Lo strano caso di Vitaly Markiv
Come un discusso articolo del Corriere ha portato alla condanna a 24 anni di carcere di un soldato italo-ucraino per l'omicidio di un giornalista, Andrea Rocchelli
di Davide Maria De Luca
Quando un giornalista viene ucciso mentre sta facendo il suo mestiere, di solito è raro trovare un colpevole. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, una ONG con sede a New York, su quasi 1.200 giornalisti uccisi dal 1992 a oggi, soltanto nel 14 per cento dei casi gli assassini sono stati puniti. Il caso di Andrea Rocchelli, un fotografo di Pavia ucciso nel 2014 durante un bombardamento in Ucraina orientale, sembrava destinato a confermare questa statistica, ma in un rivolgimento più unico che raro lo Stato italiano ritiene di aver trovato un colpevole. Lo scorso luglio Vitaly Markiv, un sergente della Guardia Nazionale ucraina con doppio passaporto italo-ucraino, è stato condannato dal tribunale di Pavia a 24 anni di carcere per l’omicidio di Rocchelli e del suo interprete, il cittadino russo ed ex dissidente sovietico Andrej Mironov. Markiv si è sempre dichiarato innocente e la sua condanna, arrivata in un periodo in cui la giustizia italiana è stata spesso criticata per aver compiuto gravi errori, ha suscitato reazioni contrastanti.
Il governo e l’opinione pubblica ucraini, affiancati da numerosi giornalisti e da diversi esponenti dei Radicali Italiani e di +Europa, sostengono che la sentenza sia basata soltanto su prove indiziarie, e che il processo si sia svolto in un clima inquinato dalla propaganda russa. Per altri, come la FNSI, il sindacato italiano dei giornalisti, che si è costituita parte civile, il processo è stato invece un caso di giustizia esemplare che ha dimostrato come non sempre gli assassini dei giornalisti riescono a farla franca. Alle accuse di essere influenzati dalla propaganda russa, la grande stampa e una parte della sinistra italiana hanno risposto accusando a loro volta Markiv di essere un estremista e un nazionalista, e lo stato ucraino di essere sostenuto da gruppi neofascisti. La pubblicazione delle motivazioni della sentenza, lo scorso ottobre, ha ricordato a tutti che il processo non si è svolto per giudicare le ragioni del conflitto ucraino, ma per indagare sulle circostanze della morte di un fotografo di 30 anni e per decidere sul futuro di un altro ragazzo oggi suo coetaneo.
Più che fare chiarezza, però, le motivazioni dei giudici hanno generato altri dubbi. Della vicenda si è occupato persino il New York Times, che ha sottolineato il ruolo avuto dai media e della propaganda russa nel portare alla condanna di Markiv, mentre proprio in questi giorni un gruppo internazionale di giornalisti sta terminando di girare un documentario sulla vicenda. La bizzarria e l’unicità del caso continuano ad alimentare interesse e probabilmente nuovi articoli e inchieste saranno pubblicati prima che la prossima primavera inizi il processo di appello. Il fatto che siamo di fronte a un processo a un soldato semplice di un’altra nazione, accusato di aver ucciso un giornalista nel corso di un conflitto armato, sarebbe già abbastanza da attirare l’attenzione di qualsiasi appassionato di cronaca giudiziaria. Ma a rendere tutto ancora più strano ci ha pensato il modo con cui gli investigatori sono arrivati alla condanna. Tutto infatti è partito da un articolo lungo appena tre paragrafi, pubblicato sul sito del Corriere della Sera il giorno dopo l’uccisione di Andrea Rocchelli.
