La morte del “Genio dei Carpazi”
La storia dell'eccentrico e crudele dittatore della Romania comunista, Nicolae Ceauşescu, amico dell'Occidente e ucciso dopo un processo sommario 30 anni fa
di Davide Maria De Luca
Esattamente 30 anni fa, il giorno di Natale del 1989, il dittatore rumeno Nicolae Ceauşescu morì in modo rapido e brutale. Appena poche settimane prima Ceauşescu era stato rieletto leader del Partito Comunista Rumeno, e il suo discorso fiume al congresso di partito era stato interrotto da 67 standing ovation. Il 22 dicembre, però, una rivolta popolare nella capitale Bucarest lo costrinse a fuggire in elicottero. Arrestato nelle campagne fuori dalla capitale, dopo un breve processo durato appena un’ora, fu fucilato insieme a sua moglie Elena Petrescu.
Finirono così i 30 anni di governo di un dittatore megalomane sul paese più povero e arretrato del blocco sovietico. Ceauşescu, che amava farsi chiamare il “Genio dei Carpazi”, è stato spesso paragonato alla dinastia dei Kim della Corea del Nord per il suo estremo culto della personalità, il suo nepotismo e l’esteso apparato di sicurezza senza scrupoli che per decenni ne assicurò il dominio sulla Romania. Nonostante questo, la sua politica estera spregiudicata e spesso sganciata da quella dell’Unione Sovietica gli procurarono ammirazione e onori in tutto l’Occidente, che lo considerò a lungo uno dei pochi “comunisti buoni”.
Ceauşescu era nato nel 1918 in una famiglia di poveri contadini provenienti dal Sud del paese. A 11 anni era scappato di casa per sfuggire a suo padre ed era finito a vivere con la sorella nella capitale Bucarest, guadagnandosi da vivere come apprendista nell’officina di un calzolaio iscritto all’allora illegale Partito Comunista Rumeno.
Ceauşescu divenne un attivista e presto la polizia segreta ebbe un voluminoso dossier in cui il giovane veniva descritto come un “pericoloso agitatore”. Per anni fece dentro e fuori dalla prigione e durante la guerra finì in un campo di lavoro per detenuti comunisti. Fu lì che iniziò la sua ascesa. Per un caso finì in cella con Gheorghe Gheorghiu-Dej, futuro leader del partito e primo capo della Romania comunista. Nel campo Gheorghiu-Dej esercitava una ferrea disciplina sui membri del partito, obbligandoli a periodiche sessioni di “autocritica”, in cui i militanti dovevano dichiarare di fronte ai loro compagni riuniti i propri errori nell’interpretazione della dottrina comunista. In questi processi Ceauşescu fungeva spesso da “boia”, incaricato di picchiare chi non voleva partecipare o chi non sembrava abbastanza sincero nella sua autocritica.
Alla fine della guerra l’esercito sovietico instaurò nel paese un regime comunista e Gheorghiu-Dej chiamò al suo fianco il giovane compagno di cella.
Il posto assegnato alla Romania nel blocco sovietico era particolarmente umile: produttore di materie prime agricole e minerarie. I leader russi disprezzavano i comunisti rumeni e li consideravano un gruppo piccolo e inefficace che senza l’arrivo dei carriarmati a sostenerlo non sarebbe mai arrivato al potere. I leader rumeni sapevano che in questi pregiudizi c’era un fondo di verità: in Romania il comunismo non aveva né solide basi né una lunga tradizione, a differenza, per esempio, di paesi come l’Ungheria o la Polonia.
In Romania non esistevano classi operaie o intellettuali che potessero costituire la base di consenso di un regime comunista, mentre i suoi leader non avevano l’aura di prestigio di quei partiti, come quello yugoslavo, che erano arrivati al potere dopo la vittoria di una guerra partigiana.
– Leggi anche: La storia della repubblica sovietica di Ungheria, che nacque 100 anni fa
Per consolidare il loro potere, prima Gheorghiu-Dej e poi Ceauşescu, puntarono quindi sui temi che tradizionalmente avevano sostenuto l’autoritarismo balcanico in passato: il nazionalismo e quello che in Europa è stato a lungo il suo automatico corollario, l’antisemitismo.
Quando nel 1965 Ceauşescu successe a Gheorghiu-Dej, ereditò un partito disciplinato e addomesticato dalle continue purghe, che avevano spesso preso di mira membri del partito accusati di “sionismo”, e un apparato di sicurezza che rivaleggiava in capillarità con quello del regime stalinista. La Romania rimase così immune dal processo di de-stalinizzazione e parziale apertura che caratterizzò il blocco sovietico a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e rimase fino alla fine un regime estremamente oppressivo e brutale.
