«Chi è Keyser Söze?»
I primi spettatori si fecero questa domanda 25 anni fa, in un film che iniziava da cinque "soliti sospetti"
Il 25 gennaio di 25 anni fa in un cinema di Park City, in Utah, i primi spettatori sentirono menzionare per la prima volta il nome Keyser Söze: poco più di un’ora dopo, assistevano a quello che sarebbe diventato uno dei più discussi e celebrati finali-con-colpo-di-scena del cinema. Il 25 gennaio di 25 anni fa al Sundance Film Festival veniva infatti presentato I soliti sospetti: scritto da Christopher McQuarrie, diretto da Bryan Singer e interpretato, tra gli altri, da Chazz Palminteri, Pete Postlethwaite e Kevin Spacey. Un film che quasi non si fece e che poi ci mise pochissimo a diventare di culto.
Singer e McQuarrie, amici da quando erano ragazzi, si erano fatti conoscere nel 1993 grazie al loro primo film: Public Access, anch’esso presentato al Sundance. Il film aveva vinto il Gran premio della giuria e soprattutto era piaciuto a Kevin Spacey, che non era ancora famosissimo ma era di certo più conosciuto di Singer e McQuarrie, entrambi non ancora trentenni. Spacey disse a Singer che voleva lavorare nel suo prossimo film, qualunque fosse stato, e Singer gli disse che in effetti lui e McQuarrie avevano già un’idea.
L’idea era semplice: Singer e McQuarrie volevano fare un film che parlasse di cinque criminali che si trovano insieme in un confronto all’americana, cioè messi uno accanto all’altro in un commissariato di polizia, per farsi riconoscere.
I due amici avevano già in testa il titolo: The Usual Suspects, ispirato da un articolo di giornale che a sua volta citava una celebre frase di Casablanca: «Fermate i soliti sospetti». Avevano anche già deciso che il manifesto di quel film sarebbe stata proprio una foto di quel confronto iniziale. Ma ancora non avevano molte idee sul resto della storia.
Poi, per fortuna, le trovarono. Decisero che la storia sarebbe stata la premessa di una serie di intricate e fumose vicende che giravano attorno al fatto che quei criminali decidevano di fare insieme un colpo che li faceva precipitare in qualcosa di più grande di loro, che alla fine li portava a dover lavorare per il misterioso e temibilissimo Keyser Söze, che con un ricatto li avrebbe costretti a compiere un’azione complicatissima, quasi suicida, che finisce con l’esplosione di una nave.
McQuarrie avrebbe in seguito spiegato che il nome Keyser Söze derivava da quello di un suo vecchio capo – un certo Kayser Sume – e che lo cambiò leggermente grazie a un dizionario di un coinquilino turco, sul quale lesse che söze è una parola usata per riferirsi a qualcuno che “parla molto”.
Nel film, a raccontare tutta la storia sarebbe stato uno dei cinque criminali, Roger “Verbal” Kint: un truffatore di piccola taglia e con paralisi cerebrale infantile, molto loquace (da cui il soprannome “Verbal”) e per nulla temibile. Kint è uno dei due sopravvissuti – contro i 27 morti – all’esplosione della nave, che chiude le vicende dei cinque e che apre il film. L’altro sopravvissuto, messo però molto male, è un criminale ungherese. Gran parte del film è la versione dei fatti che, il giorno dopo l’esplosione, Kint racconta al detective David Kujan, che lo interroga nel suo ufficio. Dall’incontro dei criminali per il confronto all’americana fino al colloquio tra Kint e Kujan, passano sei settimane.
McQuarrie scrisse nove versioni della sceneggiatura in cinque mesi, ma lui e Singer fecero molta fatica a trovare qualcuno che ne finanziasse le riprese. Era un film neo-noir, di due giovani apprezzati ma non ancora affermati, senza ancora nessun grosso nome nel cast (Spacey non lo era, allora) e, cosa più importante di tutte, Singer ha raccontato che i produttori lo giudicavano troppo ingarbugliato e pieno di dialoghi per poter essere girato senza incasinare il tutto.
Con fondi piuttosto risicati – circa 5 milioni di dollari – e grazie ad attori che presero un salario più basso del loro solito, il film si fece e le riprese durarono 35 giorni: 33 a Los Angeles e 2 a New York. Le scene dell’interrogatorio di Kujan a Kint furono girate prima di tutto il resto, in cinque giorni.
Le storie dal set parlano dei Soliti sospetti come di un film che gli attori si divertirono molto a girare. La scena del confronto all’americana, quella che introduce molti dei personaggi al centro del racconto di Kint, sarebbe dovuta essere seria. Ma gli attori la iniziarono in modo più scanzonato, ed è così che Singer decise di girarla. Uno di loro – Fred Fenster, cioè Benicio del Toro – parla in un modo quasi incomprensibile: fu una scelta dell’attore, perché lesse che il suo personaggio moriva piuttosto presto e non portava granché avanti la storia, e decise quindi di dargli una caratteristica che lo rendesse perlomeno un po’ più memorabile.