La morte di Andrea Rocchelli
Quello che sappiamo sull’uccisione di Andrea Rocchelli lo conosciamo grazie al racconto degli unici due sopravvissuti all’attacco: il tassista ucraino che guidava l’automobile su cui si trovavano Rocchelli, il suo interprete Mironov e un fotografo francese dilettante che li accompagnava, William Roguelon, l’unico che i magistrati italiani sono riusciti a interrogare. In quei giorni Rocchelli, Mironov e Roguelon si trovavano a Sloviansk, una città nella parte orientale dell’Ucraina controllata dai ribelli filo-russi. Si erano conosciuti in quello che era diventato l’albergo di riferimento dei giornalisti stranieri in città. Roguelon, che non parlava russo e si esprimeva in un inglese scolastico, fece amicizia con Mironov, uno dei pochi giornalisti in città a parlare francese (Mironov parlava perfettamente anche italiano, e in passato era stato iscritto al Partito Radicale). Fu lui, il pomeriggio del 24 maggio, a ricevere da una fonte l’informazione che un villaggio poco fuori città era stato bombardato. Il gruppo decise di andare sul posto a scattare qualche fotografia, e prese uno dei taxi che aspettavano sempre fuori dall’hotel.
In quei giorni la periferia di Sloviansk era particolarmente pericolosa. Ucraini e filo-russi si scambiavano continuamente colpi d’artiglieria, e già diverse troupe di giornalisti si erano trovate in mezzo al fuoco incrociato. «C’erano bombardamenti continui, le campagne di Sloviansk erano letteralmente in fiamme», ha detto un comandante filo-russo ricordando quei giorni. Per arrivare al villaggio segnalato dalla fonte, il gruppo avrebbe dovuto attraversare uno dei punti più pericolosi di tutta la regione: il passaggio a livello di fronte alla fabbrica di ceramiche Zeus, un imponente edificio di cemento poco fuori dalla città di Sloviansk. In quel punto la strada attraversava la linea del fronte in una zona dominata dalla collina di Karachun e dalla sua imponente antenna televisiva. La collina era presidiata dall’esercito ucraino, che da lassù poteva colpire gran parte delle strade su cui si muovevano gli insorti. Tra la collina e la vallata sottostante gli scambi di artiglieria erano quasi continui. L’ultimo bombardamento si era interrotto soltanto quella mattina.
L’autista impiegò pochi minuti ad arrivare dall’albergo alla fabbrica Zeus, ma quando si trovò di fronte al passaggio a livello dovette fermarsi: la strada era bloccata da un treno che alcuni giorni prima i filo-russi avevano trasformato in un’improvvisata barricata per impedire il passaggio dei veicoli ucraini. Dopo aver discusso brevemente su cosa fare, i tre giornalisti scesero dall’automobile e Rocchelli iniziò a scattare alcune fotografie al treno bloccato sui binari. Il gruppo non si era allontanato che qualche decina di metri dalla macchina, quando un uomo uscì di corsa dalla boscaglia vicino ai binari. L’uomo si mise a parlare in maniera concitata con Mironov, l’unico dei tre che parlasse russo, e Rocchelli gli scattò alcune foto (nelle immagini si vede un uomo di circa 30 anni, vestito con una tuta e dall’aria spaventata).
Secondo Roguelon, l’uomo parlò della presenza di un cecchino. Mironov, traducendo, disse che dovevano nascondersi. Pochi istanti dopo il gruppo iniziò a essere preso di mira dal fuoco di armi leggere, probabilmente gli onnipresenti kalashnikov in dotazione a tutte le forze militari che combattono in Ucraina. L’uomo arrivato dalla boscaglia nel frattempo si era dileguato e al gruppo non restò altra scelta che cercare riparo in un fosso insieme al tassista. Il fuoco di armi leggere proseguì, poi iniziarono a cadere le bombe di mortaio. In un filmato ripreso da una delle macchine fotografiche recuperate dal luogo dell’attacco si sente Mironov dire che il gruppo è finito in mezzo al fuoco incrociato. Nel frattempo le bombe continuavano a cadere. Roguelon racconta che una bomba distrusse la loro auto; altre caddero nel fosso, uccidendo Rocchelli e Mironov e ferendo lui stesso ad entrambe le gambe. Roguelon dice che a quel punto raccolse le sue forze e con l’energia della disperazione riuscì a inerpicarsi fuori dal fosso e correre via. Sentendo intorno a sé di nuovo il suono di spari di armi leggere, racconta di aver alzato le mani e di aver gridato di essere un giornalista. I colpi di fucile a quel punto sarebbero terminati e Roguelon, ferito, riuscì a fermare una macchina per farsi portare in città. Una delle ultime cose che vide fu un gruppetto di miliziani filo-russi sulla strada di fronte alla fabbrica di ceramica.
