L’Arabia Saudita si sta dando una calmata
Non può contare più come prima sulla protezione degli Stati Uniti, racconta il New York Times, quindi non le è rimasto altro che ridurre la tensione con i suoi nemici
Negli ultimi tre mesi l’Arabia Saudita ha mostrato qualcosa di nuovo: dopo anni di politiche iper aggressive verso alcuni dei suoi vicini del Golfo Persico, come lo Yemen, l’Iran e il Qatar, ha cominciato a usare molto di più la diplomazia, per cercare di abbassare la tensione soprattutto con i suoi più acerrimi nemici.
Secondo i giornalisti del New York Times Declan Walsh e Ben Hubbard, questo cambio ha una precisa data di inizio: il 14 settembre 2019, giorno degli attacchi a due importanti stabilimenti petroliferi dell’Arabia Saudita, compiuti probabilmente dall’Iran, che hanno provocato enormi conseguenze all’industria del greggio nazionale. «Penso che guarderemo al 14 settembre come a un momento fondamentale nella storia del Golfo [Persico]», ha detto David Roberts, analista al King’s College di Londra. Da quel giorno, infatti, il regime saudita ha cominciato a fare sempre meno affidamento sugli Stati Uniti, suoi storici alleati nella regione ma diventati molto imprevedibili con l’arrivo alla presidenza di Donald Trump, puntando a creare rapporti meno tesi con tutti quei governi considerati “nemici”.
Ricorrere più alla diplomazia è stato un cambio notevole per l’Arabia Saudita, e in particolare per il principe ereditario Mohammed bin Salman, politico più potente e influente del paese.
Negli ultimi anni bin Salman aveva deciso di intervenire militarmente in Yemen per fermare l’avanzata dei ribelli houthi, appoggiati dall’Iran; aveva imposto insieme ad altri paesi arabi sunniti un durissimo embargo al Qatar, accusato di essere troppo vicino al movimento politico religioso dei Fratelli Musulmani e al regime iraniano; e aveva cercato di controbilanciare l’Iran dove possibile, inserendosi in diverse crisi nazionali o provocandole, come nel caso del “sequestro” del primo ministro libanese Saad Hariri, nel novembre 2017. In generale le politiche aggressive di bin Salman sono state viste come una delle cause dirette dell’instabilità della regione che si trova attorno al Golfo Persico, oltre a dimostrarsi per lo più inefficaci, viste la devastante crisi umanitaria e la resistenza degli houthi in Yemen, e la capacità del Qatar di usare i suoi legami internazionali per aggirare l’embargo.
Secondo diversi analisti citati dal New York Times, bin Salman si sarebbe convinto a cambiare atteggiamento, diciamo così, a causa soprattutto della debole reazione statunitense agli attacchi del 14 settembre contro i due stabilimenti petroliferi sauditi.
Nonostante Trump si fosse immediatamente schierato con bin Salman, la risposta statunitense era rimasta sul piano retorico, e poco altro. Trump aveva ordinato l’invio di altri militari in Arabia Saudita, una mossa «di natura difensiva», come l’aveva definita la stessa amministrazione americana, ma non aveva garantito l’appoggio ai sauditi per una eventuale ritorsione. Inoltre, già nei mesi precedenti, gli Stati Uniti si erano dimostrati molto divisi e indecisi sulle politiche da adottare nei confronti dell’Iran, il loro principale nemico nella regione: a giugno Trump aveva annullato un’operazione militare contro l’Iran che lui stesso aveva approvato poco prima, provocando confusione e incertezza negli alleati degli americani.
La mancata reazione americana agli attacchi è stata vista da molti come un colpo alla cosiddetta “dottrina Carter” risalente agli anni Ottanta, quando l’allora presidente statunitense Jimmy Carter promise di usare la forza per garantire la sicurezza dei trasferimenti di petrolio nel Golfo Persico, che sembrava in pericolo dopo la Rivoluzione khomeinista del 1979, che aveva trasformato l’Iran in una Repubblica islamica, e l’invasione sovietica dell’Afghanistan, iniziata lo stesso anno.
L’imprevedibilità di Trump in politica estera e le divisioni interne alla sua amministrazione sono state viste dai sauditi come ragioni per cominciare a fare sempre meno affidamento sugli Stati Uniti. Per la campagna elettorale di Trump potrebbe inoltre essere una scelta perdente quella di puntare troppo sull’alleanza con l’Arabia Saudita, visto che l’antipatia e l’insofferenza verso le pratiche autoritarie saudite sono cresciute molto dopo l’omicidio del dissidente Jamal Khashoggi, che viveva da molti anni negli Stati Uniti e scriveva per il Washington Post. «È difficile chiedere, anche a Trump, di difendere ogni volta l’Arabia Saudita durante una campagna», ha detto Emile Hokayem, analista esperta di Medio Oriente per l’International Institute for Strategic Studies: «Penso quindi che i sauditi siano abbastanza intelligenti da abbassare i toni, per una volta».
Negli ultimi tre mesi l’Arabia Saudita ha fatto alcune piccole cose che hanno mostrato il suo cambio di strategia.
In Yemen, entrambi gli schieramenti in guerra hanno rilasciato più di 100 prigionieri come gesto di buona volontà e lo scorso mese l’inviato dell’ONU nel paese, Martin Griffiths, ha detto che gli attacchi aerei compiuti dai sauditi erano diminuiti dell’80 per cento. Da allora, nessun civile yemenita è stato ucciso in un bombardamento saudita.
Anche i rapporti tra Arabia Saudita e Qatar sono leggermente migliorati, e si sono ridotti molto gli insulti e gli attacchi verbali online compiuti da account sauditi verso l’emiro e il regime del Qatar. A dicembre il governo saudita ha mandato alcune squadre nazionali di calcio a giocare in diversi tornei a Doha, la capitale qatariota, una cosa impensabile fino a qualche mese prima. Inoltre il ministro degli Esteri del Qatar ha accettato l’invito del re saudita, re Salman, a partecipare a un incontro diplomatico che si terrà in Arabia Saudita entro la fine dell’anno.
Un tema più delicato rimane quello dei rapporti tra sauditi e iraniani, che negli ultimi anni sono arrivati più volte vicino a un conflitto armato. Nonostante i risultati ancora molto scarsi, qualche tentativo per allentare un po’ la tensione tra i due paesi è stato fatto, grazie soprattutto alla mediazione di Pakistan e Iraq.
È ancora troppo presto per dire se ci saranno nuovi colloqui tra le parti e se porteranno effettivamente a una riduzione della tensione, anche per il ruolo degli Stati Uniti: il governo Trump potrebbe infatti chiedere all’Arabia Saudita di fermarsi, perché un miglioramento dei rapporti tra i due paesi, anche se minimo, potrebbe danneggiare la politica statunitense della «massima pressione» sull’Iran, adottata da Trump per isolare il governo iraniano e costringerlo a negoziare un nuovo accordo sul nucleare in termini più favorevoli per gli Stati Uniti.