La guerra in Libia sta diventando una guerra di altri
I due schieramenti ricorrono sempre più ad armi e mercenari stranieri, anche per l'incapacità dell'Europa – e dell'Italia – di trovare una soluzione
La guerra in Libia, che si combatte ininterrottamente dal 2014 ma da qualche mese attraversa la sua fase più violenta, sta diventando sempre più una guerra di altri. I due schieramenti libici, infatti, hanno iniziato a fare ricorso massiccio della forza militare di paesi terzi, in particolare Turchia e Russia, vista l’incapacità di Europa, Stati Uniti e organizzazioni internazionali di trovare una soluzione. Nelle ultime settimane diversi governi stranieri si sono detti preoccupati per l’escalation di violenze a Tripoli, la capitale libica, ma finora nessuno è riuscito a facilitare per lo meno un cessate il fuoco: nemmeno l’Italia, la cui azione in Libia – tradizionalmente piuttosto efficace – ha perso incisività in particolare con i governi guidati da Giuseppe Conte.
La fase più violenta dell’ultima guerra civile libica è iniziata lo scorso aprile, quando le milizie fedeli al maresciallo Khalifa Haftar, che controlla l’est e un pezzo di sud del paese, hanno attaccato all’improvviso Tripoli, città sede del governo di accordo nazionale appoggiato dall’ONU e guidato dal primo ministro Fayez al Serraj. L’obiettivo di Haftar era conquistare rapidamente la capitale, prendendo di fatto il controllo di tutta la Libia: le cose però sono andate diversamente e la resistenza a Tripoli, guidata da una serie di milizie legate a Serraj, è riuscita a bloccare l’avanzata delle forze del maresciallo.
Da tempo la guerra in Libia è complicata dalla presenza di paesi terzi, che per un motivo o per l’altro sono interessati a esercitare una certa influenza nel paese, e a ridurre quella dei propri avversari. Negli ultimi mesi l’intervento di forze esterne è diventato ancora più massiccio e ha provocato un aumento delle violenze e dei morti, soprattutto a Tripoli. Dalla parte di Haftar sono schierati Egitto, Emirati Arabi Uniti, Russia e Francia. In particolare è il sempre maggiore interesse russo per la Libia a preoccupare Stati Uniti ed Europa.
Funzionari governativi occidentali, ha scritto Bloomberg, sostengono che da settembre a oggi siano arrivati in Libia più di mille mercenari del Gruppo Wagner, società di sicurezza russa che opera anche in Siria e in Ucraina e che è sospettata di essere legata al governo di Vladimir Putin. Secondo miliziani libici e funzionari europei sentiti il mese scorso dal New York Times, la presenza dei mercenari sarebbe confermata anche da un tipo particolare di ferita riportata sui corpi dei miliziani che stanno combattendo a sud di Tripoli: piccoli fori di entrata di proiettile sulla testa o sul torso, che uccidono immediatamente e che non hanno corrispondenti fori di uscita. La mancanza di fori d’uscita sarebbe una specie di “firma” delle munizioni usate dai mercenari russi.
Nelle ultime settimane anche il governo di Serraj ha cominciato a fare più affidamento su forze esterne, concludendo un accordo di cooperazione con la Turchia molto criticato dai paesi europei.
A metà dicembre Serraj ha infatti annunciato di avere deciso di “attivare” un memorandum di intenti firmato con la Turchia a novembre, sulla cooperazione militare e di sicurezza. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha inoltre ripetuto di essere disposto a assistere militarmente Tripoli, se Serraj lo chiedesse: Erdoğan non ha specificato se abbia intenzione di mandare direttamente soldati per combattere a fianco delle milizie di Serraj, ma il quotidiano turco Hurriyet, citando un diplomatico rimasto anonimo, ha scritto che la cosa più probabile è che la Turchia si limiti a mandare consiglieri militari e soldati con compiti di addestramento delle forze locali.
