L’Iran potrebbe diventare ancora più radicale
Tra due settimane ci sono le elezioni parlamentari e il regime ha già iniziato a escludere dalle liste i riformisti: c'entra anche l'uccisione di Qassem Suleimani
Il 21 febbraio in Iran ci saranno le elezioni parlamentari, le prime dall’uccisione del generale Qassem Suleimani, morto a inizio gennaio in un attacco mirato ordinato dal presidente Donald Trump e compiuto da un drone statunitense. Il parlamento iraniano non è l’organo più potente in Iran: la sua libertà di azione è fortemente limitata dalla Guida suprema, la principale carica politica e religiosa del paese, e dal presidente, cioè rispettivamente dall’ultraconservatore Ali Khamenei e dal moderato Hassan Rouhani. L’elezione del nuovo parlamento è comunque una cosa da tenere d’occhio, perché darà indicazioni importanti sulle conseguenze che gli eventi di gennaio hanno prodotto sui rapporti di forza all’interno dell’Iran.
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Nonostante le poche informazioni diffuse sul processo elettorale, il regime iraniano ha già iniziato a mostrare la sua intenzione di favorire i partiti più conservatori, penalizzando quelli più moderati.
Nelle ultime settimane il Consiglio dei Guardiani, organo controllato dagli ultraconservatori e incaricato di fare una preselezione dei candidati ammessi alle elezioni, ha escluso dalle liste elettorali di febbraio diversi politici riformisti, cioè quelli più disposti ad avere un dialogo con l’Occidente e favorevoli a un regime meno autoritario. Tra gli altri, è stato escluso Ali Motahhari, 62 anni, parlamentare da oltre dieci anni e uno dei politici più importanti e noti in Iran. In tutto, ha scritto il Financial Times, più di 90 parlamentari attualmente in carica – sia conservatori che riformisti – sono stati avvisati che non verranno inclusi nelle liste elettorali delle elezioni di febbraio.
Non è la prima volta che il Consiglio dei Guardiani esclude i candidati riformisti da importanti elezioni nazionali, ma negli ultimi due anni i tentativi di spostare il regime su posizioni sempre più radicali sono stati particolarmente intensi.
In Iran le forze politiche meno radicali, rappresentate dai riformisti e dai moderati – questi ultimi guidati dal presidente Rouhani – potrebbero uscire parecchio indebolite dalle elezioni di febbraio a causa degli eventi internazionali che hanno coinvolto il paese negli ultimi due anni.
Durante la presidenza di Barack Obama, infatti, i moderati iraniani si erano impegnati a firmare uno storico accordo sul nucleare: l’Iran avrebbe rinunciato alla produzione dell’arma nucleare, in cambio sarebbe stata rimossa parte delle sanzioni economiche imposte negli anni precedenti, responsabili di avere indebolito parecchio l’economia iraniana. L’accordo era stato inizialmente considerato un enorme successo del presidente Rouhani e delle forze meno radicali, ma la decisione di Trump di ritirarsi dall’intesa nel maggio 2018 aveva cambiato le cose, dando un potente argomento agli ultraconservatori che fin dall’inizio erano stati contrari all’accordo e avevano sostenuto che non ci si potesse fidare degli americani.
Da quel momento i rapporti tra i due paesi erano piano piano peggiorati, e sono precipitati ulteriormente con l’uccisione di Suleimani, evento che ha rafforzato i sentimenti nazionalistici e antioccidentali in Iran.
Gli ultraconservatori stanno usando la nuova posizione di forza per manipolare le liste elettorali di febbraio, con l’obiettivo di eleggere un parlamento più radicale di quello attuale. Stanno sfruttando la generale ostilità verso gli Stati Uniti per escludere dalle elezioni diversi candidati riformisti accusati di “non avere il coraggio” di opporsi efficacemente al governo americano, e di essersi fatti fregare accettando di firmare l’accordo sul nucleare. Molte esclusioni stanno avvenendo nelle circoscrizioni più piccole con un’alta affluenza, dove tradizionalmente i riformisti ottengono risultati migliori.
Il rafforzamento degli ultraconservatori non è una conseguenza sorprendente e inattesa del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare e dell’uccisione di Suleimani.
Nel corso degli ultimi due anni, e in diverse occasioni, analisti ed esperti avevano messo in guardia il governo americano che tornare ad adottare politiche dure e aggressive nei confronti dell’Iran avrebbe potuto indebolire quella fazione più disposta a negoziare con l’Occidente, cioè i moderati e i riformisti. È ancora presto per dire se i riformisti riusciranno a sopravvivere politicamente alle elezioni di febbraio, ma l’impressione è che i rapporti di potere oggi siano spostati inevitabilmente a favore delle fazioni più radicali.