I libri obliqui di Safarà
Ma obliqui nel vero senso della parola: storia di una una piccola e originale casa editrice che pubblica grandi scrittori sconosciuti in Italia
di Arianna Cavallo – @ariannacavallo
La casa editrice Safarà pubblica libri trasversali e difficili da inquadrare, scritti con voci diverse da paesi diversi e senza molto in comune, se non l’essere singolari e farsi notare: non solo nel contenuto ma anche nella forma, che ha un lato tagliato leggermente obliquo che ha fatto disperare molti librai. La sua storia è legata a una figura altrettanto imprevedibile, quella di Alasdiar Gray, morto il 29 dicembre scorso a 85 anni e considerato il più grande scrittore scozzese dai tempi di Sir Walter Scott, come lo definì Anthony Burgess, l’autore di Arancia Meccanica.
Nonostante la stima di colleghi e moltitudini di appassionati in Scozia e mezzo mondo, in Italia Alasdair Gray è quasi sconosciuto. Negli anni Novanta la casa editrice Marcos y Marcos aveva pubblicato due suoi romanzi, ma Lanark: Una vita in quattro libri, il suo capolavoro uscito nel 1981, arrivò soltanto nel dicembre del 2015, quando il primo volume uscì proprio per Safarà. Allora era una casa editrice sconosciuta e periferica, che aveva pubblicato poco e niente e che era nata come centro di ritrovo culturale e spaccio di giochi, fumetti e libri rari, gestito da un fratello e una sorella a Pordenone. «Alasdair Gray è una figura sacrale per noi», racconta Cristina Pascotto, la responsabile editoriale di Safarà. «Fu il primo ad avere creduto in me e in mio fratello, due ragazzini che avevano un’idea».
A distanza di quattro anni Safarà si è ritagliata un posto tra le case editrici di nicchia grazie a testi raccolti uno per uno, senza badare al genere e senza seguire una rigida linea editoriale, se non quella di offrire libri trasversali e internazionali: «Mi baso sull’opera singola», spiega Pascotto, «e se quell’opera riesce, attraverso un’ispirazione autentica, a essere una cosa compiuta, il genere ha poca importanza. La letteratura è vasta, mi piace essere stupita, mi piace che sappia spostare il mio baricentro». Nel 2015 quell’idea era soltanto nell’aria, comunque, e quel che c’era di concreto era il circolo fondato dieci anni prima dal fratello Guido: «era un negozio di fumetti, un club scacchistico, un ritrovo culturale, un punto di incontro per ragazzini e adulti che cercavano un certo tipo di libri: c’era molto del mondo fantasy ma potevi trovare anche fumetti dalla Bonelli, manga giapponesi, libri rari».
Quando il fratello Guido aveva fondato il circolo, Cristina era ancora al liceo a Pordenone; poi si era laureata a Padova ed era andata a studiare regia cinematografica negli Stati Uniti: «in quegli anni, lavoravo nel mondo del cinema indipendente, fatto negli scantinati. Avevo un’idea unitaria delle arti e a New York avevo conosciuto un mondo editoriale molto effervescente e rivolto verso il futuro, con molta sperimentazione sia nei contenuti che nella grafica». Nel frattempo contribuiva da lontano alla crescita del circolo, che in quegli anni divenne un marchio registrato con il nome di Safarà – che in arabo significa viaggio, in senso ampio, anche verso l’aldilà – e poi una partita IVA, e pubblicò un fumetto e un libro illustrato per bambini: «era una cosa parallela alle nostre vite che non aveva trovato un vero sbocco».
Poi nel 2015 Guido e Cristina capirono che Safarà «era potenzialmente qualcosa» ed era arrivato il momento di decidere se farla diventare tale o se lasciarla finire. Cristina, che aveva 27 anni, decise di tradurre in quel laboratorio di sperimentazione la sua idea di letteratura e di trasformarlo in una casa editrice che avesse tutto quello che lei cercava in una casa editrice: «visione, coraggio, un occhio al passato e uno al presente, voglia di sperimentare e di offrire idee diverse della possibilità della letteratura».
Per iniziare aveva in mente due titoli, due romanzi che aveva letto mentre viveva negli Stati Uniti, dove avevano avuto successo, mentre in Italia non erano arrivati: Lanark, appunto, e Una ragazza lasciata a metà, l’esordio dell’irlandese Eimear McBride, uscito nel 2013 e vincitore, l’anno dopo, del Women’s Prize for Fiction, uno dei più importanti premi letterari in lingua inglese. «Avevamo tante belle idee, un ufficio trovato per pura fortuna, nessun contatto con gli altri editori, l’ingenuità degli inizi e nessun budget», ricorda Pascotto. Doveva farsi venire un’idea per un inizio non troppo in sordina e la tirò fuori dal mondo del cinema.
