Perché non c’è un vaccino contro il nuovo coronavirus?
Semplicemente perché è troppo presto, ma sono già in corso le ricerche per produrlo, e il più in fretta possibile
Contro il nuovo coronavirus (2019-nCoV) – che ha causato oltre cento morti in Cina e il contagio di migliaia di persone, non ci sono cure né vaccini. Mentre il personale medico offre assistenza ai malati per trattare i sintomi, e le autorità cinesi provvedono alle attività di contenimento delle infezioni, alcuni centri di ricerca e aziende farmaceutiche in giro per il mondo sono al lavoro per realizzare un vaccino, nella speranza di riuscirci in tempi stretti. Attualmente, la soluzione più rapida e praticabile per ridurre i rischi resta l’isolamento dei pazienti e lo stretto controllo sui nuovi contagi, ma nel caso in cui la situazione dovesse peggiorare, un vaccino potrebbe rivelarsi determinante.
Le società farmaceutiche Johnson & Johnson, Moderna Therapeutics e Inovio Pharmaceuticals sono già al lavoro per lo sviluppo di vaccini contro il nuovo coronavirus, così come alcuni centri di ricerca privati e pubblici, come i National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della Salute degli Stati Uniti.
Inovio ha ricevuto un fondo da 9 milioni di dollari dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale. CEPI ha finanziato almeno altri due programmi di ricerca per lo sviluppo di un vaccino contro 2019-nCoV.
Nell’ultimo secolo, i vaccini si sono rivelati una risorsa fondamentale per ridurre al minimo la diffusione di malattie, anche molto pericolose, salvando centinaia di milioni di vite umane. Per molto tempo lo sviluppo di un vaccino contro un virus completamente nuovo ha richiesto tempo – mediamente tra i due e i tre anni – ma negli ultimi tempi i progressi nella genomica (la scienza che studia il genoma, la totalità del DNA o RNA contenuto in un organismo) e un maggiore coordinamento internazionale hanno consentito di accelerare sensibilmente i tempi. I ricercatori che lavorano al vaccino contro 2019-nCoV confidano di arrivare ai primi test entro tre mesi.
Prima di potere essere impiegato sulla popolazione e su larga scala, un vaccino deve superare una complessa serie di test, prima sugli animali e successivamente su gruppi di esseri umani. L’intero processo richiede tempo e difficilmente può essere svolto in meno di un anno, dall’inizio dello sviluppo al suo impiego. Allo stato attuale i vaccini non sono quindi utili per le prime fasi di un’epidemia con un nuovo virus, banalmente perché ancora non esistono, ma potrebbero diventarlo in una seconda fase se il contagio proseguisse e diventasse diffuso.
Salvo alcune eccezioni, ogni volta che viene scoperto un nuovo virus, i ricercatori devono ricominciare da zero per analizzarlo e comprendere quali siano i suoi punti deboli. Quando ci furono i casi di SARS in Cina nel 2003, furono necessari 20 mesi prima che fosse pronto per i test clinici un vaccino, sulla base delle informazioni genetiche raccolte sul virus che causava la grave sindrome respiratoria. Nel 2015 per il virus Zika furono invece necessari appena 6 mesi, a testimonianza dei progressi in ambito tecnico e della ricerca.
Nel caso della SARS le lentezze furono in parte dovute alle reticenze del governo cinese, che preferì non diffondere da subito alcune informazioni sulla malattia e i contagi, temendo che la notizia potesse danneggiare l’economia della Cina in piena crescita. Con il nuovo coronavirus le cose sono andate diversamente: nei primi giorni del 2020, i ricercatori cinesi hanno messo a disposizione i profili genetici del virus, condividendoli con la comunità scientifica internazionale.
I ricercatori statunitensi dell’NIH hanno potuto confrontare le caratteristiche genetiche del nuovo coronavirus con quelle dei coronavirus che causano la SARS e la MERS, altra malattia infettiva particolarmente aggressiva emersa qualche anno fa in Cina (e contenuta prima che potesse causare un’epidemia su larga scala). Si sono concentrati sulle “punte” del coronavirus, quelle che danno il nome a questa famiglia di virus proprio perché i loro contorni ricordano il profilo di una corona.
