Lo shopping cambiato dagli adolescenti
Non solo comprano online, ma formano il loro gusto sui social network di aziende e influencer: con grosse conseguenze
Negli ultimi dieci anni internet ha completamente cambiato il modo in cui facciamo acquisti: ha abituato le persone a comprare online mandando in crisi il sistema dei grandi centri commerciali e della vendita al dettaglio, ha fatto crollare alcune aziende e ne ha portate al successo altre ed è diventato il luogo principale in cui scoprire cosa si desidera prendendo il posto dei negozi, dei film in tv e delle riviste di moda. Questa tendenza è evidente soprattutto tra gli adolescenti che, racconta il sito di moda Business of Fashion, sono cresciuti con i social media e sono abituati a comprare in un modo nuovo: trovano ispirazione su Instagram, negli account dei marchi e degli influencer, ricercano quello che gli piace sulle app di rivenditori come Depop, si informano dettagliatamente sui valori rispettati dai marchi favorendo quelli attenti all’ambiente, ai temi di genere e al rispetto di tutti i tipi di corpi.
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All’inizio del secolo c’era stato un cambiamento simile con l’arrivo delle catene di fast fashion, che offrivano un assortimento continuo di vestiti alla moda di scarsa qualità e molto economici: vendevano una montagna di abiti e accessori tra cui scegliere e da cambiare nel giro di pochi mesi ed erano strutturate come un grande raccoglitore di tendenze dove chiunque poteva trovare quella che faceva al caso suo. Sgretolarono presto la solidità delle catene di moda dell’epoca, che erano più costose, molto identitarie, piene di loghi e aspirazionali, presentavano cioè un modello di vita a cui tendere; negli Stati Uniti le principali erano Abercrombie & Fitch, Hollister e American Eagle, tutte impostate su un’immagine molto americana. Non riuscirono a tenere il passo con i prezzi e il ricambio settimanale delle grandi catene come Forever 21 e H&M, che diventarono i colossi che dettavano agli adolescenti come vestirsi.
Ancora dieci anni fa il centro commerciale era al centro del sistema di vendita; per esempio, secondo una ricerca condotta nel 2010 e riportata da BoF, le ragazze non erano molto interessate al «canale internet» e continuavano a considerare lo shopping soprattutto come un «evento sociale fatto al centro commerciale». Ora invece «con i social media e l’e-commerce sono i giovani consumatori ad avere il potere di fare delle ricerche e scegliersi le tendenze che gli interessano». Entro il 2020 la Generazione Z, cioè i nati nella metà degli anni Novanta, rappresenteranno il 40 per cento dei consumatori in tutto il mondo, con un potere d’acquisto di 150 miliardi di dollari all’anno e con un modo di fare shopping che si svolge prevalente sui social e attraverso i social. Le aziende che si erano affermate negli anni Zero fanno fatica ad adattarsi alle nuove regole di internet – come gli algoritmi e gli influecer su Instagram e TikTok, il social network popolare tra gli adolescenti dove si pubblicano video brevi e divertenti – e soffrono la concorrenza dei marchi che inseguono con successo le tendenze online, come Brandy Melville, Everlane, Allbirds.
Inoltre ogni social network propone un diverso modello estetico. Gli e-boys e le e-girls di TikTok per esempio, hanno un gusto più grunge, rock e androgino. Uno di loro, Noen Eubank, è appena diventato testimonial dell’azienda di moda francese Celine, guidata dal direttore creativo Hedi Slimane, che ha sempre scelto modelli magrissimi non molto diversi dai cosiddetti soft-boi o flower-boi di TikTok, ragazzi che non temono di mostrare un lato femminile, come Timothée Chalamet e Harry Styles.
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Le VSCO girls – dal nome della app che permette di scattare, ritoccare e condividere fotografie – indossano invece il nuovo stile preppy americano (quello dei college, fatto di gonne a scacchi e pieghe, camicette e golfini). Sono perlopiù bianche, della media borghesia, indossano magliette lunghe e short o jeans mommy (un particolare taglio alto in vita e dalla gamba larga), portano i choker al collo, si legano i capelli con gli scrunchies, girano con le borracce (di marca Hydro Flask) e gli zaini Fjällräven (quelli con il disegnino della volpe), indossano Brandy Melville, Nike, Crocs, Birkenstock, Vans e Urban Outfitters.
Le app come Depop, dove chiunque può farsi un account e rivendere a chiunque i propri vestiti, hanno creato un’estetica, una comunità e dei personaggi che influenzano come si vestono gli adolescenti. Anche le boutique, vintage o meno, che pubblicano sui social le foto delle cose che vendono hanno inventato un nuovo genere di fotografia di moda, ancora lontano da quello che compare sulle riviste, ma diffuso e riconoscibile: è più spontaneo, realistico, amichevole e vicino al suo pubblico.
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Infine, la Gen Z è più attenta della precedente ai valori delle aziende e dei negozi da cui compra. Secondo un rapporto riportato da BoF, l’82 per cento è più propenso a comprare da un marchio che rispetta pratiche etiche mentre nove persone su dieci, sempre della Gen Z, pensano che i marchi abbiano la responsabilità di spiegare quello in cui credono dal punto di vista sociale e ambientale. Questo non si traduce automaticamente nel successo dei soli marchi ambientalisti, femministi e antirazzisti ma sta alla base dell’idea che i marchi non debbano vendere dei vestiti ma proporre un modo di vivere. Come spiega BoF, devono «sviluppare e adottare un’identità completa con una serie riconoscibile di valori, con un’estetica specifica e una voce fatta apposta per internet».
Le aziende di successo degli anni Zero sono riuscite a farlo raramente. Abercrombie & Fitch e American Apparel sono rimaste incastrate in «un’immagine omogenea, glamour e ipersessualizzata», proponendo un modello molto lontano da quello ricercato dai nuovi adolescenti. Entrambi inoltre hanno insistito sulla magrezza delle modelle, su un’idea di bellezza molto tradizionale e sull’esposizione sensuale e allusiva dei corpi. L’amministratore delegato di Abercrombie, Mike Jeffries, si dimise nel 2014 e ora il suo successore sta cercando di ribaltare l’azienda, mentre il fondatore di American Apparel, Dov Charney, si dimise nel 2016 dopo accuse di molestie sessuali. Un altro caso esemplare è quello di Victoria’s Secret, una popolare catena di intimo. Si è ostinata per anni a proporre un’immagine molto tradizionale di bellezza femminile – modelle alte, magre, bianche, sexy – e ha cercato di adattarsi troppo tardi alla richiesta di attenzione verso corpi diversi, soffrendo la concorrenza di aziende che hanno fatto pubblicità e sfilate con donne magre, grasse, bianche, nere, asiatiche, di tutte le età, non ritoccate, come Aerie e Savage x Fenty di Rihanna. Le vendite di Victoria’s Secret sono calate, ha chiuso molti negozi e quest’anno ha annullato la sua sfilata annuale, che era stato a lungo uno dei momenti di moda più attesi.
Forever 21 ha chiesto l’amministrazione controllata mentre negozi enormi in punti di passaggio centrali, come Times Square a New York, che un tempo generavano più di 4 miliardi di dollari di vendite all’anno ora sono semideserti e impoveriti dagli affitti altissimi. La crisi riguarda anche i grandi magazzini di lusso, come il celebre Barney’s New York, che aveva chiesto l’amministrazione controllata ad agosto.