Vent’anni di Putin
Il presidente russo è arrivato al potere alla fine del 1999 e non se n'è più andato: come ci è riuscito?
Vladimir Putin è il padrone della politica russa dal 2000: da quando, nell’agosto del 1999, venne nominato primo ministro dall’allora presidente Boris Eltsin. In quel momento sembrava che la sua nomina sarebbe stata un momento di passaggio: il predecessore di Putin era durato solo pochi mesi, e Eltsin aveva visto altri tre primi ministri andare e venire dopo il crollo finanziario dell’agosto 1998. Invece poco dopo Putin venne eletto presidente, e non se ne è più andato.
Dopo vent’anni al potere, Putin ha “personalizzato” la politica russa al punto che è molto difficile immaginare una Russia senza di lui. Come si è arrivati fino a qui?
Vladimir Putin, dal 1999 al…
Putin è nato a San Pietroburgo nel 1952, si è laureato in Diritto internazionale e si è formato nel KGB, i temuti servizi segreti dell’Unione Sovietica. Dopo essersi occupato di rapporti con l’estero per l’allora sindaco di San Pietroburgo, Anatoli Sobchak, verso la fine degli anni Novanta venne chiamato a Mosca e nominato da Boris Eltsin a capo di varie delegazioni e commissioni e poi dell’FSB, il servizio segreto russo erede del KGB.
Nell’agosto del 1999, pur essendo praticamente uno sconosciuto, fu nominato prima deputato e, dopo la caduta del precedente governo, primo ministro della Federazione Russa. Mikhail Khodorkovsky, ex imprenditore e dissidente russo in esilio, quando all’epoca incontrò Putin, pensò che fosse «una persona molto, molto, democratica», a favore delle riforme e dell’occidentalizzazione del paese. Il 31 dicembre, inaspettatamente, Eltsin diede le proprie dimissioni, e come previsto dalla Costituzione a diventare presidente ad interim fu Putin.
Meno di tre mesi dopo, Putin vinse le elezioni presidenziali. Poi le vinse di nuovo nel 2004. Stando alla Costituzione, quello avrebbe dovuto essere il suo ultimo mandato presidenziale, visto che non era possibile farne più di due consecutivi. Le cose però andarono un po’ diversamente.
Nel 2008, per non perdere il potere, Putin decise di promuovere la candidatura di Dimitri Medvedev, considerato suo alleato, e si fece nominare primo ministro. Nonostante qualche divergenza – sulla guerra in Libia del 2011, per esempio – gli anni successivi furono definiti un duumvirato. Nel 2012, dopo aver fatto cambiare la Costituzione per aumentare la durata dei mandati presidenziali a sei anni, Putin venne eletto di nuovo presidente, carica che gli fu confermata anche nel 2018.
Se rimarrà al potere per tutta la durata del mandato – e ci rimarrà, salvo eventi inaspettati e per ora impensabili – raggiungerà i 25 anni al potere, un record che in Russia sarebbe secondo soltanto a quello di Stalin.
A quel punto, a 70 anni e di nuovo al secondo mandato consecutivo da presidente, Putin dovrebbe nuovamente lasciare il suo incarico.
Secondo gli analisti ed esperti di cose russe, è probabile però che nei prossimi anni Putin provi a fare quello che aveva già fatto nel 2012: cambiare le regole in modo da garantirsi in un modo o nell’altro una più lunga permanenza al potere. Il motivo del deciso inasprimento della repressione del dissenso al governo degli ultimi mesi sarebbe proprio questo: Putin vorrebbe cercare di togliere di mezzo ora i suoi più attivi oppositori, in modo da avere mano libera nei prossimi mesi e anni, quando dovrà probabilmente prendere decisioni ancora più impopolari.
Il consenso
Nell’agosto 1999, quando Putin divenne primo ministro, il Levada-Center, organizzazione indipendente russa che realizza sondaggi, disse che il tasso di approvazione di Putin era pari al 31 per cento. Nel gennaio del 2000, dopo essersi insediato come presidente, era all’84 per cento. Secondo l’istituto, da allora non è mai sceso al di sotto del 60 per cento. Come si spiega un aumento di popolarità così repentino in pochi mesi?
