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  • Sabato 28 dicembre 2019

Le elezioni più importanti del 2020

Oltre alle presidenziali statunitensi, s'intende: si voterà molto nei Balcani, ma anche in Israele (avete un déjà vu?) e a Hong Kong

(AP Photo/Manu Brabo)
(AP Photo/Manu Brabo)

Il 2020 non sarà un anno di grandi e importanti elezioni in Europa, dove si voterà molto solo nei Balcani. Nel resto del mondo però accadranno cose molto interessanti. Il 3 novembre si voterà negli Stati Uniti per eleggere il presidente, e diciamo che un favorito c’è già: Donald Trump. Altre elezioni molto interessanti si terranno a settembre per rinnovare il Consiglio legislativo di Hong Kong, il parlamento locale, dove si affronteranno diversi partiti ma soprattutto due schieramenti: quello a favore e quello contro il governo centrale cinese.

Il 2020 è anno di elezioni anche per due tra i paesi più influenti del Medio Oriente, tra loro acerrimi nemici: Israele e Iran. In Israele si voterà a marzo, per la terza volta in un anno, e potrebbe finire come le altre due volte: cioè che i due principali partiti – uno di destra e uno di centro – non riescano a trovare una maggioranza per governare. In Iran invece si rinnova il Parlamento e non è chiaro come finirà, anche per gli scossoni provocati dalle recenti proteste represse con violenza dalle forze di sicurezza: la cosa da tenere d’occhio sarà la competizione tra moderati e conservatori (tra il centrosinistra e la destra, all’incirca).

Iran, 21 febbraio

In Iran si vota il prossimo 21 febbraio per rinnovare i seggi del Majlis, il Parlamento: è difficile fare previsioni su come andranno le cose, sia per la situazione piuttosto caotica che sta attraversando l’Iran da qualche mese, sia per la poca trasparenza sul processo di selezione dei candidati adottato dal regime iraniano.

A novembre in Iran ci sono state enormi proteste contro il governo a causa dell’aumento del prezzo del carburante, seguite dalla più violenta repressione compiuta dalle forze di sicurezza del paese dai tempi della Rivoluzione khomeinista del 1979, quella che istituì la Repubblica Islamica. Le proteste e la repressione potrebbero avere un impatto rilevante anche sui risultati delle elezioni di febbraio, ma al momento è difficile capire chi ne uscirà più danneggiato: se gli ultraconservatori (la destra), che fanno riferimento alla Guida suprema Ali Khamenei, la principale figura politica e religiosa dell’Iran, o i moderati (il centrosinistra), che al momento fanno riferimento al presidente Hassan Rouhani, a capo della fazione più disposta a dialogare con l’Occidente.

Il risultato dell’uno e dell’altro fronte dipenderà anche da altri fattori: per esempio dalle divisioni interne ai due schieramenti – in particolare dalla posizione dei riformisti, la sinistra, che potrebbero prendere le distanze dai moderati dopo la repressione di novembre – e il tipo di selezione pre-elettorale dei candidati fatta dal Consiglio dei guardiani, organo molto legato agli ultraconservatori che già alle scorse elezioni, vinte dai moderati, aveva escluso diversi politici dalla liste elettorali.

Un soldato iraniano durante una manifestazione a favore del regime a Teheran (AP Photo/Ebrahim Noroozi, File)

Israele, 2 marzo

In Israele si torna a votare per il Parlamento anche nel 2020, per la terza volta nel giro di un anno: si era già votato ad aprile e a settembre, senza che i partiti si mettessero d’accordo per formare una maggioranza che appoggiasse un nuovo governo. Le due forze politiche favorite sono ancora una volta il Likud, partito di destra del primo ministro Benjamin Netanyahu, e Blu e Bianco, partito di centro guidato da Benny Gantz. Il governo uscente è quello di Netanyahu, che è primo ministro israeliano da più di dieci anni e di recente ha governato il paese con l’appoggio di una coalizione di destra nazionalista e religiosa.