L’altra caratteristica unica del regime rumeno fu la sua costante critica e presa di distanza dall’Unione Sovietica. Gheorghiu-Dej e Ceauşescu avevano imparato che per evitare un’invasione sovietica era sufficiente non mettere in discussione il sistema a partito unico (cosa che, in ogni caso, non avevano intenzione di fare), ma per il resto l’Unione Sovietica lasciava loro una certa libertà.
– Leggi anche: Il Patto di Varsavia, 60 anni fa
Nel 1967, per esempio, Ceauşescu riconobbe la Germania Ovest alleata dell’Occidente, violando il divieto imposto agli alleati dall’Unione Sovietica. Nel 1968 fu l’unico leader del blocco ad opporsi all’invasione della Cecoslovacchia, dove era scoppiata la cosiddetta “Primavera di Praga” (abbiamo ricordato qui la storia dell’invasione), mentre nel 1984 la Romania fu l’unico paese dell’est Europa a inviare una squadra di atleti alle Olimpiadi di Los Angeles, boicottate dall’Unione Sovietica.
Questi atteggiamenti portarono a Ceauşescu vasti apprezzamenti in Occidente. Nel 1966 l’Economist lo definì «il De Gaulle dell’Europa dell’Est» e poco dopo lo stesso presidente francese De Gaulle disse – durante la sua visita nel paese – che, tutto sommato, il comunismo era un regime che ben si adattava a un paese come la Romania. Nel 1969 divenne il primo paese comunista a ricevere la visita di un presidente statunitense, quando accolse Richard Nixon a Bucarest.
Negli anni successivi la Romania fu accolta nel GATT (divenuto oggi l’Organizzazione Internazionale del Commercio), nella Banca Mondiale e persino nel Fondo Monetario Internazionale.
Nel 1977 Ceauşescu, che aveva appena represso duramente gli scioperi dei minatori nella valle di Jiu, fu invitato dal presidente americano Jimmy Carter a visitare gli Stati Uniti, mentre nel 1983 il vicepresidente americano George H.W. Bush lo definì «uno dei comunisti buoni d’Europa». Nel corso degli anni Ceauşescu ricevette numerose decorazioni internazionali: la Legion d’Onore francese e l’Ordine del Bagno della Corona Britannica, mentre sua moglie, Elena Petrescu, che era anche vice-segretario del partito e un’appassionata dilettante di scienze anche se aveva solo la licenza elementare, fu nominata professoressa onoraria al Politecnico di Londra (e ricevette un’onorificenza anche in Italia).
Queste buone relazioni avevano essenzialmente lo scopo di risparmiare alla Romania le feroci critiche internazionali riservate all’Unione Sovietica e agli altri paesi del blocco orientale (gli intellettuali dissidenti rumeni non ebbero mai la solidarietà internazionale riservata a russi, cechi, polacchi e ungheresi), ma avevano anche un risvolto pratico, poiché aprivano al paese le porte degli scambi commerciali con la nascente Comunità Europea e con gli Stati Uniti. Mentre gli altri paesi del blocco sovietico si indebitavano per acquistare merci occidentali di qualità con le quali cercare di mantenere soddisfatta la loro popolazione urbana, però, Ceauşescu fece l’esatto opposto.
Beni di lusso, elettricità, carburante, carne, zucchero vennero razionati per accumulare scorte da esportare. Gli standard di vita dei rumeni vennero sistematicamente ridotti per ottenere un surplus commerciale.
La Romania era già uno dei paesi più poveri dell’Europa dell’est, ma queste misure la fecero arretrare ancora di più. Carri e cavalli divennero il principale mezzo di trasporto anche nelle città, mentre nei campi si tornò a usare la falce e l’aratro trainato dai buoi. Ceauşescu sognava di radere al suolo 13 mila villaggi, la metà del totale della Romania, e di trasferirne la popolazione in circa 500 città agricole dove i contadini sarebbero stati concentrati e più facili da controllare. Questo piano, di una scala e vastità mai nemmeno sognata da altri regimi sovietici, se portato a termine avrebbe probabilmente causato milioni di morti.
Il denaro ottenuto dalle esportazioni serviva a Ceauşescu per ripagare il debito estero del paese, cosa che contribuiva a mantenere buone relazioni diplomatiche, a silenziare le critiche internazionali e a finanziare i suoi sogni megalomani. Negli anni Ottanta, per esempio, venne terminata la costruzione della sua nuova residenza privata: il Palazzo del Popolo rumeno, all’epoca il secondo più grande edificio al mondo dopo il Pentagono americano.
Nel frattempo nel paese si diffondeva il suo culto della personalità. Ovunque erano appesi i suoi ritratti e quelli di sua moglie. Il 26 gennaio, il giorno del suo compleanno, era la più importante festa nazionale. Alle scuole elementari i bambini imparavano canzoni e poesie a lui dedicate. A un certo punto Ceauşescu organizzò persino una cerimonia per farsi consegnare uno “scettro presidenziale”. La lista dei soprannomi ufficialmente autorizzati per definirlo includeva: l’Architetto, il Genio dei Carpazi, il Timoniere, l’Uomo più alto, il Visionario e il Titano.