L’arresto
La notizia della morte di Rocchelli arrivò in Italia la sera del 24 maggio e la mattina dopo, domenica, arrivò la conferma del ministero degli Esteri. Secondo le prime ricostruzioni che circolavano sui giornali, a sparare erano stati gli ucraini, ma la morte dei due giornalisti appariva come un incidente. Dopo i primi giorni, i media nazionali sembrarono dimenticarsi della vicenda. Ma a Pavia, la città di Rocchelli, una parte della cittadinanza era rimasta profondamente colpita. Rocchelli era conosciuto per il suo lavoro con il collettivo di fotografi Cesura, che aveva fondato con alcuni colleghi, e aveva dato lustro alla città con i suoi reportage pubblicati su Le Monde, su Newsweek e sul Wall Street Journal. Anche la sua famiglia è conosciuta e sua madre Elisa Signori è professoressa di Storia all’università. Ai funerali di Rocchelli parteciparono centinaia di persone, oltre al sindaco, il vescovo, il rettore e una rappresentanza della comunità ucraina.
In quei giorni la procura di Pavia decise che il caso valeva più di qualche indagine formale e di un’archiviazione frettolosa, e fin dai primi giorni gli investigatori iniziarono a premere con insistenza sul governo ucraino e sull’ambasciata italiana di Kiev per avere informazioni su quello che era accaduto. Le indagini furono molto difficili. L’uccisione di Mironov e Rocchelli era avvenuta in un paese lontano e nel pieno caos di una guerra intestina. Il governo ucraino non rispondeva con facilità alle richieste della procura, per reticenza o semplicemente perché non era in grado di farlo. Il luogo dell’omicidio era difficile da raggiungere ed era impossibile che la scena del crimine rimanesse intatta. Interrogare militari e miliziani delle due fazioni sembrava semplicemente impossibile. E in ogni caso, tutti gli sforzi potevano rivelarsi vani. Una volta individuato il colpevole, infatti, come sarebbe stato possibile portarlo in Italia e processarlo?
Non è chiaro quando gli investigatori si accorsero dell’indizio che gli avrebbe permesso di risolvere in un colpo solo tutti i loro problemi: la sentenza è curiosamente sintetica su questo punto. Probabilmente soltanto diversi mesi dopo la morte di Rocchelli, gli investigatori scoprirono un breve articolo pubblicato sul sito del Corriere della Sera il 25 maggio del 2014, il giorno dopo la sua morte. L’articolo si intitolava “Ucraina, il racconto del capitano «Ecco come è morto Rocchelli»” e conteneva un’intervista a un anonimo ufficiale ucraino che sembrava confessare l’uccisione di Rocchelli. Vale la pena riprodurlo per intero.
Slavianks, a Nord di Donetsk nell Ucraina dell’Est è la roccaforte degli indipendentisti pro russi. La città è da giorni circondata dall’esercito ucraino che si è rafforzato in vista delle elezioni presidenziali. Nei giorni scorsi anche le abitazioni dei civili sono state bombardate dai fuochi incrociati degli ucraini e dei miliziani pro russi: la zona più calda è la collina dove sorge la torre della televisione, ora quartier generale delle forze di Kiev. Proprio lì, tra le barricate russe e la collina, Andrea Rocchelli è stato colpito a morte da una scarica di mortaio. Ai piedi della collina diversi giornalisti e fotografi si sono avventurati nelle scorse settimane: 4 di loro 15 giorni fa sono stati assaliti da 3 colpi di mortaio, e si sono salvati per poco.
Abbiamo raggiunto al telefono un capitano dell’esercito che in quel momento era sulla torre a coordinare la difesa della città. «Qui non si scherza, non bisogna avvicinarsi: questo è un luogo strategico per noi, ha raccontato il militare.