A proposito, nella scena in cui Kobayashi dà ai cinque criminali le buste contenenti tutte le informazioni con cui li ricatta affinché lavorino per il suo capo Keyser Söze, le buste sono distribuite ai personaggi nello stesso ordine con cui, nel corso del film, moriranno.
Il fatto è che, come per gran parte delle cose che si vedono nei Soliti sospetti, non si può dire se siano davvero successe o se siano successe proprio come le racconta Kint. Il narratore è inattendibile. Lo si può sospettare durante il film, ma lo si scopre solo alla fine: quando Kujan si arrende al fatto che Kint non gli dirà altro di rilevante per identificare Keyser Söze e dunque lo lascia andare. Lì lo spettatore capisce, insieme a Kujan, che gran parte dei nomi e dei luoghi che ha sentito nominare nella precedente ora e mezza Kint li ha detti leggendoli qua e là per l’ufficio dell’ispettore.
Kobayashi, per esempio, è una marca di tazze.
McQuarrie ha raccontato che l’idea di far inventare a Kint una storia mettendo insieme nomi letti nell’ufficio venne a Singer, dopo che lui aveva già scritto 50 pagine di sceneggiatura. Per costruire Keyser Söze e la storia che gli sta attorno, i due hanno inoltre spiegato di essersi in parte ispirati al personaggio di Yury, al centro del thriller anni Ottanta Senza via di scampo. Tra i film che in qualche modo ispirarono I soliti sospetti, Singer mise anche La fiamma del peccato, Rashomon, Quarto potere e Rapina record a New York.
Il 25 gennaio di 25 anni fa, dopo la scena finale che dà un nuovo senso a tutto il film, la reazione fu in genere positiva, in certi casi entusiasta. Ma ci fu chi dissentì: per esempio il noto critico cinematografico Roger Ebert, che un po’ di mesi dopo avrebbe scritto: «La prima volta che lo vidi, a gennaio al Sundance, mi persi nella trama, e pensai che forse era perché aveva già visto troppi film quel giorno» (succede, ai critici che vanno ai Festival). Poi Ebert aggiunse:
«Ma siccome ad altri era piaciuto, sono tornato a vederlo, armato di un blocchetto per prendere appunti e della determinazione necessaria a non perdermi nessun dettaglio. Ancora una volta, però, la mia comprensione si è offuscata e alla fine ho scritto sul blocchetto: “Per quanto ne possa capire, non me ne frega niente”».
Ebert spiegò che trovava il colpo di scena finale messo lì solo per sorprendere, ma che a ripensare a tutta la storia precedente non era sufficientemente motivato e spiegato: «Preferisco essere sorpreso con l’argomentazione», scrisse, «più che con la manipolazione». E concluse scrivendo: «Il finale risolve poco, ma forse c’era solo poco da risolvere». Insomma: non gli piacque, e lo mise persino in una lista dei film che meno gli erano piaciuti. Ebert individuò addirittura nel finale quella che in seguito, in una recensione di Fight Club, avrebbe definito “la sindrome Keyser Söze“, cioè quello che succede quando «i film sembrano dover per forza aggiungere una scena finale che ridefinisca e metta in discussione la realtà di tutto quello che è appena successo».
Non si può negare che il finale dei Soliti sospetti sia appagante ma, se ci si pensa un po’ su, non tutti i pezzi si incastrano del tutto quando si ripensa – o addirittura si riguarda – la storia sapendo come andrà a finire. Ma è anche vero che può essere molto piacevole rivedere il film con il piacere di cogliere nuovi dettagli e provare nuovi punti di vista, e che una certa vaghezza del film è servita, alla fine, a rendere ancora più memorabile il personaggio di Keyser Söze.
Ci fu – e probabilmente ancora c’è – qualcuno pronto ad argomentare con convinzione che, nonostante il finale, Roger “Verbal” Kint non sia Keyser Söze. La tesi, in breve, è questa: il finale mostra di certo che Kint è molto più astuto e cattivo di quanto non dia a vedere, e che il criminale ungherese fa un identikit in cui quello che lui crede essere Keyser Söze ha in effetti la faccia di Kint. Ma non ci sono altre prove concrete del fatto che Keyser Söze esista o che, ammesso che esista, sia Kint. Dire che Kint è Söze vorrebbe dire credere, almeno in parte, al resoconto dello stesso Kint, pur sapendo quanto inaffidabile si sia dimostrato.
Dopo l’uscita dei Soliti sospetti, Singer, Spacey e altri attori del film giocarono un po’ sul finale. Kevin Spacey raccontò che il regista fece credere a diversi attori che era quello che interpretavano loro che poi si sarebbe rivelato essere Keyser Söze, e che qualcuno ci rimase male quando scoprì che non era così. Pete Postlethwaite, che interpretava Kobayashi, rispose invece così a un intervistatore che gli chiedeva se Kobayashi fosse Keyser Söze: «Chi lo sa? Nessuno lo sa». Singer, però, è stato chiaro, in diverse occasioni, nel far capire che, per come la vede lui, Kint è Söze.