La situazione in Israele non è complicata solo per l’incapacità dei partiti di trovare un accordo, ma anche dal particolare momento che sta attraversando Netanyahu, secondo alcuni il principale responsabile della crisi attuale: poco più di un mese fa, infatti, Netanyahu è stato formalmente incriminato per corruzione e truffa in tre casi diversi, un evento unico nella storia di Israele. Netanyahu ha comunque stravinto le primarie interne al suo partito che si sono tenute il 26 dicembre.

Come era già successo ad aprile e a settembre, il cosiddetto “ago della bilancia” potrebbe diventare Yisrael Beiteinu, partito di destra nazionalista ma laico guidato da Avigdor Lieberman, che nei mesi scorsi si era rifiutato di appoggiare un governo Netanyahu per via della presenza dei partiti della destra religiosa vicini alle comunità ultraortodosse, e un governo Gantz per via della vicinanza del leader di Blu e Bianco con i partiti che rappresentano gli arabi-israeliani. Ad ogni modo non è detto che le prossime elezioni producano una situazione migliore di quella attuale. I sondaggi più recenti dicono che Blu e Bianco potrebbe ottenere 37 seggi e Likud 33, rendendo comunque necessaria la formazione di qualche tipo di coalizione.

Il leader del partito Blu e Bianco, Benny Gantz, a Tel Aviv, il 20 novembre 2019 (Amir Levy/Getty Images)

Serbia, aprile 2020

In Serbia le elezioni parlamentari si terranno ad aprile, ma il presidente Aleksandar Vučić – che fa parte del partito di maggioranza, il Partito Progressista, di centrodestra – non ha escluso del tutto la possibilità di un voto anticipato.

Alle ultime elezioni, tenute nel 2016, il partito di Vučić aveva ottenuto il 48 per cento dei voti, pari a 131 seggi su 250 totali, più di cento in più della forza politica arrivata seconda, la coalizione guidata dal Partito Socialista, populista di centrosinistra. Dopo essere diventato primo ministro, nel 2017 Vučić era stato eletto presidente e aveva lasciato il suo incarico a Ana Brnabić, prima donna e prima donna lesbica a guidare il governo in Serbia.

Nell’ultimo anno la politica serba è stata segnata dalle manifestazioni organizzate dalle opposizioni a Belgrado e in altre città serbe, e iniziate dopo il pestaggio di un politico di sinistra, Borko Stefanović, compiuto da alcuni uomini con il volto coperto. Migliaia di persone hanno cominciato a chiedere le dimissioni del presidente, accusandolo di avere imposto in Serbia un regime autoritario e di avere ristretto ancora di più la libertà di stampa. Simili accuse sono state rivolte alla Serbia dalla Commissione Europea (PDF), e diversi partiti di opposizione hanno annunciato di boicottare le elezioni nel caso in cui saranno riscontrate irregolarità di qualche tipo.

La prima ministra serba Ana Brnabic (Bernd von Jutrczenka/picture-alliance/dpa/AP Images)

Etiopia, maggio

L’Etiopia è il paese dell’ultimo vincitore del Premio Nobel per la Pace, il primo ministro Abiy Ahmed, probabilmente il leader politico africano più sorprendente degli ultimi anni. Dopo avere avviato una serie di importanti riforme, avere tentato un complicato processo di riconciliazione nazionale e avere messo le basi per una storica pace con l’Eritrea, Abiy cercherà di estendere il suo mandato per altri cinque anni alle elezioni parlamentari fissate per maggio. Ma non sarà facile.

Quelle di maggio saranno le prime elezioni democratiche e competitive in Etiopia dal 2005, quando l’opposizione ottenne per l’ultima volta un buon risultato. Negli ultimi quindici anni la forza di governo, il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (più conosciuto con la sigla EPRDF), coalizione di quattro partiti etnici, è riuscito a consolidare il suo potere, usando anche metodi autoritari. Nell’ultimo anno e mezzo, in particolare grazie alla legalizzazione di diversi gruppi di opposizione a lungo classificati come “terroristici”, le cose sono un po’ cambiate, anche se l’Etiopia non è ancora riuscita a trovare una soluzione alle tensioni etniche che sono alla base di molti suoi problemi.

France 24 ha scritto che il risultato delle elezioni «potrebbe stabilire se la transizione in Etiopia dall’autoritarismo alla democrazia, avviata da Abiy ormai un anno e mezzo fa, si realizzerà o fallirà».

