Nei migliori quartieri di Caracas
Si vive meglio di quanto si vivesse fino a un anno fa: è l'effetto delle liberalizzazioni di Maduro, che però stanno arricchendo i ricchi e creando nuove disuguaglianze
L’ultima grande crisi politica venezuelana, cominciata più o meno un anno fa con le grandi proteste di piazza contro il presidente Nicolás Maduro e l’autoproclamazione a presidente dell’oppositore Juan Guaidó, è da mesi in una fase di stallo. Il regime autoritario di Maduro è rimasto al potere, e l’interesse e il sostegno internazionale per la causa di Guaidó è diminuito.
Se a livello politico in Venezuela non è cambiato granché, l’ultimo anno ha visto una significativa trasformazione della situazione economica del paese, che però ha riguardato solo la parte più benestante della società venezuelana.
A beneficiare di questa relativa ripresa economica, infatti, sono stati in larga parte i venezuelani ricchi che vivono nella capitale Caracas, che stanno approfittando di un allentamento nelle politiche stataliste e socialiste di Maduro e di una sempre maggiore offerta di servizi e intrattenimento di lusso. Per milioni di persone nelle periferie e fuori da Caracas, invece, la vita continua a essere durissima, ha raccontato un reportage del New York Times.
Dopo anni di gravissime difficoltà economiche, che avevano portato l’inflazione a raggiungere picchi inimmaginabili e che avevano reso difficilissimo per i venezuelani procurarsi i beni di prima necessità, l’anno scorso sul Venezuela si sono abbattute le sanzioni economiche degli Stati Uniti, che hanno rischiato di far fallire il paese.
Maduro si è quindi ritrovato costretto quasi dall’oggi al domani a rivedere l’impianto generale delle regole economiche venezuelane, ancora improntate sullo statalismo e sulle restrizioni al libero mercato ereditate dalla presidenza di Hugo Chávez. Ai tempi di Chávez, quelle misure avevano prodotto una straordinaria crescita economica e avevano portato fuori dalla povertà milioni di venezuelani. I progressi sociali, ancora più importanti in un paese fortemente colpito dalle diseguaglianze sociali, erano stati finanziati con i proventi della vendita del petrolio, risorsa di cui il Venezuela è molto ricco.
Le sanzioni decise da Trump hanno però tagliato le esportazioni di petrolio verso gli Stati Uniti, il più importante acquirente di petrolio venezuelano, e ad agosto sono arrivate a prevedere l’embargo totale. Gli effetti delle sanzioni si sono sommati ad anni di malagestione delle finanze pubbliche e di corruzione, e hanno spinto Maduro a rinunciare rapidamente a parte dei principi socialisti su cui era stata basata per molti anni l’economia venezuelana.
Negli ultimi mesi, ha spiegato l’Economist, il governo venezuelano ha liberalizzato diversi pezzi dell’economia nazionale, aprendo la strada a grossi investimenti del settore privato. È stata inoltre tagliata la spesa pubblica, che secondo la società di consulenza venezuelana Ecoanalítica lo scorso anno è scesa del 25 per cento.
L’anno scorso le importazioni del settore privato hanno superato quelle statali per la prima volta nella storia moderna del paese, ha detto al New York Times Ramiro Molina, economista dell’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Dopo anni in cui lo stato aveva deciso i tassi di cambio della valuta nazionale, il bolivar, e il prezzo dei beni di prima necessità, misure che avevano contribuito a creare le famose penurie di cibo e medicine degli ultimi anni, ora gli scaffali dei supermercati sono di nuovo perlopiù pieni.
L’inflazione, che nel 2018 era arrivata a percentuali astronomiche superiori al milione per cento annuo, è stata circa del 7.300% alla fine del 2019: molto più bassa di un tempo, ma comunque abbastanza da rendere quasi senza valore i bolivar.
Per questo, la valuta nazionale è poco usata nel centro di Caracas, dove si sono diffusi ovunque i dollari, diventati il mezzo fondamentale della ripresa economica che ha interessato una parte dei venezuelani. I dollari sono oggi accettati dai tassisti e dai grandi magazzini della città, e perfino McDonald’s dà un bonus mensile di 20 dollari ai propri dipendenti, che equivale a oltre tre volte lo stipendio minimo mensile previsto dalla legge venezuelana (e alzato diverse volte da Maduro nel corso del 2019).