Nel frattempo, però, il popolo rumeno rimaneva tra i più poveri, affamati e oppressi di tutta l’Europa, sottoposto ai capricci irrazionali di un leader che sembrava avere sempre meno presa sulla realtà. A causa della sua ossessione nazionalista per far aumentare la popolazione, per esempio, Ceauşescu proibì l’aborto alle donne con meno di 4 figli e impose controlli medici periodici per assicurarsi che le donne rispettassero la disposizione. In Romania era impossibile procurarsi preservativi, così l’aborto illegale divenne l’unico strumento di contraccezione. Si calcola che circa 10 mila donne morirono nei 23 anni in cui il divieto di aborto rimase in vigore. Alla fine del suo regime oltre 100 mila bambini vivevano negli orfanotrofi di stato, dove erano sottoposti a ogni sorta di abusi e privazioni.
Nella seconda metà degli anni Ottanta la situazione stava rapidamente sfuggendo al suo controllo.
La corruzione del regime era oramai diventata innegabile anche in Occidente, così come la terribile situazione in cui versava il popolo rumeno. Le relazioni con l’Unione Sovietica, ora guidata dal leader riformista Mikhail Gorbaciov, erano al minimo storico (Gorbaciov chiamava Ceauşescu “il fuhrer rumeno”). Quando arrivò il momento, il crollo del regime fu rapido e totale. Tutto iniziò a causa della famigerata polizia segreta, la Securitate, che nel dicembre del 1989 imprigionò un popolare pastore della minoranza ungherese. Il clima nel paese in quei giorni era già surriscaldato a causa delle notizie che arrivavano dai paesi vicini: il crollo del muro di Berlino (qui trovate le storie più incredibili di quei giorni) e i tumulti negli altri paesi del blocco.
I primi a manifestare furono i membri della minoranza ungherese, seguiti poi da altre migliaia di rumeni. La polizia rispose aprendo il fuoco sui manifestanti e notizie esagerate su migliaia di morti negli scontri si diffusero in tutto il paese. Il 21 dicembre un’enorme folla di dimostranti si radunò di fronte al palazzo del partito a Bucarest per chiedere la fine della repressione. Ceauşescu, convinto di poter riportare i manifestanti a più miti consigli, si affacciò da un balcone e iniziò a parlare. Con suo immenso stupore, i manifestanti lo accolsero con grida e insulti. L’espressione di Ceauşescu, sorpreso e apparentemente incredulo, divenne il simbolo del crollo del suo regime.
Quella sera l’esercito riuscì a riportare ordine nelle strade, ma i generali a quel punto avevano deciso che il regime non poteva restare in piedi. Il giorno dopo una nuova manifestazione si radunò di fronte al palazzo. Ceauşescu tentò di nuovo di calmare la folla, ma questa volta, oltre che dalle grida, venne accolto dal lancio di pietre. I militari abbandonarono il palazzo e i manifestanti sfondarono le porte. Ceauşescu, sua moglie Elena e un piccolo seguito riuscirono a fuggire dal tetto del palazzo a bordo di un elicottero, pochi istanti prima di essere raggiunti dalla folla inferocita.
La fuga fu brevissima. Poco dopo il decollo i militari contattarono il pilota dell’elicottero e minacciarono di abbatterlo se non fosse atterrato. Il piccolo gruppo si fermò a breve distanza dalla capitale, sequestrò l’automobile di un passante e si fece portare alla città più vicina, ma qui Ceauşescu e la moglie furono presi in custodia dalla locale guarnigione dell’esercito.
Nel frattempo i militari avevano preso il controllo della capitale e un governo provvisorio fece arrivare ai soldati l’ordine di processare ed eliminare il dittatore. Il processo, ripreso da una troupe televisiva, iniziò il 25 dicembre e si svolse in una caserma fuori città. Durò meno di un’ora. Ceauşescu si rifiutò di riconoscere la legittimità del tribunale, ma fu ugualmente condannato a morte.
Dopo la lettura della sentenza, Ceauşescu fu condotto insieme alla moglie nel cortile della caserma, dove li attendeva un plotone d’esecuzione formato da un’unità di élite di paracadutisti. Ceauşescu uscì cantando l’Internazionale socialista. Venne bendato e gli furono legate le mani dietro la schiena. Sua moglie rimase accanto a lui, apparentemente impassibile, per tutto il tempo. I due furono uccisi da una scarica di kalashnikov. L’esecuzione della condanna venne filmata dalle telecamere e le immagini della loro morte vennero trasmesse pochi giorni dopo dalle televisioni rumene e da quelle di tutto il mondo. Finì così la vicenda di Nicolae Ceauşescu, l’unico leader dell’Europa orientale a essere ucciso nel crollo del suo regime.
– Leggi anche: Dove sono i corpi dei dittatori