La proposta di Trump per risolvere il conflitto israelo-palestinese
Era attesa da tempo ma nessuno sembra pensare che porterà a qualcosa, dato che è molto sbilanciata a favore di Israele
Il presidente statunitense Donald Trump ha presentato una proposta per risolvere il conflitto fra israeliani e palestinesi, forse la più complicata contesa territoriale al mondo. Il piano era stato annunciato ormai quattro anni fa, e soprannominato da Trump «l’accordo del secolo», ma secondo la maggior parte degli osservatori e analisti non andrà molto lontano: è parecchio sbilanciato in favore di Israele, e i negoziatori palestinesi – che da tempo avevano interrotto i contatti con l’amministrazione Trump – hanno già fatto sapere che non lo prenderanno nemmeno in considerazione.
Ci sono pochi dubbi che vada a finire così. Trump ha deciso da tempo di schierarsi esplicitamente dalla parte di Israele, anche a causa del progressivo spostamento verso destra dei Repubblicani sul conflitto israelo-palestinese. Negli ultimi due anni ha stretto un solido rapporto con il primo ministro israeliano Netanyahu e legittimato alcune richieste del suo governo di destra nazionalista, spostando l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme – da decenni contesa fra israeliani e palestinesi – e stabilendo che gli Stati Uniti non considereranno più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, uno dei due territori insieme alla Striscia di Gaza in cui i palestinesi hanno una forma di autonomia (posizione che invece mantiene la stragrande maggioranza della comunità internazionale).
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La proposta di Trump accoglie alcune richieste che la destra israeliana aveva avanzato da tempo. Nel modello immaginato dall’amministrazione statunitense, infatti, Israele annetterebbe al proprio territorio tutte le colonie esistenti e buona parte della cosiddetta Area C, cioè le zone della Cisgiordania che gli accordi di pace siglati nel 1993 assegnavano a un futuro stato palestinese, ma la cui gestione civile e militare è rimasta nelle mani di Israele. Le colonie non sono distribuite in maniera omogenea lungo il confine fra Israele e la Cisgiordania: un eventuale stato palestinese, perciò, sarebbe sostanzialmente punteggiato da territori a sovranità israeliana.
La parte ovest di Gerusalemme e soprattutto la Città Vecchia, cioè il quartiere dove si trovano importanti luoghi di culto sia per i musulmani sia per gli ebrei, sarebbero assegnati a Israele. Tra le zone dell’Area C che verrebbero annesse a Israele c’è anche la Valle del Giordano, un vasto territorio che già attualmente è abitato in larga parte da coloni israeliani ed è sotto il controllo di Israele, ma che formalmente appartiene per lo più all’Autorità Nazionale Palestinese, l’organo di autogoverno palestinese, e che Netanyahu aveva promesso di voler annettere, se rieletto. Infine, la creazione del futuro stato palestinese sarà subordinata a forti limitazioni alle sue capacità difensive, e all’impegno di tutte le fazioni militari palestinesi ad abbandonare la lotta armata.
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Le uniche concessioni che Israele dovrebbe fare ai palestinesi, secondo il piano, sono la costruzione di un tunnel che colleghi la Striscia di Gaza con la Cisgiordania – oggi è difficilissimo spostarsi fra i due territori – e il ritiro dei propri civili e militari da Gerusalemme est (una zona che comunque la comunità internazionale ha assegnato al popolo palestinese e che invece Israele occupa dal 1967). Inoltre ai palestinesi verrebbe garantito un territorio al confine con l’Egitto come compensazione per le concessioni fatte a Israele.
«Questo non è un accordo di pace, ma una bantustanizzazione della Palestina e del popolo palestinese», ha detto a Reuters il capo della delegazione palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot, paragonando i territori che spetterebbero al popolo palestinese a quelli che il regime sudafricano assegnò ai cittadini di origine africana durante gli anni dell’apartheid.
Sono pochissimi gli analisti che ritengono possibile, almeno nel breve termine, un accordo di pace fra israeliani e palestinesi. Dopo gli accordi del 1993 firmati a Oslo, in Norvegia, la situazione si è complicata moltissimo nel 1995 dopo l’uccisione dell’allora primo ministro israeliano Ytzhak Rabin, principale promotore degli accordi.
Nei successivi 25 anni ci sono state due rivolte di massa del popolo palestinese, le cosiddette intifada, e diverse operazioni militari degli israeliani nei territori gestiti dai palestinesi, l’ultima delle quali nel 2014 nella Striscia di Gaza. Nel frattempo i governi israeliani che si sono succeduti, guidati perlopiù dalla destra, hanno permesso e incoraggiato lo sviluppo delle colonie. All’inizio degli anni Novanta nelle colonie israeliane in Cisgiordania vivevano poco più di 100mila persone. Secondo le ultime stime oggi sono circa 405mila. Per contro, le principali organizzazioni politiche palestinesi si sono progressivamente indebolite per via di un certo logoramento e di numerosi scandali di corruzione, e non sono riuscite a impostare una strategia efficace per risolvere il conflitto con Israele.
Negli ultimi mesi anche la situazione politica israeliana si è fatta molto confusa: fra poco più di un mese si terranno le terze elezioni politiche nel giro di un anno, dato che nelle due precedenti non era emersa alcuna maggioranza, e il primo ministro uscente Bejamin Netanyahu è appena stato incriminato e andrà a processo per tre casi di corruzione e truffa (alcuni analisti hanno ipotizzato che Trump abbia diffuso il piano proprio per aiutare Netanyahu in vista delle nuove elezioni, che si terranno il 2 marzo).
Al momento, l’unica conseguenza concreta dell’annuncio di Trump è stato un aumento della tensione in Cisgiordania. In diverse città palestinesi e nella Striscia di Gaza sono state indette manifestazioni di protesta, mentre l’esercito israeliano ha fatto sapere che rafforzerà i controlli in alcune aree della Cisgiordania.