“American Gigolò” oltre il cinema
Uscì 40 anni fa e secondo molti, e sotto tanti aspetti, non fu un gran film; eppure si è fatto ricordare
Nel 1980 Paul Schrader aveva poco più di trent’anni, era conosciuto soprattutto per aver scritto la sceneggiatura di Taxi Driver ed era uno dei movie brat, i monelli dei film, del giro della New Hollywood, quel cinema fatto tra gli anni Sessanta e i Settanta da nuovi arrivati come Scorsese, Coppola, Spielberg, Lucas e Altman, che cambiarono molto il mestiere, i temi e l’approccio usato per parlarne. Schrader, tra le tante cose, propose il concetto del “man in a room”: dice, in poche parole, che basta mostrare un uomo solo in una stanza, anche senza farlo parlare, per dire comunque molto su di lui. Volendo provare il concetto per American Gigolò, il suo film che uscì quarant’anni fa oggi, la scena giusta è questa:
American Gigolò (il cui titolo inglese è uguale, ma senza l’accento sulla “o”) non è un film dalla trama memorabile e quando uscì alcuni critici lo apprezzarono – Roger Ebert lo elogiò in quanto «studio sulla solitudine» – ma molti altri non se ne curarono granché, in certi casi scandalizzandosi pure un po’ per certe sue scene. In effetti, la trama è da onesto, forse addirittura modesto, crime neo-noir: un uomo che fa il gigolò di lusso finisce ingiustamente accusato di omicidio, se la vede brutta e poi invece se la cava, grazie all’amore di una donna. E anche la regia è buona, ma senza niente di davvero eccellente: il film, per esempio, non fu candidato nemmeno a un Oscar.
Ma American Gigolò si fece notare, e ancora oggi si fa ricordare, per altre cose. Perché mise il suo protagonista, un giovane Richard Gere, in contesti inconsueti per il cinema dell’epoca, perché fu il primo film di un certo livello a mostrare il suo protagonista in un nudo frontale, e perché certe sue cose ebbero un impatto oltre il cinema. Una fu la Mercedes SL450 cabrio che guida il protagonista, un’altra – lo si vede nella scena in cui è solo nella stanza – fu il suo guardaroba Armani, un marchio che prima di quel film non era così famoso e apprezzato a Hollywood. Altre ancora furono la colonna sonora di Giorgio Moroder e la canzone “Call Me” dei Blondie, il più grande successo musicale di quell’anno.
Per fare American Gigolò, Schrader si ispirò al film francese Diario di un ladro, uscito oltre vent’anni prima e diretto da Robert Bresson. Un’ispirazione che diventa evidente nelle scene finali del film.
Di American Gigolò è facile dimenticarsi la trama o certi personaggi secondari. Di certe atmosfere del film, di una certa estetica delle sue scene migliori e di certi aspetti del carattere e dell’aspetto di Julian Kaye, il protagonista interpretato da Gere (dopo che per la parte erano stati considerati Christopher Reeve e John Travolta) è invece più difficile dimenticarsi. Tra quelli più colpiti da queste cose c’è sicuramente lo scrittore Bret Easton Ellis, autore di Meno di zero, il cui protagonista non a caso si chiama Julian, e di American Psycho, il cui protagonista si chiama Patrick Bateman ma ha qualcosa che fa venire in mente il Julian Kaye di American Gigolò. Compreso l’essere “a man in a room”.
A proposito del film di Schrader, Ellis ha scritto in Bianco, il suo libro più recente:
L’impatto che American Gigolo ha avuto su di me è impossibile da quantificare, e non si tratta della grandezza del film – non è un gran film, cosa che trova d’accordo anche il regista – ma della maniera in cui ha cambiato il nostro modo di guardare gli uomini e di considerarli «oggetti», e di come ha alterato il mio modo di pensare e vivere Los Angeles: in questo, la sua influenza è stata enorme e innegabile.