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed insieme alla moglie, Zinash Tayachew, a Oslo il 10 dicembre 2019 (Terje Pedersen, NTB scanpix)

Hong Kong, settembre 2020

Quelle per rinnovare i 70 membri del Consiglio legislativo di Hong Kong, cioè il parlamento unicamerale locale, saranno forse le elezioni più importanti della storia di questa regione amministrativa speciale cinese, che sta attraversando una gravissima crisi dal giugno scorso. La competizione, oltre che tra singoli partiti, sarà soprattutto tra due schieramenti: quello filo-cinese, che vorrebbe continuare a mantenere Hong Kong sotto lo stretto controllo politico del governo di Pechino, e quello filo-democrazia, che vorrebbe fare il contrario.

La crisi a Hong Kong è iniziata a giugno, quando centinaia di migliaia di persone hanno cominciato a protestare contro una legge che prevedeva procedure più semplici di estradizione da Hong Kong alla Cina, e che secondo i suoi critici avrebbe permesso al governo cinese di punire più duramente i dissidenti. Nonostante la successiva decisione del governo locale di ritirare la proposta, le proteste sono continuate, dirette contro le eccessive ingerenze cinesi negli affari locali, la violenta repressione della polizia, e contro il Capo dell’esecutivo Carrie Lam. È difficile dire cosa succederà nei prossimi mesi, se la Cina deciderà di intervenire ancora più duramente o se farà qualche concessione.

Le elezioni – sempre che si terranno, e non è detto – non saranno comunque libere e democratiche, anche solo per il meccanismo previsto per il rinnovo del Consiglio: dei 70 membri, infatti, solo 35 vengono eletti direttamente, con un sistema proporzionale, mentre per gli altri 35 è prevista un’elezione indiretta attraverso collegi professionali e sulla base di elettorati limitati.

Una protesta antigovernativa a Hong Kong il 18 novembre 2019 (AP Photo/Vincent Yu)

Stati Uniti, 3 novembre

Negli Stati Uniti si voterà il 3 novembre – un martedì, come sempre – per eleggere il presidente. Quattro anni dopo quelle che furono probabilmente le più sorprendenti elezioni della storia contemporanea, gli osservatori a questo giro sono molto più cauti nel fare previsioni, che sarebbero comunque avventate prima di sapere chi sarà lo sfidante Democratico del presidente uscente Donald Trump.

Le primarie Democratiche inizieranno il 3 febbraio in Iowa, e a oggi sembra chiaro che si giocheranno la nomination Joe Biden, Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Pete Buttigieg. Da mesi si discute su chi di loro possa avere più possibilità di battere Trump, che nonostante gli scandali e il procedimento di impeachment continua ad avere un tasso di popolarità stabilmente superiore al 40 per cento, principalmente perché l’economia statunitense è in crescita e perché i Repubblicani lo apprezzano moltissimo (tra di loro al momento Trump ha un tasso di popolarità intorno al 90 per cento).

Alle elezioni di metà mandato del 2018 avevano vinto i Democratici, come è tutto sommato normale negli Stati Uniti per il partito di opposizione: molto più raro è invece che un presidente uscente che si sia ricandidato non sia stato eletto. Negli ultimi 100 anni successe soltanto a George Bush padre, Jimmy Carter ed Herbert Hoover. A questo giro, fra l’altro, il comitato elettorale che sta lavorando alla rielezione di Trump è meglio organizzato e finanziato rispetto a quattro anni fa.

Il presidente statunitense Donald Trump a Watford, Inghilterra, 4 dicembre 2019 (AP Photo/Francisco Seco)

Egitto, novembre

A novembre in Egitto si terranno le prime elezioni parlamentari dall’introduzione delle modifiche alla Costituzione approvate definitivamente con un referendum lo scorso aprile. Tra le altre cose, le modifiche hanno ripristinato il Senato, abolito nel 2014, con l’obiettivo di permettere al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi di aumentare il suo controllo sul potere legislativo (il Senato sarà per metà eletto e per metà nominato dal presidente).