Arrivato al potere, Putin lavorò su due aspetti che divennero da subito e per lungo tempo una base molto solida del suo consenso. Si propose innanzitutto come un politico forte.
Nel settembre del 1999 ci furono una serie di attacchi in alcune abitazioni di Mosca e di Volgodonsk, nella Russia meridionale, in cui morirono centinaia di persone. Fu definito dai giornali “l’11 settembre della Russia”, e Putin rispose in modo muscolare, pronunciando le parole che molti russi volevano sentire: «Inseguiremo i terroristi ovunque», disse, mentre i suoi aerei bombardavano la capitale della repubblica separatista della Cecenia. Le autorità russe accusarono degli attentati i separatisti ceceni e gli estremisti islamici, ma gli oppositori di Putin – tra cui l’ex oligarca Boris Berezovsky e l’ex spia russa Alexander Litvinenko – sostennero che gli attentati fossero stati preparati dai servizi segreti russi con lo scopo di giustificare la successiva invasione della Cecenia.
Berezovsky fu trovato morto nel 2013 nella sua casa di Londra dove viveva in esilio da 13 anni, mentre Litvinenko morì nel 2006 sempre a Londra per avvelenamento da polonio-210, una sostanza altamente tossica e radioattiva.
Un’indagine del Regno Unito concluse che l’avvelenamento fu un’operazione “probabilmente approvata” dal direttore dell’FSB e dallo stesso Putin. Indipendentemente dagli autori, quegli attentati rappresentarono una svolta nella carriera di Putin: costruirono il sostegno popolare per il suo futuro ventennale potere.
Non molto tempo dopo essere diventato presidente ad interim, Putin volò a Grozny, la capitale della Cecenia, con un jet. Un comunicato stampa della presidenza russa sosteneva che per un tratto avesse pilotato l’aereo lui stesso.
La macchina di propaganda per la creazione di una specie di mito, da lì in poi e per altri due decenni, avrebbe funzionato benissimo. Putin ha voluto da subito mostrare un’immagine di sé molto particolare: un uomo coraggioso e “duro” che in fondo sa anche essere magnanimo. Si è spesso fatto fotografare mentre fa cose: per esempio mentre cavalca a petto nudo, sbuca alla guida di un sottomarino, suona il pianoforte, si sdraia sulle rocce della Siberia. E poi Putin che fa judo, Putin contro la tigre, Putin contro le cinture nere, Putin contro gli incendi, Putin contro l’orso bianco, Putin contro la balena.
La struttura del potere
Qualche tempo fa l’Economist ha riassunto così la situazione russa: «Dal momento in cui è arrivato al comando, Putin ha cercato di tenere insieme la Russia con gli stessi metodi anacronistici che in precedenza avevano spinto il paese verso il declino e lo sconvolgimento politico». Non solo Putin non è riuscito a smantellare le vecchie strutture sovietiche, ammesso che ci abbia provato, ma le ha utilizzate (con successo) per mantenere la stabilità sociale e assicurarsi il consenso.
Il principio della centralizzazione del potere è quello che è stato imposto al paese nell’ultimo ventennio.
Putin ha limitato l’autonomia delle regioni costruendo una gerarchia piramidale, in cui le responsabilità sono sempre delegate a un livello superiore al quale si ha accesso più per lealtà che per efficienza o talento. Putin gestisce direttamente ogni aspetto della macchina dello stato e ha costruito col tempo quella che molti analisti definiscono una “democrazia controllata”: in Russia si svolgono periodicamente le elezioni, ma candidarsi come sfidanti è molto difficile e chi ci riesce viene sfavorito dai media, quando non minacciato, perseguitato giudiziariamente o più semplicemente eliminato fisicamente. Senza concorrenti in grado o messi in grado di contestare il suo potere, l’astensionismo rimane da tempo l’unica incognita delle elezioni del paese.
Insomma, Putin ha costruito uno stato che opera in base alla premessa che i suoi nemici personali possono essere uccisi ovunque si trovino.
Oggi quasi tutte le grandi società russe hanno tra i loro manager di più alto grado un ex dirigente dell’FSB, e il potere che oggi l’FSB esercita sulla società russa è immenso. L’agenzia si occupa della sicurezza nel senso più vasto del termine: controlla direttamente o indirettamente larghe fette dell’economia nazionale, ha a disposizione una sorta di corpo di polizia che funziona in maniera simile all’FBI statunitense ma non risponde a giudici o tribunali: soltanto al presidente.