«Normalmente noi non spariamo in direzione della città e sui civili, ma appena vediamo un movimento carichiamo l’artiglieria pesante. Così è successo con l’auto dei due giornalisti e dell’interprete. Noi da qui spariamo nell’arco di un chilometro e mezzo. Qui non c’è un fronte preciso, non è una guerra come la Libia. Ci sono azioni sparse per tutta la città, attendiamo solo il via libera per l’attacco finale».
L’articolo era firmato da Ilaria Morani, una giornalista freelance che aveva già collaborato in precedenza con il Corriere, occupandosi soprattutto di automobili. All’epoca della pubblicazione l’articolo era passato del tutto inosservato, e la stessa redazione del Corriere non lo aveva ritenuto abbastanza importante da meritare una menzione nella versione cartacea del giorno dopo. Anche se a un primo sguardo sembrava contenere una notizia fondamentale, un ufficiale ucraino che ammetteva di avere avuto un ruolo nella morte di Rocchelli e Mironov, un’analisi più scrupolosa suggeriva di considerare il contenuto dell’articolo con grande cautela.
L’articolo appare pubblicato di fretta, e contiene almeno un refuso e diverse inesattezze. Per esempio Morani descrive gli ucraini sulla collina intenti a “difendere la città”, ma Sloviansk era nelle mani dei filo-russi: gli ucraini semmai stavano attaccando la città. L’articolo, inoltre, sembra riflettere l’abitudine giornalistica di parafrasare le parole del proprio interlocutore piuttosto che riferirle letteralmente: una tradizione che, soprattutto in Italia, porta a usare i virgolettati più come interpretazioni del pensiero dell’intervistato che come frasi da lui realmente pronunciate. Quando Morani riferisce che l’anonimo ufficiale ucraino paragona i combattimenti a Sloviansk agli scontri in Libia, per esempio, sembra esprimere più il pensiero di qualcuno che sta seguendo i notiziari italiani sull’ennesimo colpo di stato a Tripoli, che quello di un soldato ucraino in cima a una collina bombardata nel Donbass. È con ogni probabilità per queste ragioni che il Corriere non diede risalto alla notizia e nessun giornalista provò a seguire la pista.
Gli investigatori di Pavia, però, la pensavano diversamente. Per loro le frasi «appena vediamo un movimento carichiamo l’artiglieria pesante» e «Così è successo con l’auto dei due giornalisti e dell’interprete» erano da intendere in senso assolutamente letterale, e per questo costituivano la prova che l’anonimo ufficiale ucraino si trovava sulla collina quel giorno e che – come è scritto nella sentenza definitiva – aveva «piena conoscenza e consapevolezza dell’attacco sferrato contro le vittime». Era, in altre parole, una specie di confessione. Scoprire chi era la fonte di Morani per la procura non fu difficile. Incrociando le amicizie di Morani su Facebook riuscì a individuare l’anonimo ufficiale ucraino, e Morani e altri giornalisti presenti quel giorno a Sloviansk hanno successivamente confermato la sua identità. Ma il militare che aveva parlato al telefono con Morani non era un capitano dell’esercito, com’era scritto nell’articolo, ma un soldato semplice della Guardia Nazionale che, incredibilmente, viveva in Italia e aveva un doppio passaporto, italiano e ucraino. Il suo nome era Vitaly Markiv.
Chi è Vitaly Markiv
Vitaly Markiv è nato in Ucraina nel 1989 e a 16 anni si è trasferito a Tolentino, nelle Marche, insieme alla madre che, in seconde nozze, ha sposato un cittadino italiano. La sua è stata una vita abbastanza normale. Dopo aver concluso gli studi, ha ottenuto la cittadinanza italiana e ha lavorato come personal trainer e come DJ in alcuni locali delle Marche con il nome di Markus Sweet. Anche se non si era mai interessato particolarmente di politica, nel 2013 Markiv era uno dei molti ucraini che dall’Italia seguivano con angoscia le proteste di piazza Maidan a Kiev contro il presidente filo-russo Viktor Yanukovich. Nell’inverno di quell’anno prese contatto con i manifestanti e li raggiunse a Kiev. Quando Yanukovich fuggì in Russia, Markiv si trovava nel paese, dove celebrò insieme a molti altri suoi connazionali la fine del governo e le nuove elezioni che presto si sarebbero tenute.
