L’embargo sulle armi in Libia è una farsa
Fu imposto nel 2011 e da allora è stato violato in maniera sistematica in diverse occasioni e da diversi paesi, sotto il naso dell'ONU
La scorsa settimana l’ONU ha diffuso un rapporto su uno dei più gravi bombardamenti compiuti nella guerra in Libia, quello della notte tra il 2 e il 3 luglio scorsi contro un centro di detenzione per migranti nella periferia di Tripoli, nel quale furono uccise 53 persone. Il rapporto (PDF) ha ricostruito quanto successo grazie anche alle testimonianze dei sopravvissuti, ma non ha attribuito responsabilità dirette, limitandosi a identificare l’autore in «uno stato straniero». Altre ricostruzioni hanno concluso che il bombardamento fu compiuto dagli Emirati Arabi Uniti.
La debolezza delle conclusioni del rapporto ha fatto molto discutere e ha sollevato nuovi dubbi sull’efficacia dell’embargo sulla vendita e sul trasferimento di armi verso la Libia imposto proprio dall’ONU nove anni fa e sostanzialmente mai rispettato. Oggi ci sono almeno sei paesi stranieri che contribuiscono a provocare il caos in Libia fornendo armi, mercenari e consiglieri militari in una sostanziale impunità garantita dallo stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU, organo che nel 2011 – con l’inizio della guerra civile libica che portò all’uccisione dell’ex presidente Muammar Gheddafi – approvò l’embargo e che in teoria è incaricato di sanzionare le sue eventuali violazioni.
L’inefficacia dell’ONU nel far rispettare il proprio divieto di vendere armi alla Libia è dovuta al fatto che nel corso degli anni la guerra libica è diventata sempre più una guerra di altri, con il coinvolgimento di paesi stranieri che sono membri permanenti con potere di veto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, o che sono da loro protetti: il potere di veto è quella cosa che permette a Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Cina e Russia di bloccare unilateralmente qualsiasi risoluzione del Consiglio, senza bisogno di avere la maggioranza dei voti.
Al momento ci sono almeno due paesi con potere di veto coinvolti direttamente nella guerra in Libia: la Russia e la Francia, che appoggiano entrambi il maresciallo Khalifa Haftar. Lo scorso aprile le milizie fedeli ad Haftar iniziarono la battaglia per il controllo della capitale Tripoli, attaccando la città sede del governo di accordo nazionale guidato dal primo ministro Fayez al Serraj, unico governo riconosciuto come legittimo dall’ONU.
Secondo diverse ricostruzioni giornalistiche, negli ultimi cinque mesi sarebbero arrivati in Libia più di mille mercenari russi del Gruppo Wagner, società di sicurezza russa che opera anche in Siria e in Ucraina e che è sospettata di essere legata al governo di Vladimir Putin. La Francia starebbe appoggiando Haftar in diverse forme, sia tramite l’azione diplomatica del presidente francese Emmanuel Macron – il primo a fornire forte legittimità internazionale ad Haftar – sia probabilmente con la presenza di forze speciali e dell’intelligence in territorio libico.
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Haftar è appoggiato anche dagli Emirati Arabi Uniti, accusati di essere i responsabili dell’attacco al centro di detenzione vicino a Tripoli dello scorso luglio e individuati da molti come i maggiori violatori dell’embargo sulla vendita delle armi alla Libia.
Serraj è invece appoggiato dalla Turchia, paese tra le altre cose membro della NATO che di recente ha cominciato a mandare propri soldati in Libia per aiutare le milizie fedeli a Serraj. Sia Emirati Arabi Uniti che Turchia sono alleati degli Stati Uniti, membro permanente con potere di veto del Consiglio di Sicurezza.
Dal 2011 gli ispettori dell’ONU hanno rilevato violazioni sistematiche dell’embargo sulla vendita di armi da parte di numerosi paesi stranieri, ha scritto il New York Times, e le hanno comunicate al Consiglio di Sicurezza. Finora però le uniche due persone sanzionate per la loro azione nella guerra libica sono stati due cittadini eritrei, accusati nel 2018 di traffico di esseri umani.
Le cose non sono cambiate nemmeno con l’incontro sulla Libia tenuto a gennaio a Berlino, nel quale i leader presenti hanno firmato una dichiarazione che chiedeva una tregua nei combattimenti e confermava il divieto della vendita delle armi alle fazioni che combattono la guerra libica.
Poco dopo l’incontro, in Libia sono arrivate nuove armi, probabilmente in preparazione a una nuova serie di attacchi e contrattacchi: tra le altre cose, sono arrivate nelle acque libiche navi da guerra turche cariche di veicoli corazzati destinati al governo di Serraj, mentre nella Libia orientale decine di aerei forse carichi di rifornimenti per Haftar sono atterrati in una base controllata dagli Emirati Arabi Uniti. Sia la Turchia che gli Emirati Arabi Uniti sono tra i firmatari della dichiarazione di Berlino.
Molti hanno criticato l’inefficacia dell’ONU, che a sua volta ha accusato i paesi coinvolti nella guerra libica di peggiorare la situazione e contribuire a prolungare il conflitto.
Secondo funzionari dell’ONU citati dal New York Times, una delle difficoltà nell’attribuire responsabilità dirette per episodi come l’attacco al centro di detenzione nella periferia di Tripoli dipende dalla riluttanza degli stati occidentali a mettere a disposizione le informazioni di intelligence in loro possesso: in particolare Stati Uniti e Regno Unito non hanno mai voluto mettere in difficoltà i loro alleati arabi, tra cui gli Emirati Arabi Uniti. Senza informazioni di intelligence, elaborare precise critiche e individuare con certezza i responsabili di attacchi mirati può risultare molto difficile.
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La complicata situazione libica sta mettendo in evidenza ancora una volta i limiti di azione dell’ONU e del suo organo più potente, il Consiglio di Sicurezza, in quei conflitti dove paesi terzi potenti o influenti sono schierati a sostegno di fazioni opposte. In questi casi la volontà e gli interessi dei singoli stati prevalgono sulle decisioni prese dall’ONU, anche se vincolanti e oggetto di grande dibattito, come l’embargo sulla vendita delle armi verso la Libia.