Un’ora dopo la morte di Kobe Bryant, una giornalista ha ricordato che era stato accusato di stupro
Ne è nato un pasticcio al Washington Post, tra insulti, minacce e sanzioni, e un dibattito su quale fosse la cosa giusta da fare
La direzione del Washington Post ha sospeso temporaneamente, e poi reintegrato, una giornalista politica che domenica aveva diffuso su Twitter un vecchio articolo che raccontava l’accusa di stupro a Kobe Bryant del 2003, a poche ore dalla sua morte. La giornalista si chiama Felicia Sonmez, e la sua sospensione ha spinto oltre 200 giornalisti del Washington Post a firmare una lettera in sua solidarietà. L’episodio ha generato critiche e discussioni, online e sui giornali, su quale fosse il modo giusto per dare conto di un episodio lontano nel tempo ma grave e rilevante della vita di Bryant, come l’accusa di stupro, in un momento di grande commozione collettiva e di celebrazione per uno degli sportivi più amati dell’era contemporanea.
Sonmez ha pubblicato il suo tweet alle 12.50 di domenica, cioè poco più di un’ora dopo la diffusione della notizia della morte di Bryant, annunciata dal sito TMZ. Sonmez si è limitata a condividere un pezzo del sito Daily Beast pubblicato nel 2016 in occasione del ritiro di Bryant dal basket giocato, un momento di grandi celebrazioni per la sua carriera. L’articolo era un dettagliato resoconto dell’accusa di stupro a Bryant e del caso giudiziario che ne seguì, dal tono e dall’impostazione generalmente neutri.
Su Twitter però, al momento del tweet di Sonmez, il clima generale era un altro, e cioè quello dell’incredulità e dello shock commosso per l’improvvisa morte di Bryant, di sua figlia Gianna e delle altre sette persone che viaggiavano sull’elicottero che si era schiantato sulle colline sopra Los Angeles. In tantissimi hanno criticato il tempismo del tweet di Sonmez, e in tantissimi l’hanno anche insultata pesantemente. Sonmez ha detto che «letteralmente 10mila persone» le hanno mandato «offese e minacce di morte». «Qualunque figura pubblica merita di essere ricordata nella sua totalità, anche se è amata e se quella totalità è disturbante», ha scritto Sonmez in un tweet successivo. In un altro tweet, Sonnmez ha pubblicato uno screenshot delle minacce ricevute in cui erano peraltro visibili gli indirizzi email dei mittenti.
Cos’era successo nel 2003
La storia dell’accusa di stupro a Bryant è uno dei casi giudiziari più noti di sempre tra quelli legati a personalità sportive; se ne era riparlato di recente dopo il movimento #MeToo e in occasione delle accuse analoghe contro il calciatore Cristiano Ronaldo. A accusare Bryant fu una receptionist 19enne di un albergo in Colorado, dove Bryant aveva passato una notte nel giugno del 2003. La donna raccontò che dopo aver saputo che Bryant sarebbe stato ospite, si era trattenuta oltre il suo orario di lavoro per conoscerlo; l’aveva quindi portato a fare un tour della struttura, e una volta rimasti da soli nella sua camera Bryant l’aveva baciata, e lei aveva acconsentito.
Sempre secondo la sua testimonianza, Bryant si era poi svestito e aveva iniziato a toccarla, nonostante i suoi ripetuti rifiuti, finché l’aveva penetrata da dietro tenendola per il collo. La donna denunciò la violenza il giorno dopo, e Bryant fu subito interrogato: all’inizio negò il rapporto, poi lo ammise descrivendolo però come consensuale. Fu accusato di stupro e il caso giudiziario che ne seguì fu raccontatissimo dai media: non si andò però mai a processo, perché la donna si rifiutò di testimoniare. La difesa era infatti riuscita a provare che la donna aveva avuto altri rapporti nelle ore immediatamente precedenti a quello con Bryant, introducendo quindi la possibilità che le lesioni riscontrate dagli esami medici fossero state causate in un altro momento. Il tribunale poi diffuse per errore i dettagli privati della donna, che ricevette molte minacce e abusi. Venne fuori poi che anche la donna aveva mentito su alcuni dettagli della sua testimonianza, rendendo ulteriormente fragile l’accusa, dal punto di vista legale.
Alla fine il caso penale fu archiviato, e la donna ottenne da Bryant un risarcimento civile per i danni provocati dal processo. Bryant sostenne sempre la sua innocenza, ma dopo il processo si scusò con la donna spiegando che «dopo mesi in cui ho riletto le prove e ascoltato il suo avvocato e anche la sua testimonianza, capisco perché lei senta che il rapporto non fosse stato consensuale». Marchi come McDonald’s e Nutella interruppero le sponsorizzazioni che avevano con lui, mentre Nike la sospese brevemente per riprenderla nel 2005.
Il pasticcio del Washington Post
Del caso del tweet di Sonmez si è occupato per primo lo stesso Washington Post, in un articolo di Eric Wemple, critico dei media del giornale (nei grandi giornali statunitensi capita che alcune figure interne si occupino di fare le pulci alla direzione). Sonmez gli ha raccontato che dopo le minacce ha segnalato l’accaduto i suoi superiori, e un paio di ore dopo ha ricevuto come risposta un invito a cancellare quei tweet, con l’argomento che se non lo avesse fatto avrebbe violato le regole del giornale. Lei lo ha fatto, e in serata ha ricevuto una telefonata di un suo capo che le ha comunicato la sospensione, con la spiegazione che il suo comportamento su Twitter aveva reso difficile il lavoro dei suoi colleghi. Secondo Wemple, però, Sonmez non ha violato nessuna regola del giornale, limitandosi a condividere un articolo giornalistico e informativo su una storia rilevante della vita di Bryant.
