Ad Amsterdam si discute di schiavitù
Per centinaia di anni, tra il Seicento e l'Ottocento, la città e i suoi mercanti si arricchirono anche grazie alla tratta di schiavi e ora qualcuno chiede scuse ufficiali
Ad Amsterdam si discute da mesi di una mozione per chiedere alla città di presentare scuse formali per il ruolo avuto nella tratta degli schiavi, questione spesso poco indagata e dimenticata a causa soprattutto delle riforme politiche e sociali progressiste e tolleranti portate avanti dai Paesi Bassi nel periodo post-coloniale. La mozione, come è successo in altri casi simili, ha diviso chi pensa che sia giusto fare i conti con la storia e assumersene collettivamente la responsabilità e chi pensa che invece non ci si possa scusare per cose fatte da altri, centinaia di anni fa.
Tra il XVI e il XIX secolo, i Paesi Bassi furono tra i protagonisti delle politiche coloniali e della tratta degli schiavi, su cui si basò gran parte della loro prosperosa attività economica. Gli schiavi lavoravano nelle colonie che gli olandesi avevano in giro per il mondo, i banchieri e i commercianti erano coinvolti nella tratta per le Americhe, circa il 19 per cento di tutte le merci che arrivavano dai porti olandesi veniva prodotto nelle piantagioni. Ma anche la politica ebbe, secondo molti storici, un ruolo fondamentale.
Pepijn Brandon, storico della Libera Università di Amsterdam, ha spiegato al New York Times che la schiavitù «era uno dei motori dell’economia commerciale olandese della seconda metà del Diciottesimo secolo».
L’eredità della schiavitù, ha spiegato Brandon, è molto evidente, ad Amsterdam. I palazzi e gli edifici signorili del centro erano abitati da persone direttamente collegate al commercio di schiavi o alle industrie basate sulla schiavitù; i vari sindaci ne erano a conoscenza e l’attuale residenza del sindaco, sul canale Herengracht, era la casa del mercante Paulus Godin, direttore della Compagnia delle Indie occidentali (un’enorme e influente società di mercanti, anche se meno importante della Compagnia delle Indie orientali).
Infine, ci sono i legami con il Suriname, unico paese extra-europeo dove l’olandese è lingua ufficiale: Amsterdam era il terzo proprietario della Società del Suriname, che istituì, appunto, il commercio degli schiavi.
La Repubblica del Suriname è un piccolo stato che si trova sulla sponda atlantica dell’America meridionale, tra la Guyana a ovest e la Guyana Francese a est. Ha meno di mezzo milione di abitanti, più della metà dei quali oggi vive nella capitale Paramaribo. È stata una colonia olandese dalla metà del Seicento al 1975, dopodiché, anche a causa di una situazione politica molto critica, molti surinamesi emigrarono nei Paesi Bassi andando a vivere ad Amsterdam, ma in quartieri marginali come Bijlmermeer.
Bijlmermeer si trova nella zona sud-est della città, nacque tra gli anni Sessanta e Settanta, ma alla fine non riuscì ad attrarre molti olandesi. Divenne dunque un quartiere abitato soprattutto da migranti che qui potevano trovare appartamenti a prezzi accessibili ed è tuttora associato a povertà, criminalità, ad un alto tasso di disoccupazione e a una popolazione le cui origini si possono in gran parte far risalire al Suriname o alle altre ex colonie dei Paesi Bassi.
Proprio qui, negli ultimi mesi è cresciuto un movimento per spingere la città a fare i conti con questo capitolo della propria storia. Le scuse ufficiali per la storia della schiavitù non sono mai state formalizzate nei Paesi Bassi. Nel 2018, il sindaco di Rotterdam, Ahmed Aboutaleb, fece un appello affinché il governo si scusasse a nome del paese, riuscendo ad ottenere all’inizio del 2019 una semplice dichiarazione in cui si esprimevano «profondo rammarico e rimorso». Non delle scuse, ma un piccolo passo in avanti, secondo alcuni osservatori, rispetto al «profondo dispiacere incline al pentimento» espresso dall’allora ministro dell’Integrazione Van Boxtel nel 2001.
Ora, la maggioranza del consiglio comunale di Amsterdam, che ha diversi membri discendenti da schiavi, si è espressa a favore della mozione di scuse in cui si parla di «libertà dal peso del passato» per arrivare a una reale e futura riconciliazione: «Da una storia condivisa, a un futuro condiviso». La mozione dovrebbe essere votata entro il prossimo primo luglio, giorno in cui si celebra il Keti Koti, che vuol dire “catene spezzate” e cioè la commemorazione dell’abolizione della schiavitù in Suriname e nelle Antille avvenuta l’1 luglio del 1863.
«Amsterdam è una città bellissima, ma quando si guardano alcune delle sue parti più belle, è difficile negare che siano state finanziate con soldi provenienti dalla tratta degli schiavi», ha detto Don Ceder, un membro del consiglio cittadino i cui genitori provengono dal Ghana e dal Suriname. «Quello che vogliamo è che la città faccia i conti con la sua storia, la accetti e si scusi».
Il dibattito si è inserito in un momento non molto favorevole per i Paesi Bassi, un tempo considerati uno dei paesi più progressisti, tolleranti e multiculturali d’Europa e oggi uno degli stati dove l’euroscetticismo è più diffuso, dove esistono seri problemi di antisemitismo e islamofobia e dove i partiti di estrema destra hanno acquisito un peso sempre maggiore, anche a livello elettorale.
Anton van Schijndel, membro del Forum per la Democrazia (FvD, partito populista, conservatore ed euroscettico che al consiglio comunale di Amsterdam ha tre seggi) ha ad esempio dichiarato che la mozione vuole creare «un senso di colpa e vergogna per la storia di una nazione». Ritiene poi difficile scusarsi per ciò che hanno fatto secoli fa i suoi antenati. Ma anche il partito Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia del primo ministro Mark Rutte, di centrodestra, ha espresso dei dubbi. E i suoi membri al consiglio comunale di Amsterdam si sono dichiarati contrari alla mozione.
Eduard Mangal, un consigliere comunale di origini surinamesi che ha contribuito a scrivere la mozione, ha invece spiegato che «Non si tratta di individui. Parliamo di qualcosa che il paese ha fatto nel suo insieme» e non solo in Suriname. Simion Blom, 31 anni, membro del consiglio comunale immigrato dal Suriname all’età di 5 anni, è cresciuto nel quartiere di Bijlmermeer. Per lui il paese dovrebbe uscire rafforzato da una discussione franca su un periodo così oscuro della sua storia, anche se questo potrebbe mettere a disagio alcune persone.