Per Putin, mantenere i suoi sottoposti in un perenne stato di ansia sul loro futuro è una scelta strategica che ha garantito al suo regime l’acquiescenza di quasi tutto l’establishment.
Opposizione
Fare opposizione o affermare i propri diritti in un paese come la Russia, con uno come Vladimir Putin alla presidenza, non è per niente facile. L’elenco delle violazioni dei diritti umani nel paese è sterminato e lo stato della democrazia – ammesso che si possa parlare di democrazia – è criticatissimo da osservatori e analisti internazionali, oltre che da attivisti e giornalisti russi. Decine di oppositori sono stati uccisi in circostanze poco chiare (come Boris Nemtsov o Denis Voronenkov), perseguitati e incarcerati (come Alexey Navalny, le Pussy Riot o Lyubov Sobol, per citare solo i casi più famosi) e gli imprenditori lontani dal regime sono stati messi in condizione di non poter operare.
L’attività e la libertà delle organizzazioni non governative è stata fortemente limitata con leggi che autorizzano i giudici russi a dichiarare qualsiasi ONG “indesiderabile” per motivi legati alla sicurezza nazionale, e a multare o imprigionare fino a sei anni i suoi membri. Lo scorso marzo, poi, la Russia ha approvato una nuova legge contro il dissenso: prevede punizioni per chiunque pubblichi online “notizie false” o chiunque mostri “mancanza di rispetto” verso il governo, imponendo di fatto una censura sulle critiche.
Una questione enorme in Russia è poi quella della libertà di stampa. Negli ultimi anni i giornalisti minacciati, scomparsi o uccisi sono stati molti. Il caso più famoso è quello di Anna Politkovskaja.
Putin ha poi stretto una salda alleanza con i movimenti antiabortisti russi, sostenuti a loro volta dalla Chiesa Ortodossa che, come il presidente, usa una serie di argomenti per portare avanti una retorica nazionalista e conservatrice.
Oggi, secondo i dati del Pew Research Center, il 70 per cento dei russi si dichiara cristiano-ortodosso, mentre nel 1991 era poco più del 30 per cento. Putin è noto per le sue opinioni apertamente omofobe e antifemministe. Sotto la sua presidenza è stata proposta una legge che vieta la diffusione ai bambini di informazioni sugli omosessuali. Sono state inoltre fatte proposte per depenalizzare la violenza domestica e per chiedere di escludere l’aborto dal sistema sanitario nazionale, rendendolo dunque un intervento a pagamento.
Putin continua a mantenere ancora oggi una certa distanza dalle posizioni religiose più radicali, anche se allo stesso tempo incoraggia questo tipo di attivismo e di estremismo, tanto che agli incontri dei movimenti antiabortisti russi si continua a ripetere che il presidente vada aiutato: «Noi siamo qui per lui».
Gli oligarchi
Uno dei pezzi più importanti dell’apparato di controllo messo in piedi da Putin ha a che fare con gli oligarchi. Una volta arrivato al potere, Putin cooptò gli oligarchi limitandosi a sostituire quelli che non gli erano fedeli, promettendo che non avrebbe intaccato il loro potere a condizione che cedessero il controllo dei mezzi di informazione acquisito dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Miskhail Kasyanov, primo ministro russo durante il primo mandato presidenziale di Putin, ha sintetizzato efficacemente al New York Times il funzionamento del rapporto tra gli oligarchi russi e Putin: «Lui ha dato e lui ha tolto. Loro dipendono da lui, e lui dipende da loro».
Questo sistema ha avuto conseguenze. Durante i primi otto anni di presidenza Putin, iniziati nel 2000, l’economia crebbe di un impressionante 7 per cento annuo, soprattutto grazie alle riforme economiche degli anni Novanta e all’aumento del prezzo del petrolio, una delle principali esportazioni del paese. La crisi del 2008 portò però a una grave battuta d’arresto: nel 2009 il PIL si contrasse del 10 per cento, e da allora le cose non sono più tornate come prima.