Le punte sono formate dai “peplomeri”, le strutture proteiche che insieme ad altri meccanismi servono ai virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare. Una volta che si sono legati alle cellule ospiti, i virus rilasciano il loro codice genetico modificando il comportamento della cellula. Questo processo fa sì che si attivi una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato, che cerca di sbarazzarsi del virus (solitamente facendo alzare la temperatura: in pratica viene la febbre).
I ricercatori sanno che bloccando le punte si può togliere al coronavirus la sua capacità di legarsi alle cellule che vuole colonizzare. Per questo in passato all’NIH, come in altri centri di ricerca, sono stati sviluppati vaccini sperimentali che spuntavano le corone dei coronavirus che causano la SARS e la MERS. Nel primo caso il vaccino non è mai stato commercializzato perché la SARS è stata contenuta per tempo, mentre nel secondo il vaccino è ancora in fase di perfezionamento e lo scorso anno ha superato i primi test su esseri umani.
Considerate le somiglianze tra il coronavirus della SARS e l’attuale, i ricercatori dell’NIH hanno pensato di accelerare lo sviluppo di un nuovo vaccino riproducendo alcuni dei meccanismi già sviluppati. Hanno quindi sostituito solo parte del codice genetico, inserendo quello del nuovo coronavirus, e poi ne hanno testato l’efficacia. È il primo passo di un lavoro di ricerca più lungo, che potrà essere proseguito dalle aziende farmaceutiche come Moderna. L’obiettivo è di trovare il modo di creare un vaccino che “insegni” al sistema immunitario a riconoscere le punte del coronavirus, e a contrastarle evitando che il virus riesca a legarsi alle cellule.
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Il progetto prevede una collaborazione che interesserà altre istituzioni e centri di ricerca, in modo da avere in poche settimane un prototipo del vaccino da testare in laboratorio. Se il vaccino sperimentale si rivelerà promettente a sufficienza, continuerà a essere sviluppato e, appurata la sua sicurezza, messo alla prova sugli esseri umani.
Inovio, un’altra azienda farmaceutica, confida invece di avere un altro vaccino sperimentale pronto per l’inizio dell’estate. I suoi ricercatori hanno analizzato il profilo genetico del nuovo coronavirus e, tramite alcuni modelli al computer, si sono concentrati sulle sue parti più vulnerabili. Se i test nell’estate dovessero dare esiti positivi, i ricercatori potrebbero iniziare a sperimentare il vaccino in Cina entro la fine dell’anno.
Johnson & Johnson stima che potrebbero essere necessari dagli 8 ai 12 mesi per iniziare i test clinici del suo vaccino su esseri umani. Per allora la crisi sanitaria legata a 2019-nCoV potrebbe essere finita, ma non c’è ancora modo di saperlo e le organizzazioni sanitarie internazionali preferiscono non farsi trovare impreparate. Anche per questo motivo il modello della partecipazione tra governi e fondazioni adottato da qualche anno si sta rivelando proficuo: fa da incentivo alla ricerca per lo sviluppo di soluzioni che potrebbero rivelarsi superflue, e che in altre circostanze non verrebbero esplorate.
Allo stato attuale, salvo particolari complicazioni, in buona parte dei casi il sistema immunitario delle persone con nuovo coronavirus impara a contrastare la sua presenza, portando alla guarigione. Le notizie sulle persone infette e poi guarite provenienti dalla Cina non sono però ancora molto chiare, così come non lo sono quelle su chi sviluppa sintomi gravi e deve restare a lungo in ospedale, per ricevere trattamenti che riducano i sintomi e aiutino il sistema immunitario a reagire.
Il sistema immunitario mantiene di solito memoria dei virus che ha incontrato, e impedisce loro di costituire nuovamente un rischio. I vaccini sono un’ottima soluzione per far sviluppare questa memoria senza che ci si debba ammalare, riducendo quindi i rischi soprattutto per le persone più esposte a causa di altri problemi di salute. L’immunizzazione e la riduzione dei contagi contribuiscono a fermare un’epidemia, evitando che si diffonda.
Mentre si lavora ai vaccini, l’attività più importante per ridurre i rischi di nuovi contagi passa dall’isolamento dei nuovi casi e dalle buone pratiche igieniche. Seppure con colpevoli ritardi iniziali da parte delle autorità cinesi, lo sforzo internazionale permise 16 anni fa di contenere l’epidemia di SARS senza che fosse ancora disponibile un vaccino, e qualcosa di analogo sarebbe successo qualche anno dopo con la MERS.