Il primo a guadagnarci dall’uccisione di Suleimani è l’ISIS
Le operazioni contro lo Stato Islamico sono state sospese, la coalizione che lo aveva combattuto si sta sgretolando e la presenza dei militari americani in Iraq è in bilico
di @elenazacchetti
Domenica scorsa l’esercito statunitense ha annunciato la sospensione delle operazioni militari della coalizione internazionale anti-ISIS in Iraq, oltre che dell’addestramento dei militari iracheni in corso da diversi anni. Poco dopo, il parlamento di Baghdad ha approvato una risoluzione per chiedere al primo ministro Adil Abdul Mahdi di cacciare i soldati americani dall’Iraq. Entrambi gli eventi sono stati conseguenza dell’uccisione del potente generale iraniano Qassem Suleimani, morto in un attacco statunitense compiuto a Baghdad la scorsa settimana. Ed entrambi hanno avuto un sicuro vincitore: l’ISIS.
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L’ISIS in Iraq è stato combattuto da una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, senza i quali un’operazione di questo tipo non si sarebbe mai potuta compiere. L’operazione, chiamata Inherent Resolve, ha coinvolto circa 5mila soldati statunitensi solo in Iraq, responsabili di fornire appoggio alle forze locali per sconfiggere i migliaia di miliziani presenti in diverse città del paese e nascosti nelle aree rurali, nei deserti e sulle montagne.
Come ha scritto
In Iraq l’ISIS è stato ufficialmente dichiarato sconfitto dal governo iracheno nel dicembre 2017, alla fine di tre anni di guerra in cui le forze irachene avevano combattuto insieme alla coalizione guidata dagli Stati Uniti e alle milizie sciite appoggiate dall’Iran e coordinate proprio dal generale iraniano Qassem Suleimani. Negli ultimi due anni l’ISIS ha iniziato però a riorganizzarsi, non scomparendo mai del tutto, ed è tornato a fare quello che faceva prima di proclamare il Califfato Islamico, cioè azioni di insurgency (attacchi costanti e mirati e attentati suicidi).
«Per i miliziani dello Stato Islamico, l’attacco compiuto con il drone americano che ha ucciso il comandante Qassem Suleimani è stato due vittorie in una», ha scritto
Due-vittorie-in-una soprattutto per due ragioni: perché Suleimani, nel suo ruolo di capo delle Forze Quds, unità delle Guardie rivoluzionarie iraniane incaricata delle operazioni all’estero, era stato il principale responsabile dell’alleanza tra milizie irachene sciite in funzione anti-ISIS. Le milizie avevano combattuto piuttosto efficacemente l’ISIS, anche se erano state accusate di compiere crimini sistematici contro la popolazione non sciita dell’Iraq.
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La seconda ragione è legata invece alle conseguenze dell’operazione contro Suleimani, nella quale è stato ucciso anche Abu Mahdi al Muhandis, vice capo delle Forze di mobilitazione popolare, insieme di milizie irachene principalmente sciite molto legate all’Iran e dal 2018 inquadrate all’interno dell’esercito iracheno. L’uccisione di Suleimani e Muhandis ha aggravato un conflitto già esistente tra forze statunitensi e milizie sciite legate all’Iran, e quindi la definitiva fine della coalizione che aveva sconfitto l’ISIS. Ha inoltre spinto il governo iracheno a definire l’attacco una «violazione della sovranità nazionale».
Secondo Sam Heller, analista dell’International Crisis Group ed esperto di terrorismo e gruppi armati, l’attacco contro Suleimani è stato esattamente quello di cui l’ISIS aveva bisogno: nuovo margine e spazio per operare, «in modo da rompere la sua attuale marginalità».
Negli ultimi giorni si è cominciato a vedere come l’uccisione di Suleimani sia stata una vittoria per l’ISIS. Nel comunicato diffuso domenica, l’esercito americano ha annunciato la sospensione delle operazioni anti-ISIS per potersi difendere al meglio dalle eventuali ritorsioni promesse dall’Iran per la morte del suo generale.
La situazione si è poi aggravata con l’approvazione da parte del parlamento iracheno di una risoluzione che di fatto chiede al governo di espellere i militari americani dall’Iraq. Il primo ministro iracheno Mahdi ha detto di volerla rendere effettiva, ma non è ancora chiaro cosa succederà, sia perché la risoluzione è stata appoggiata solo dai parlamentari sciiti (quelli sunniti e quelli curdi, favorevoli alla presenza statunitense nel paese, non si sono presentati alla sessione), sia perché lo stesso Mahdi è un capo di governo dimissionario: aveva annunciato di voler lasciare il suo incarico lo scorso novembre a causa delle grandi proteste antigovernative iniziate settimane prima, ma da allora l’Iraq non è riuscito a mettersi d’accordo per nominare un nuovo primo ministro.
Che avvenga il ritiro o meno, comunque, l’efficacia della coalizione anti-ISIS potrebbe essere già stata compromessa.
In caso di ritiro, ha scritto il Wall Street Journal, gli Stati Uniti perderebbero la loro capacità di affrontare situazioni di emergenza e di colpire rapidamente obiettivi in fuga. Molto dipenderà comunque dai tempi e dai termini dell’eventuale espulsione delle truppe americane. Se si dovesse decidere per esempio di mandare via i soldati americani anche dal Kurdistan Iracheno, la regione autonoma del nord abitata per lo più da curdi e molto contraria al ritiro degli Stati Uniti, si creerebbero enormi problemi anche per le truppe statunitensi presenti in Siria, che continuano a dipendere molto dai soldati stanziati nel nord dell’Iraq.
Anche in caso di non ritiro, l’ISIS sembra poterci guadagnare qualcosa, vista la preoccupazione del governo americano di dare priorità alla sicurezza dei propri soldati rispetto alla guerra contro lo Stato Islamico.
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Sono passati cinque giorni dall’uccisione di Qassem Suleimani, generale che si era reso responsabile di crimini efferati in molti paesi del Medio Oriente ma che per diverse ragioni era considerato una specie di eroe nazionale in Iran. Non sono ancora chiare le conseguenze di un evento di tale portata, perché molto dipenderà da quello che deciderà di fare l’Iran, ma anche dalla reazione degli Stati Uniti, dell’Iraq e delle diverse milizie e gruppi sciiti molto vicini al regime iraniano.
Intanto però ci sono due cose da tenere a mente, quando si parla di Stato Islamico in Iraq: che non sarebbe la prima volta che l’ISIS risorge dalle proprie ceneri, dopo essere stato dichiarato sconfitto dagli americani; e che più si aggraverà la crisi tra Iran e Stati Uniti, e meno gli sforzi per tenere a bada la riorganizzazione del gruppo serviranno a qualcosa.