In quel periodo il regista Steve McQueen stava concludendo le riprese di 12 anni schiavo, che l’anno successivo vinse tre Oscar, tra cui quello come miglior film. Era basato sul romanzo autobiografico di un afroamericano, Solomon Northup, pubblicato nel 1853: raccontava la sua vita dopo che era stato rapito vicino a New York e venduto come schiavo in Louisiana fino a quando venne liberato, 12 anni dopo. I diritti di copyright del libro erano scaduti e chiunque avrebbe potuto ristamparlo: Safarà lo fece uscire a poche settimane dalla cerimonia degli Oscar, con un testo tradotto proprio da Pascotto – «mi rimboccai le maniche e mi misi a tradurlo io» – accompagnato da note storico letterarie e da illustrazioni originali tratte dalla prima edizione.
Pascotto scrisse a McQueen per chiedergli una prefazione, lui accettò e mandò anche un’introduzione scritta da sua moglie Bianca Stigter, storica e critica culturale: «La fortuna dei principianti», commenta Pascotto. «Il libro aveva una distribuzione ridicola, regionale; la libreria Hoepli di Milano aveva comprato un po’ di copie e le stava vendendo ma i numeri erano minuscoli. Poi il film vinse l’Oscar, il manifesto scrisse una recensione sul libro – anche se non ho idea di come il giornalista l’abbia trovato – e finimmo sul sito della RAI tra i migliori adattamenti da testi letterari. Nel frattempo la casa editrice Newton pubblicò un’edizione economica del libro con stampata sopra la locandina del film: puoi immaginare, la nostra costava tre volte tanto ed era difficile da trovare, eravamo dei parameci in confronto a Newton». Anche se poi la casa editrice ha preso altre direzioni, anzi nasceva rivolta verso altri orizzonti, «12 anni schiavo fu un bel modo per inaugurare la storia di Safarà».
La storia prenderà il largo grazie a un bando europeo per case editrici di testi letterari stranieri e che calzava bene a Safarà, che voleva essere aperta al mondo e alle voci più diverse. «Si potevano presentare fino a 10 libri da tradurre e pubblicare nel 2015 e nel 2016, e ottenere un rimborso a fondo perduto del 50 per cento: lavoriamo per sei mesi e vinciamo il bando» spiega Pascotto. Fu il colpo che accelerò la nascita di Safarà, che dal niente ebbe improvvisamente accesso alla produzione su scala nazionale e si ritrovò a dialogare con grandi agenzie letterarie, contattare scrittori, reclutare traduttori e occuparsi di aspetti pratici come la distribuzione. Anche per via del bando, nei primi due anni predominarono le letterature europee: oltre a Gray e McBride, il ceco Jan Němec con Storia della luce, l’islandese Oddný Eir Ævarsdóttir con Terreni e il ceco Tomáš Zmeškal con Lettera d’amore in scrittura cuneiforme. Sono testi lontani tra loro, avvicinati dall’essere contemporanei, sperimentali, affascinanti e a sé stanti, o altrimenti ascrivibili al filone letterario del momento che però esprimono con uno scarto, restando un po’ sul margine.
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I circa 45 titoli del catalogo di Safarà, a cui si aggiungeranno i 10 previsti per il 2020, sono il risultato di un meticoloso lavoro di ricerca di Pascotto, che vive con le antenne sempre all’erta. «Non c’è mai una specie di modus operandi», spiega, «ed è raro che i libri mi vengano proposti. Ora ricevo suggerimenti dalle agenzie letterarie e dai traduttori ma di fatto arriviamo a ogni pubblicazione dopo un percorso di ricerca». Bisogna leggere molto, essere aggiornati sul lavoro delle altre case editrici e seguire a tappeto la stampa estera finché «qualcosa mi fa drizzare le orecchie»: a quel punto Pascotto si mette a caccia di vecchie copie sperdute in ogni angolo di mondo, se le fa spedire dalle librerie più impensabili e cadenti e le riceve dopo settimane, mesi e mesi.
È così che ha scoperto l’opera dello scrittore australiano Gerald Murnane, che per il New York Times è il più grande autore in lingua inglese di cui quasi nessuno ha mai sentito parlare, oltre che meritevole di vincere il premio Nobel per la letteratura. A 79 anni, autorecluso ed eccentrico, è per molti una “figura di culto”, ammirato da scrittori come J. M. Coetzee, Ben Lerner, Joshua Cohen e Teju Cole, che lo considera «un genio», «degno erede di Beckett». Eppure già nel 1999, quando Murnane vinse il Patrick White Award, un premio per gli scrittori sottostimati, le sue opere erano fuori catalogo.