Parte del problema è il tipo di economia che la Russia moderna ha ereditato dall’epoca sovietica, basata su un’industria gigantesca e poco efficiente, chiusa e, appunto, oligarchica. Oggi in Russia tutti i settori strategici sono controllati direttamente dallo stato: il caso più emblematico è Gazprom, la grande azienda statale che si occupa dell’estrazione e vendita del gas, da cui provengono molti esponenti importanti della politica nazionale.
Nel biennio 2015-2016 la Russia fu colpita di nuovo dalla recessione, seguita da una stagnazione che dura ancora oggi. I motivi furono diversi: l’eccessiva centralizzazione e burocratizzazione; le sanzioni occidentali per le interferenze russe nella crisi in Ucraina, che hanno impedito alla Russia di usare le classiche soluzioni che vengono adottate quando crolla il valore della moneta nazionale, cioè più esportazioni, più consumi interni e più investimenti diretti esteri; la scarsa innovazione e la mancanza di investimenti privati locali; l’enorme corruzione; i pochi incentivi alle attività dei piccoli e medi imprenditori che potrebbero ridare dinamismo all’economia; e l’eccessiva dipendenza dall’export energetico e dunque dalle variazioni dei prezzi sul mercato globale delle materie prime. Come conseguenza della crisi economica, migliaia di attività hanno chiuso, e il tasso di povertà nel paese è aumentato arrivando al 15 per cento.
Negli ultimi anni la Russia ha realizzato una serie di investimenti all’estero e in particolare in Africa, in paesi politicamente instabili ma ricchi di risorse naturali. A gennaio ha investito 267 milioni di dollari nell’industria dei diamanti dello Zimbabwe e ha aiutato il governo della Repubblica Centrafricana in materia di sicurezza, espandendo la propria influenza a livello politico per ottenere vantaggi commerciali nell’estrazione di diamanti.
Mentre altri paesi si sono via via ritirati dall’Africa, la Russia ha spinto per ampliare e radicare la propria presenza. Diversi paesi a sud del Sahara hanno chiesto aiuto alla Russia in materia di sicurezza, come la Repubblica Democratica del Congo. In Guinea un ex ambasciatore russo che aveva sostenuto una riforma costituzionale per consentire al presidente di candidarsi per un terzo mandato è stato recentemente nominato a capo di una grande azienda di alluminio russa. «Stanno raccogliendo amici e alleati», ha detto qualche tempo fa al New York Times Judd Devermont, direttore dell’Africa Program presso il Center for Strategic and International Studies con sede a Washington: «E stanno trovando ambienti indulgenti per vendere le loro merci e ottenere opportunità commerciali».
La politica estera
La visione che Putin ha dell’Occidente è cambiata nel corso degli anni. Quando divenne presidente nel 2000, Putin non aveva una particolare ostilità nei confronti degli Stati Uniti: diceva che la Russia sarebbe anche potuta entrare nella NATO, per esempio. Nel 2004, quando Estonia, Lettonia e Lituania diventarono membri dell’alleanza – un evento che oggi molti russi ricordano come un’aggressione – Putin disse di non essere «preoccupato per l’espansione della NATO». In alcuni leader occidentali, come Bill Clinton e Tony Blair, trovò sostegno in nome della lotta al terrorismo islamico, e con altri strinse nuove alleanze (è famosa e longeva l’amicizia con l’ex premier italiano Silvio Berlusconi, artefice del patto “Pratica di Mare”, un impegno di collaborazione fra la NATO e la Russia).
Poi i rapporti peggiorarono. «Il punto di rottura con l’Occidente arrivò a causa di una serie di eventi apparentemente slegati l’uno dall’altro», ha scritto l’Economist. Nel 2004 l’attacco alla scuola di Beslan, nella repubblica semi-autonoma dell’Ossezia, convinse Putin a sospendere le elezioni locali e a nominare direttamente i governatori regionali. Le “rivoluzioni colorate” in Georgia e Ucraina lo spinsero ad accusare l’Occidente di indebite “interferenze” negli affari dei paesi vicini e di voler diffondere “ideali pericolosi”.
