dell’intero gruppo, di cui Lee è formalmente ancora vicepresidente – ha entrate per oltre 25 miliardi di dollari l’anno e la CJ ENM, la sua parte che si occupa di intrattenimento ha una capitalizzazione di 2,9 miliardi di dollari: controlla più di 4mila sale cinematografiche nel mondo, ha prodotto 5 dei 10 film sudcoreani che hanno incassato di più nella storia, controlla 16 canali televisivi, supervisiona la pubblicazione di centinaia di canzoni l’anno ed è presente in 20 paesi fuori dalla Corea del Sud. Tra i piani di Miky Lee, ora che un suo film ha vinto l’Oscar, c’è la produzione di almeno un paio di film in inglese all’anno, oltre a quelli che già produce in coreano.