Ma il loro entusiasmo durò poco. Poche settimane dopo l’esercito russo occupò la Crimea, una regione autonoma nel sud paese, e nell’est iniziò un’insurrezione armata che presto si rivelò essere sostenuta dalla Russia. Per fronteggiare l’emergenza, il governo provvisorio ucraino autorizzò la formazione di numerosi battaglioni di volontari, inquadrati nella Guardia Nazionale e sostenuti anche dalle donazioni di singoli cittadini, di associazioni patriottiche e politiche (a volte di estrema destra), ma soprattutto dei ricchi oligarchi del paese. Markiv decise di arruolarsi volontario in una di queste formazioni. Nelle foto di quei giorni Markiv, che è ancora oggi membro della Guardia Nazionale e ha raggiunto il grado di sergente maggiore, appare come il modello perfetto per qualsiasi addetto alle pubbliche relazioni militari. Ha le spalle larghe, il petto ampio e una faccia da bravo ragazzo incorniciata da una barba ben curata. Il fatto che avesse rinunciato a una comoda vita all’estero per arruolarsi volontario aggiungeva altro prestigio alla sua figura marziale. Non sembra un caso se in un paio di occasioni le televisioni e i giornali ucraini abbiano scelto di intervistare proprio lui come simbolo di una nuova generazione di patrioti ucraini impegnati a difendere il proprio paese.
Nelle prime settimane di conflitto Markiv divenne una piccola celebrità anche nella comunità di giornalisti italiani arrivati per fare reportage sul conflitto. Cristiano Tinazzi, giornalista freelance e istruttore di corsi di sicurezza per giornalisti in situazioni di guerra, ha raccontato che la vicinanza dell’Ucraina e la facilità nell’ottenere un visto avevano portato moltissimi giornalisti italiani, e non solo, ad andare sul campo. Molti di loro avevano pochissima o addirittura nessuna esperienza in situazioni di conflitto, ed erano arrivati nel paese senza la copertura di una grande testata. Tinazzi, che oltre che in Ucraina ha lavorato anche in Siria, Afghanistan e Libia, è molto critico verso l’irresponsabilità dimostrata da molte testate italiane, che hanno spesso incoraggiato giovani giornalisti ad andare in zone pericolose senza l’esperienza necessaria, pagandoli poche decine di euro ad articolo. Oggi Tinazzi è uno dei giornalisti che lavorano al documentario sulla morte di Rocchelli e il processo a Markiv.
In quell’ambiente di giovani professionisti, ricco di entusiasmo ma a volte anche di dilettantismo, Markiv, uno dei pochissimi militari ucraini a parlare italiano, divenne in breve un punto di riferimento per i giornalisti, aiutandoli nelle traduzioni e fornendo loro informazioni e materiali. In quei giorni era stato dislocato proprio sulla collina di Karachun, di fronte a Sloviansk, ma non era un “capitano” incaricato della “difesa della città”, come scrive Morani nell’articolo. Era un soldato semplice, anche se si presentava come una sorta di capo del suo piccolo plotone composto da una decina di uomini. Il suo ruolo e quello degli altri 150 uomini circa che si trovavano sulla collina e nei suoi immediati dintorni era occupare le trincee e i bunker, resistere ai bombardamenti dei filo-russi e segnalare movimenti sospetti alle unità dell’esercito regolare, appostate nelle retrovie e dotate di mortai e artiglieria. Dopo la morte di Rocchelli, Markiv trascorse diversi mesi al fronte, prima di tornare nelle retrovie. Rimase amico di diversi giornalisti italiani, tra cui Ilaria Morani. Senza saperlo, a partire dal marzo del 2015, Markiv e i suoi familiari erano intercettati dalla procura di Pavia. Dopo due anni di registrazioni e indagini, nell’estate del 2017, Markiv fu arrestato all’aeroporto di Bologna, mentre tornava dall’Ucraina con sua moglie Diana.