Con il montare del caso mediatico intorno alla sospensione, il Washington Post ha poi spiegato che la decisione era legata ai tweet di Sonmez che avevano condiviso gli indirizzi email di chi l’aveva insultata, anche se la giornalista e la stessa spiegazione iniziale del giornale dicevano altro. La storia si è poi arricchita di un dettaglio rilevante: Sonmez era stata a sua volta vittima di violenza sessuale da parte di un collega del Los Angeles Times, nel 2017, e secondo una lettera del sindacato dei giornalisti del Washington Post già in passato il giornale aveva avvertito Sonmez per il modo in cui aveva parlato della vicenda sui social network.
Martedì pomeriggio, infine, la direzione del Washington Post ha diffuso un comunicato per spiegare che «pur considerando i tweet di Felicia inopportuni per il loro tempismo», dopo un’indagine interna aveva stabilito che non violavano le regole del giornale.
New statement regarding Post reporter Felicia Sonmez pic.twitter.com/HBt2s5VW68
— Kristine Coratti Kelly (@kriscoratti) January 28, 2020
Come si dovevano comportare i media?
Oltre che per la vicenda in sé, che racconta molte cose di come funzionano i giornali negli Stati Uniti, il caso dei tweet di Sonmez ha aperto una discussione su quale fosse il modo corretto, da parte dei media, di parlare delle accuse di stupro in un momento in cui milioni di persone nel mondo erano scioccate e commosse per la morte improvvisa di Bryant, che ha ispirato almeno un paio di generazioni di giocatori di basket e che è stato probabilmente il più famoso giocatore della NBA degli ultimi trent’anni insieme a Michael Jordan e LeBron James. Wemple ha scritto:
Le ostilità che si sono riversate su Sonmez derivano dalla vecchia massima secondo cui non si deve parlar male dei morti. È una buona regola per tutti, eccezion fatta per gli storici e per i giornalisti, ai quali il pubblico si affida per uno sguardo sulla vita delle persone famose che includa anche i lati spiacevoli. Bryant rientra in questa categoria, così come l’episodio a cui si riferiva Sonmez nei suoi tweet. Anche se non sapremo mai di preciso cosa accadde in quella stanza di hotel, come ammette lo stesso Stern [l’autore dell’articolo sul Daily Beast, ndr], ci sono tante cose che sappiamo».
Su Slate, la giornalista Christina Caterucci ha passato in esame il modo in cui le varie testate americane hanno incluso le accuse di stupro nei loro pezzi che ricordavano Bryant. Alcuni media, come Associated Press, CNN, Fox News, Sport Illustrated e the Undefeated, non le hanno menzionate del tutto nei loro necrologi, pur parlandone in altri pezzi sulla morte di Bryant. Molti altri ne hanno parlato, raccontando il caso giudiziario solitamente in uno o due paragrafi: in diversi casi, i giornalisti hanno descritto l’episodio come uno degli elementi che rendevano Bryant un personaggio contraddittorio, o hanno fatto dei paralleli tra le accuse e il suo temperamento difficile in campo e la sua aggressività sportiva.
Come scrive la stessa Caterucci, «è facile accettare che persone amatissime e di grande successo a volte facciano cose terribili. È molto più difficile dare spazio e considerazione adeguati a questo concetto in un articolo scritto dopo un incidente tragico che ha portato via nove vite».
Alcuni giornalisti, però, hanno scelto un taglio diverso per conciliare la cronaca del caso giudiziario del 2003 con i sentimenti di grande commozione e affetto collettivi seguiti alla morte di Bryant, taglio che Caterucci giudica in parte convincente. È quello usato per esempio sul New York Daily News da Mike Lupica, secondo cui:
Il peggior momento della vita pubblica di Bryant non ha definito il resto della sua vita. Ma non può nemmeno essere ignorato. (…) Quella stanza di hotel in Colorado sarà sempre una parte della sua storia e di tutti i suoi grandiosi successi. Ma era fieramente determinato a scrivere una storia diversa nel secondo atto della sua vita pubblica. E ci è riuscito.
Su Esquire, Charles P. Pierce ha scelto una strada simile, partendo da una citazione del poeta Jim Carroll secondo cui «nel basket, puoi correggere i tuoi errori subito, e in maniera elegante, e tutto mentre sei sospeso in aria». Secondo Pierce:
Il modo in cui si giudica la sua vita dipende da quanto convintamente si creda al fatto che abbia rimediato alle sue terribili colpe con la vita che ha vissuto dopo, e da quanto convintamente si creda al fatto che abbia rimediato alle sue colpe “subito e in maniera elegante, sospeso in aria”.
Parte delle celebrazioni degli ultimi giorni su Bryant si sono soffermate sul suo impegno nella promozione del basket femminile, e sulle sue interviste in cui raccontava come sua figlia Gianna, morta con lui nell’incidente, fosse perfettamente in grado di raccogliere la sua eredità cestistica, nonostante i molti fan che si dispiacevano perché non avesse un figlio maschio. Caterucci dice che la considerazione di Pierce è condivisibile perché ammette che nessuno tranne Bryant stesso, e forse la sua famiglia e gli amici più stretti, sapessero davvero quanto e come era cambiato dopo il 2003; non è però d’accordo sul fatto che il comportamento pubblico di Bryant riguardi davvero «la vita di una giovane donna la cui vita fu capovolta tra il 2003 e il 2005».