In Egitto le elezioni non si possono considerare libere e democratiche. Negli ultimi anni l’ex generale e oggi presidente al Sisi si è attribuito moltissimi poteri, facendo una specie di controrivoluzione che ha restaurato un regime autoritario simile a quello guidato da Hosni Mubarak e rovesciato durante le “primavere arabe”, movimenti di protesta che nel 2011 portarono alla fine di diversi regimi autoritari in Nord Africa e Medio Oriente.

Tra le altre cose, il regime di al Sisi ha messo fuori legge i Fratelli Musulmani, movimento politico religioso a cui apparteneva anche Mohamed Morsi, ex presidente deposto dal colpo di stato dell’esercito egiziano del luglio 2013, poi arrestato e morto in tribunale a giugno. Negli ultimi mesi sono stati arrestati diversi esponenti della Coalizione della speranza, una nuova formazione politica che raggruppa alcuni partiti di opposizione: il regime li ha accusati di avere legami con i Fratelli Musulmani, circostanza però negata da loro, che hanno sostenuto che avvicinarsi troppo al movimento potrebbe danneggiarli in maniera rilevante alle prossime elezioni.

Una donna dopo avere votato al Cairo per le elezioni presidenziali, il 28 marzo 2018 (Salah Malkawi/ Getty Images)

Nuova Zelanda, entro il 21 novembre

La politica neozelandese non è proprio la più turbolenta e frizzante del mondo: scandali, crisi di governo e grossi cambiamenti nello scenario politico nazionale non sono decisamente all’ordine del giorno. A settembre però la prima ministra Jacinda Ardern è stata coinvolta in uno scandalo che ha riguardato un membro del suo partito, accusato di violenze sessuali: Ardern ha sostenuto di non sapere nulla della faccenda, almeno fino a che non ne hanno parlato i giornali, ma molti non le hanno creduto. È difficile però che un episodio del genere, per lo più a parecchi mesi dalle prossime elezioni, possa condizionare il risultato del voto.

In Nuova Zelanda l’ultima data ultima per rinnovare i 120 seggi del Parlamento unicamerale, eletto il 23 settembre 2017, è il 21 novembre del prossimo anno.

A giocarsela saranno di nuovo i due principali partiti del paese: il Partito Nazionale, conservatore e liberale, guidato dal 43enne Simon Bridges, e il Partito Laburista, di centrosinistra e guidato dalla prima ministra Jacinda Ardern. Nonostante l’attuale governo sia a guida Laburista, alle ultime elezioni la forza che aveva ottenuto più seggi era stata il Partito Nazionale, che però non era riuscito a mettere insieme una maggioranza per governare. Insieme alle elezioni si terranno anche due referendum: uno confermativo sulla legalizzazione dell’eutanasia, misura che il Parlamento neozelandese ha approvato a novembre; l’altro non vincolante sull’uso personale di cannabis.

La prima ministra neozelandese Jacinda Ardern a Whanganui, 30 novembre 2019 (William Booth/Getty Images)

Sri Lanka, entro l’1 dicembre

In Sri Lanka a novembre si sono tenute le elezioni presidenziali, che sono state una competizione tra i due principali partiti del paese, gli stessi che si affronteranno anche alle parlamentari del prossimo 1 dicembre: il Fronte Nazionale Unito, che sarà guidato dall’ex primo ministro Ranil Wickremesinghe, e l’Alleanza della Libertà del Popolo Unito, guidata da Mahinda Rajapaksa, il presidente autoritario che governò il paese tra il 2005 e il 2015 e fratello di Gotabaya Rajapaksa, presidente eletto a novembre.

I due partiti hanno visioni piuttosto diverse dello Sri Lanka. Il Fronte Nazionale Unito, che ha guidato l’ultimo governo prima della sconfitta di novembre, aveva iniziato un’opera riformatrice e di riconciliazione nazionale, anche per il fatto che tra i suoi sostenitori ci sono moltissimi membri della minoranza Tamil, oltre a musulmani e induisti a lungo perseguitati dalla maggioranza singalese di religione buddista. Il partito della famiglia Rajapaksa, invece, tutela espressamente gli interessi della comunità singalese con frequenti riferimenti al nazionalismo e alla necessità di maggiore sicurezza, un argomento particolarmente sentito nel paese dopo gli attentati dell’aprile 2019, in cui un gruppo di estremisti islamisti aveva ucciso 259 persone.