Pascotto aveva sentito parlare di Murnane, che era stato pubblicato in America, e scovò un’edizione del suo libro Border Districts dalla copertina «molto bella ed eterea». Capì che era «un personaggio fuori scala» e cercò di contattarlo per pubblicare la sua opera più famosa, Le pianure. Murnane non viaggia, è uscito a malapena dallo stato del Victoria in cui vive, ha un cellulare su preghiera del figlio ma lo usa raramente, non ha internet e riceve solo lettere. Chi vuole comunicare con lui deve farlo passando attraverso il suo editore australiano, che è anche un suo amico. Alla fine, «Murnane ha accettato di essere pubblicato da noi, anche perché abbiamo creato un catalogo, per quanto piccolo, di scrittori che si rispettano tra loro: è una casa della letteratura allargata che può ospitare molte voci non in conflitto». Le pianure, pubblicato a novembre nella traduzione di Roberto Serrai, è arrivato alla terza ristampa, indice secondo Pascotto che «i lettori sono pronti a una letteratura di senso e di spessore, che non è per forza oscura e criptica», e nel 2020 Safarà pubblicherà anche Border Districts, con il titolo Distretti di confine. Quanto a Murnane, pare che faccia il barista e spini la birra in un posto sperduto nel Victoria.
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Si capisce perché Safarà ha tradotto il suo spirito avventuroso anche nell’aspetto dei libri, dalla grafica al formato obliquo. Pascotto, ricercando la libertà grafica dell’editoria americana, voleva che ogni libro fosse un’opera unica e sperimentale anche nell’estetica, in grado di catturare l’attenzione del lettore tra le valanghe di immagini che lo sommergono ogni giorno.
Mentre pensava a come tradurre le sue idee in immagini incontrò Giuseppe D’Orsi, grafico e illustratore che chiese a Safarà di pubblicare il suo libro d’artista, La creatività è un pesce, che era tutto obliquo. Pascotto gli propose di diventare il direttore artistico di Safarà, lui rispose proponendo di stampare solo libri obliqui che riflettessero lo spirito dei libri della casa editrice. L’idea venne brevettata, rendendo riconoscibili i libri della casa editrice che per il resto – dal font al progetto grafico della copertina – restano dei progetti a sé stanti. Ci furono un po’ di incomprensioni, alcuni librai rimandarono indietro i libri ritenendoli difettosi, altri si lamentarono della difficoltà di esporli, mentre i lettori più assidui si affezionavano al formato. Dal 2019 Safarà ha rinnovato il marchio: il nome dell’autore e la scritta Safarà in copertina sono uguali per tutti i libri, mentre la copertina, titolo compreso, è ripensata ogni volta da zero; inoltre i volumi venduti in libreria sono rettangolari mentre restano obliqui quelli acquistati online e alle fiere editoriali. A novembre il progetto ha vinto il premio di grafica editoriale ai Creative Awards di Los Angeles.
Safarà conta su cinque soci (tra cui i fratelli Pascotto), ha tre persone fisse in redazione, un ufficio stampa e moltissimi collaboratori e traduttori esterni. Oltre alla narrativa, pubblica una collana di Young Adult (cioè di testi per adolescenti) e tre di saggistica: Animalia, sull’interazione tra animali e umani e La mano che pensa, dedicato ad architettura, filosofia e scienze cognitive. «Safarà è la nostra vita – dice Pascotto – e dietro ogni libro c’è sempre un lavoro di grande dedizione, per cui ogni volta che ne esce uno siamo terrorizzati». Per una casa editrice giovane e poco conosciuta, è difficoltoso raggiungere tutti i suoi lettori potenziali, un obiettivo che per Safarà «è ancora molto lontano»: c’è chi li scopre perché sta cercando un autore che pubblicano solo loro, chi grazie a una recensione, chi incuriosito da un post su Instagram e molti grazie al consiglio dei librai, che Safarà considera alleati imprescindibili.
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Il programma dei prossimi due anni prevede un allargamento dei confini, con autrici come la canadese Marie-Claire Blais, che a vent’anni, nel 1959, pubblicò La Belle Bête imponendosi come un talento letterario, e come la messicana Amparo Dávila, una «grande signora della letteratura dell’orrore di cui pubblicheremo una raccolta di racconti». Poi proseguirà la collaborazione con autori già usciti con Safarà che, anno dopo anno, stanno diventato i suoi autori: oltre al già citato Murnane uscirà per esempio la traduzione di The Need, un «thriller, una storia di fantascienza e un romanzo molto letterario» sulla maternità scritto dalla statunitense Helen Philips, alla sua terza pubblicazione con Safarà. E poi ci saranno altri inediti di Alasdair Gray, l’autore da cui tutto è partito e che la casa editrice porterà integralmente in Italia, a partire da 1982 Janine, il romanzo preferito di Gray.
Pascotto ricorda quando scoprì l’opera di Gray a Glasgow, la sua città natale e lo sfondo del suo mondo letterario: «era uno scrittore ma anche un pittore, era versatile nelle arti, era una figura rinascimentale. Aveva impiegato tre decenni per scrivere Lanark, questa distopia che era cresciuta con lui: un libro mondo dalla scrittura limpida e con molta ironia, un affresco delle possibilità della letteratura e dell’uomo». Quando decise di curare Safarà, Pascotto contattò la Canongate, la sua casa editrice, «Gray accettò generosamente la nostra offerta e nel giro di una settimana concludemmo un accordo». Pascotto rimpiange molto di non averlo mai incontrato e spera di rifarsi un po’ con Murnane: «Prima o poi lo andrò a trovare: voglio farmi spinare una birra da Murnane».