Nel corso degli ultimi quindici anni la Russia ha inviato forze militari a reprimere ribellioni in diverse aree del paese. Ha invaso la Georgia e l’Ucraina e ha inviato truppe in Siria. Ha usato la disinformazione e la propaganda per destabilizzare i suoi avversari, arrivando al punto di alterare le elezioni negli Stati Uniti. «Niente di tutto questo è particolarmente nuovo», ha scritto l’Economist: «Tentativi di sovversione, disinformazione e falsificazione erano il cuore dell’attività dell’intelligence sovietica», mentre le operazioni militari negli stati satelliti più riottosi erano la normalità per il regime comunista.
Anche in politica estera la Russia ha dimostrato insomma di voler tornare al periodo precedente alla caduta dell’Unione Sovietica: «Agli occhi dei russi, Putin ha restaurato lo status del paese al livello che aveva ai tempi dell’URSS». La sua postura aggressiva e il fatto che la Russia stia di fatto riempiendo i vuoti lasciati dagli Stati Uniti nel nordest della Siria, ma in generale in tutto il Medio Oriente, sarebbero un modo per rafforzare la propria influenza ma anche il consenso interno, facendo leva sulle insicurezze e l’orgoglio ferito della popolazione russa.
L’orgoglio ferito e la voglia di tornare a contare nel mondo sono stati due fattori che hanno condizionato molto l’ascesa di Putin. Dmitri Trenin, direttore del centro di ricerca Carnegie Moscow, ha detto: «La gente speculava su un mondo senza la Russia, e pensava che questo paese (…) avrebbe smesso di esistere. Quello era il contesto nazionale e internazionale al tempo in cui a Putin fu assegnato il posto di primo ministro e poi di presidente». In un momento di difficoltà, ha aggiunto Trenin, emerse «un giovane uomo che stava effettivamente facendo delle cose, che era molto pratico e che non aveva paura di assumersi la responsabilità. Nel giro di un paio di mesi dalla sua nomina a primo ministro, Putin era diventato la figura su cui vennero riposte le ultime speranze di tanti russi»
Nell’ultimo decennio, la Russia ha inoltre sostenuto e alcune volte finanziato movimenti populisti di destra, contribuendo alla loro sopravvivenza: è il caso del Front National, il partito francese di estrema destra guidato da Marine Le Pen, di Alba Dorata in Grecia, dell’Unione Nazionale Attacco in Bulgaria, di Jobbik in Ungheria, ma anche della Lega di Salvini in Italia.
I rapporti con gli Stati Uniti di Donald Trump sono un discorso a parte. Trump promise fin da subito di ripensare le relazioni con la Russia e di riconoscere Putin come fondamentale partner per gestire gli affari internazionali. Già prima del suo insediamento, disse più volte che non c’era alcuna ragione «per non andare d’accordo con la Russia», e Putin rispose di «essere pronto a cooperare con la nuova amministrazione americana». Poi arrivarono le prime indagini dell’FBI sulle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, che si trasformarono in un’inchiesta giudiziaria.
L’ordine e la stabilità prima di tutto
Secondo alcuni osservatori, nel corso degli anni Putin stipulò con i russi una sorta di nuovo contratto sociale: alla politica avrebbe pensato lui, ristabilendo controllo e potere, e in cambio avrebbe garantito il miglioramento degli standard di vita. Le cose però non andarono proprio così.
Bill Burns, ex ambasciatore statunitense a Mosca, ha detto: «Una decina di anni fa, quando i prezzi del petrolio erano alti, Putin avrebbe potuto iniziare a diversificare l’economia, a innovare un po’. Decise abbastanza consapevolmente di non farlo perché sarebbe andato a scapito di ciò che contava di più per lui: l’ordine politico e il controllo». Putin ha dunque lasciato l’economia russa sostanzialmente congelata nel tempo, fortemente dipendente dal petrolio, dal gas e da altre risorse naturali: «il fallimento più importante» di Putin, lo ha definito Trenin.
Michael Morell, che entrò a far parte della CIA non molto tempo dopo l’entrata di Putin nel KGB, ha detto di pensare che per il presidente russo la cosa più preziosa che un leader possa offrire al suo paese sia la stabilità. Putin non ha reso la Russia più ricca, o più libera, ma ha imposto la stabilità e l’ha mantenuta per due decenni attraverso un insieme di forza e abilità. Naturalmente in molti si chiedono che cosa succederà alla scadenza del suo mandato: comunque andrà, la transizione non sarà per niente semplice.