Secondo alcuni analisti citati dal Financial Times, le ultime mosse dei due governi hanno di fatto formalizzato un accordo già esistente ma rimasto finora per lo più segreto, e che potrebbe provocare in particolare una reazione dell’Egitto: i rapporti tra Turchia ed Egitto, infatti, sono molto tesi dal 2013, cioè da quando il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi destituì con un colpo di stato l’allora presidente Mohamed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, gruppo considerato terroristico dal regime del Cairo. Da allora diversi membri dei Fratelli Musulmani si sono rifugiati in Turchia ed Erdoğan ha spesso usato parole piuttosto dure per criticare la dura repressione compiuta dal regime di al Sisi contro gli islamisti in Egitto.
L’accordo di cooperazione tra il governo libico di Serraj e la Turchia è stato molto criticato da diversi paesi europei, che hanno sostenuto che sia una violazione dell’embargo ONU sulla vendita delle armi alla Libia. Molti temono inoltre che possa provocare una reazione ancora più violenta da parte di Haftar, che la scorsa settimana aveva attaccato Misurata, città sede delle forze italiane in Libia e le cui milizie sono impegnate a Tripoli per difendere Serraj. Haftar aveva minacciato l’inizio di pesanti bombardamenti a Misurata, se queste milizie non avessero lasciato Tripoli e Sirte, città libica conosciuta per avere avuto negli ultimi anni una forte presenza dell’ISIS.
Tra i governi che stanno seguendo con più attenzione gli sviluppi libici c’è quello italiano, che in Libia ha diversi interessi, strategici ed economici.
Da un po’ di tempo il governo italiano, da sempre sostenitore di Serraj, ha cominciato a prendere posizioni sempre più ambigue. Nonostante continui ad appoggiare formalmente il governo di Tripoli, l’Italia sembra essersi un po’ appiattita sulle posizioni degli altri paesi europei, e in particolare della Francia, cercando di adottare toni molto più concilianti e favorevoli nei confronti di Haftar. Questo atteggiamento si è visto per esempio due settimane fa durante la visita in Libia del ministro degli Esteri italiano, Luigi di Maio, che ha incontrato sia Serraj che Haftar.
L’obiettivo della missione di Di Maio era “tornare a contare” in Libia, dopo un periodo in cui l’Italia era stata messa un po’ da parte soprattutto da Russia, Francia e Turchia.
Di Maio ha puntato molto sulla diplomazia: ha detto che manderà in Libia un inviato speciale incaricato di mediare la transizione politica nel paese – transizione di cui ora però non si vede l’inizio – e ha insistito sull’importanza della Conferenza di pace che dovrebbe tenersi a gennaio a Berlino, che però al momento è in alto mare e verso cui ci sono aspettative bassissime. Allo stesso tempo, Di Maio ha annunciato una decisione che potrebbe complicare la situazione, di fatto legittimando le forze di Haftar e la loro aggressione nei confronti di Tripoli: cioè l’apertura di un consolato italiano a Bengasi, città sotto l’influenza delle forze del maresciallo.
Il governo di Serraj ha annunciato l’attivazione del memorandum con la Turchia proprio pochi giorni dopo la visita di Di Maio, segno che le garanzie presentate dall’Italia non erano state considerate sufficienti dal primo ministro libico. Di fronte alle critiche italiane per l’accordo tra Serraj e Turchia, in un’intervista data al Corriere della Sera Serraj ha detto: «Cosa vi aspettate voi italiani? Che noi a Tripoli stiamo passivi a guardare mentre l’aggressore distrugge la nostra capitale, uccide civili, bombarda le nostre case?».
Molti osservatori pensano che l’Italia continui ad avere buoni margini di manovra in Libia, considerata anche la forte presenza nel paese della diplomazia e dei servizi segreti italiani. Il problema, ha detto un diplomatico italiano al Foglio, è l’utilizzo politico di questo piccolo vantaggio competitivo: «L’Italia è la nazione europea che conosce meglio la situazione sul terreno e ha canali aperti con tutte le tribù. Abbiamo un vantaggio che però viene spesso vanificato dalla mancanza di strategia politica: sapere con chi parlare non si traduce necessariamente in influenza».