Ad avere accesso ai dollari è però soltanto circa metà dei venezuelani, principalmente quelli che vivono nelle grandi città e specialmente a Caracas. In parte sono i ricchi, spesso funzionari pubblici e imprenditori che stanno sfruttando le nuove possibilità di business importando ogni genere di bene e ottenendo licenze commerciali per nuovi hotel, resort, bar e ristoranti di lusso che stanno aprendo a Caracas.
Molti ricchi venezuelani stanno spendendo i loro dollari proprio nel mercato interno. Il New York Times ha raccontato di bar di Caracas dove si stappa champagne e si discute di yacht, di SUV stranieri tornati a circolare nel centro della capitale, e di festival musicali in cui l’ingresso costa 70 dollari, circa 14 mesi di stipendio minimo.
Non sono però solo i ricchi ad avere i dollari, ma anche i familiari di persone che hanno lasciato il loro paese per andare a lavorare all’estero: dal 2013, almeno 4 milioni di persone hanno lasciato il Venezuela, il 12 per cento della popolazione. Ogni anno, secondo Econoanalitica, i venezuelani all’estero rimandano nel paese 4 miliardi di dollari, il 3 per cento del prodotto interno lordo. Lo stesso Maduro ha detto di non vedere di cattivo occhio questo processo, che ha chiamato “dollarificazione”.
Oggi la produzione petrolifera venezuelana, che è ancora la più grossa entrata per il Venezuela, si sta stabilizzando dopo essere scesa ai livelli più bassi dagli anni Quaranta. Nonostante il blocco alle importazioni imposto dagli Stati Uniti, infatti, il petrolio viene venduto ad altre società internazionali come la russa Rosneft, mentre l’apertura al settore privato decisa da Maduro ha consentito accordi economici con l’estero – l’India, per esempio – per migliorare le infrastrutture.
Nel 2019, cento società venezuelane hanno fatto richiesta di poter emettere nuove obbligazioni, il numero più alto nell’ultimo decennio, a testimonianza di una maggiore fiducia nell’economia nazionale. Santa Teresa, il più grande produttore di rum del paese, ha emesso nuove azioni sulla borsa locale, la prima società venezuelana a farlo in oltre dieci anni. Una società che produce latte in polvere, Protinal, ha riaperto una fabbrica che era chiusa da 15 anni nello stato di Zulia.
Qualcuno ha ipotizzato che gli ultimi mesi possano condurre a un “capitalismo autoritario” simile a quello che esiste ormai da decenni in Cina. Secondo il Wall Street Journal, a convincere Maduro della necessità di queste liberalizzazioni sarebbero stati principalmente Tareck El Aissami, ministro dell’Industria, e Wilmar Castro Soteldo, ministro dell’Agricoltura. Due persone vicine a Maduro, tra cui un consigliere economico, hanno detto al Wall Street Journal che il presidente è stato consigliato da una serie di esperti del settore privato che hanno presentato l’operazione come un modo per aggirare le sanzioni americane, più che uno smantellamento delle politiche socialiste in vigore da vent’anni nel paese.
Questo non vuol dire comunque che l’economia venezuelana vada bene: ci si aspetta che il prodotto interno lordo venezuelano cali del 10 per cento nel 2020, dopo esser già diminuito di oltre due terzi dal 2013, il declino più rilevante della storia moderna registrato in un paese non in guerra, secondo il Fondo Monetario Internazionale. Ma come ha spiegato Omar Zambrano, economista all’ANOVA Policy Research di Caracas, dietro alla strategia di Maduro c’è anche una grossa motivazione politica: «il processo di liberalizzazione continuerà perché il governo lo vede anche come modo per alleggerire le pressioni politiche».
In tutto questo per più o meno metà dei venezuelani, quelli che non hanno accesso ai dollari e che vivono nelle periferie o nelle campagne, la vita quotidiana è fatta ancora di periodiche mancanze d’acqua e forniture elettriche, di assenza di servizi fondamentali come quelli di polizia, e continua a reggersi sul cibo e sui beni forniti dallo stato.
Questo ha spinto molti a criticare Maduro, accusandolo di aver tradito i principi socialisti su cui si era basata la prima parte della sua presidenza, che aveva ereditato l’enorme popolarità di Chávez. «Questo è capitalismo selvaggio che cancella anni di lotta» ha detto Elias Haua, ex vice presidente venezuelano e tra i dirigenti del partito di Maduro.