Le ultime reazioni all’uccisione di Suleimani
L'Iran non rispetterà più i limiti previsti dall'accordo sul nucleare, Trump ha minacciato di imporre sanzioni all'Iraq se saranno espulsi dal territorio iracheno i militari americani
Domenica ci sono state nuove reazioni e nuove tensioni in Medio Oriente per l’uccisione di Qassem Suleimani, potente generale iraniano morto in un attacco statunitense all’aeroporto di Baghdad, in Iraq, nella notte tra giovedì e venerdì. Gli ultimi sviluppi, considerati molto importanti, hanno riguardato in particolare Iran e Iraq e hanno provocato l’ennesima reazione furiosa del presidente statunitense Donald Trump, che è tornato a minacciare di bombardare i “siti culturali” iraniani, un’azione che sarebbe un crimine di guerra.
Anzitutto l’Iran ha annunciato che non rispetterà più i limiti contenuti nell’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015, allora considerato “storico” ma poi molto indebolito a causa del ritiro degli Stati Uniti deciso da Trump tre anni dopo. A differenza di quello che hanno scritto diversi giornali, tra cui molti italiani, l’Iran non si è ritirato dall’accordo, perché alcuni obblighi contenuti nell’intesa continueranno a essere validi, soprattutto i controlli condotti dagli ispettori internazionali nelle centrali iraniane, uno dei punti più importanti negoziati cinque anni fa.
La differenza è importante. L’Iran aveva già iniziato a non rispettare i limiti contenuti nell’accordo – per esempio il numero di centrifughe consentite, la soglia di arricchimento dell’uranio e il limite di riserve dell’uranio – dal ritiro degli Stati Uniti annunciato da Trump nel maggio 2018. L’annuncio di ieri è stato quindi più che altro una dichiarazione di intenzioni per il futuro e un messaggio diretto agli Stati Uniti, contro cui l’Iran aveva anticipato ritorsioni per l’uccisione di Suleimani.
Il fatto che il governo iraniano non abbia parlato di ritiro permetterà all’Iran di mantenere un certo margine di manovra e di non chiudere le porte ai paesi europei che ancora fanno parte dell’accordo. Inoltre, come ha ribadito il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Zarif, l’Iran è disposto a tornare a negoziare con gli Stati Uniti in qualsiasi momento, a patto però che il governo americano tolga le sanzioni imposte all’Iran a seguito del suo ritiro dall’accordo. Nel frattempo i leader di Germania, Francia e Regno Unito hanno diffuso un comunicato congiunto in cui hanno chiesto che l’Iran continui a rispettare i limiti fissati nel 2015 e che ritiri tutte le misure che non sono in linea con l’accordo.
Domenica ci sono state novità anche per quanto riguarda l’Iraq.
Il parlamento iracheno ha votato una risoluzione non vincolante per chiedere al governo di terminare l’accordo con cui più di quattro anni fa gli Stati Uniti avevano accettato di mandare i loro soldati in Iraq per combattere contro lo Stato Islamico (o ISIS): in altre parole, si è espresso per l’espulsione dall’Iraq dei militari stranieri (non solo americani) presenti sul territorio iracheno.
Durante la seduta parlamentare, a cui non hanno partecipato i parlamentari sunniti e curdi, contrari alla risoluzione, ha parlato anche il primo ministro iracheno, Adil Abdul Mahdi, che ha usato parole molto dure contro l’uccisione di Suleimani, che aveva già definito in precedenza una «violazione della sovranità nazionale». La decisione definitiva sull’espulsione dei militari americani dall’Iraq dovrà prenderla lo stesso Mahdi, che ha legittimità limitata visto che si era dimesso a causa delle proteste antigovernative in corso da settimane: per il momento non è chiaro cosa succederà, o quali saranno i tempi di un eventuale ritiro.
La questione dibattuta domenica è particolarmente importante: non solo perché un’eventuale espulsione delle truppe americane dall’Iraq sarebbe un’umiliazione per Trump, ma anche perché potrebbe indebolire in maniera significativa la guerra contro l’ISIS, gruppo che da diversi mesi sta cercando di riorganizzarsi dopo essere stato sconfitto sia in Siria che in Iraq.
Poco prima del voto al parlamento iracheno, l’esercito americano aveva già annunciato la sospensione delle operazioni contro l’ISIS, per concentrarsi nel difendere i propri soldati presenti in Iraq da eventuali ritorsioni iraniane. Poco dopo il voto, Trump ha minacciato l’Iraq che, in caso di espulsione delle truppe americane, il suo governo avrebbe imposto sanzioni al paese (suo alleato) e lo avrebbe costretto a pagare «miliardi di dollari» per le spese sostenute dagli Stati Uniti nella costruzione di una «base aerea estremamente costosa» in Iraq.
Domenica Trump ha inoltre minacciato di nuovo l’Iran di bombardare 52 siti culturali iraniani, un’azione considerata un crimine di guerra. La minaccia di Trump aveva già ricevuto molte critiche il giorno precedente, e aveva incontrato parecchie resistenze all’interno del suo governo, che però non erano state sufficienti a fermare il presidente.
Con un tweet molto particolare, Trump ha anche risposto alle critiche che diversi parlamentari statunitensi, soprattutto Democratici, gli avevano rivolto nei giorni precedenti, accusandolo di avere fatto una cosa illegale non notificando in anticipo al Congresso la sua intenzione di uccidere Suleimani. Trump ha scritto: «Questo post servirà come avviso al Congresso degli Stati Uniti che se l’Iran dovesse colpire qualsiasi persona o obiettivo statunitense, gli Stati Uniti reagiranno rapidamente e con forza, e forse in una maniera sproporzionata. Questa notifica legale non è richiesta, ma è comunque data!».
Poco dopo, l’account della commissione Esteri della Camera statunitense ha risposto scrivendo: «Questo post servirà a ricordare che il potere di fare la guerra risiede nel Congresso, dice la Costituzione. E che dovrebbe leggere il War Powers Act. E che non è un dittatore».
This Media Post will serve as a reminder that war powers reside in the Congress under the United States Constitution. And that you should read the War Powers Act. And that you’re not a dictator. https://t.co/VTroMegWv0
— House Foreign Affairs Committee Dems (@HouseForeign) January 5, 2020