Una protesta di monaci buddisti radicali a Colombo, 19 novembre 2018 (Paula Bronstein/Getty Images)

Croazia, entro il 23 dicembre

Le elezioni parlamentari croate saranno le decime dal 1990, anno dell’introduzione del sistema elettorale multipartitico, e seguiranno di un anno le elezioni presidenziali che si sono tenute il 22 dicembre, in cui l’ex primo ministro socialdemocratico Zoran Milanović è arrivato al primo posto superando la presidente uscente, la conservatrice Kolinda Grabar-Kitarović. Il ballottaggio tra Milanović e Grabar-Kitarović sarà il prossimo 5 gennaio.

L’attuale partito al governo è guidato dall’Unione Democratica (HDZ, la sigla in croato), partito europeista e di centrodestra che alle ultime elezioni parlamentari, tenute nel settembre 2016, era stato la prima forza politica del paese superando di pochi punti percentuali il Partito Socialdemocratico, europeista e di centrosinistra, che era finito così all’opposizione. L’attuale governo, guidato dal primo ministro Andrej Plenković, ha attraversato una crisi nell’aprile 2017, quando il partito Ponte delle Liste Indipendenti, conservatore e fino a quel momento parte della coalizione di maggioranza, aveva deciso di lasciare il governo per una decisione controversa del ministro delle Finanze e relativa a diverse irregolarità compiute da una delle più grandi aziende croate, Agrokor. HDZ era poi sopravvissuto a una mozione di sfiducia e aveva formato una nuova maggioranza con alcuni parlamentari di altri partiti.

A meno di grandi stravolgimenti nella politica croata, anche le elezioni parlamentari del prossimo dicembre saranno soprattutto una competizione tra HDZ e Socialdemocratici, che gli ultimi sondaggi danno rispettivamente al 27 e al 25 per cento.

Da sinistra a destra: Donald Tusk, il primo ministro croato Andrej Plenković e il primo ministro estone Juri Ratas a Bruxelles (Thierry Monasse/Getty Images)

Si vota? Non si vota? E se si vota, quando?

Ci sono alcuni paesi le cui elezioni, per una ragione o per l’altra, sembrano in bilico o non ancora del tutto definite, oppure dovevano tenersi e non si tengono più.

In Venezuela, per esempio, si dovrebbe rinnovare l’Assemblea Nazionale entro la fine del 2020: l’Assemblea Nazionale è l’ultimo organo democraticamente eletto nel paese, oggi controllato dalle opposizioni ma di fatto svuotato di molti suoi poteri dal presidente Nicolás Maduro. Non è detto comunque che si tengano elezioni, senza contare che le opposizioni potrebbero boicottare in massa il voto, che non sarà né libero né democratico.

Anche in Bolivia si dovrebbe votare nel 2020 per eleggere il nuovo presidente, dopo le dimissioni forzate (o colpo di stato?) dell’ex presidente Evo Morales, ora in Argentina. Jeanine Áñez, presidente ad interim grazie a un voto senza il numero legale in Senato, ha promesso che le elezioni si terranno il prossimo anno, ma non ha dato una data precisa: prima di indire nuove elezioni serve infatti che vengano annullate le precedenti vinte da Morales, e contestate dalle opposizioni, e che venga formato un nuovo comitato che vigili sul regolare svolgimento delle operazioni.

Non si dovrebbe invece votare in Sudan, altro paese che ha avuto un 2019 molto agitato. Dopo la fine del regime di Omar al Bashir, civili e militari avevano iniziato a negoziare su un piano che avrebbe dovuto affidare il potere ai civili e portare a nuove elezioni. Inizialmente la distanza tra le parti aveva portato i militari ad annunciare elezioni prima della fine del periodo di transizione, ma ad agosto è stato firmato un accordo che prevede tre anni di transizione ed elezioni nel 2022.

Un sostenitore dell’ex presidente boliviano Evo Morales a La Paz, Bolivia, 15 novembre 2019 (AP Photo/Natacha Pisarenko)