Il processo
Il processò a Vitaly Markiv iniziò nel luglio del 2018, e fin da subito dovette fare i conti con un contesto politico molto acceso. Il dibattimento si è svolto nel mezzo di una guerra di propaganda globale tra Russia, Ucraina e i vari alleati. I media di stato legati alla Russia, come SputnikNews, hanno sistematicamente sostenuto la versione dell’accusa, insieme a numerosi blog e account social. Anche la politica italiana si è divisa, con una parte della sinistra radicale che si è schierata con il pm, accusando Markiv e lo stato ucraino di simpatizzare con gruppi di estrema destra e di ricevere il sostegno di movimenti come CasaPound (il movimento neofascista è però diviso sul conflitto ucraino, Forza Nuova, ad esempio, è vicina alle posizioni dei filo-russi). Il caso ha attirato avvocati di alto profilo. Markiv è difeso da Raffaele Della Valle, ex senatore di Forza Italia e già avvocato del presentatore Enzo Tortora in uno dei più famosi casi di errore giudiziario nella storia italiana, mentre le associazioni di giornalisti che si sono costituite parte civile hanno chiamato a rappresentarle l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia.
Una grossa parte del processo e di quello che lo ha circondato ha finito con il trasformarsi in una messa in stato di accusa dello stato ucraino, e si è focalizzato su elementi non strettamente attinenti con il processo stesso. Markiv, il suo carattere e le sue simpatie politiche sono stati sottoposti ad uno scrutinio puntiglioso, anche grazie alle numerose fotografie e video del conflitto trovate nei suoi dispositivi dagli investigatori. Si è parlato molto, per esempio, di una fotografia in cui si vede un gruppo di militari ucraini con una bandiera nazista (Markiv sostiene che fosse una preda di guerra) o di alcune immagini che mostrano prigionieri incappucciati o una persona accasciata e ferita (Markiv sostiene che fosse un commilitone ubriaco).
Questi elementi sono stati utilizzati da molti per dipingere Markiv come un neonazista, un fanatico di estrema destra che avrebbe dato ordine di uccidere un gruppo di giornalisti considerati scomodi testimoni. Quando la grande stampa si è occupata di questo processo, per esempio negli articoli che al caso hanno dedicato due giornalisti molto celebri come Fabrizio Gatti de L’Espresso e Nello Scavo di Avvenire, questo lato, più che l’accuratezza delle indagini, è stato sottolineato con grande forza. Gatti e Scavo, per esempio, hanno descritto le udienze a cui hanno partecipato come riunioni di estremisti di destra venuti per sostenere Markiv, e hanno ricordato che Markiv in un’udienza aveva gridato “Gloria all’Ucraina”, un diffuso slogan patriottico.
Alcuni giornalisti che hanno seguito tutto il processo forniscono però ricostruzioni molto diverse. Massimiliano Melley, che ha partecipato a gran parte delle udienze per Milano Today, dice di non aver mai visto neonazisti in aula e che i sostenitori di Markiv provenivano in genere dalla comunità ucraina locale, in gran parte formata da donne. Olga Tokariuk, la giornalista che ha seguito il processo per l’ucraina Hromadske.tv, ha ricordato che l’estrema destra è molto debole in Ucraina, dove alle ultime elezioni ha raccolto circa il 2 per cento dei voti, e appena 237 nella comunità ucraina in Italia. A proposito delle grida patriottiche di Markiv, ha domandato: «Come avrebbero reagito gli italiani se un loro soldato avesse gridato “Viva l’Italia”?».
Nella sua requisitoria finale, il pm ha cercato di tenersi il più possibile lontano dalla politica e si è concentrato nel ricostruire la posizione, il ruolo e il movente di Markiv nel giorno della morte di Rocchelli. Secondo il pm, poco dopo le 16 del 24 maggio Markiv si trovava sulla collina di Karachun quando avvistò l’auto con a bordo Rocchelli e Mironov di fronte alla fabbrica Zeus. Markiv riconobbe che erano civili e capì che dovevano essere dei giornalisti. Visto che in quei giorni gli ucraini erano stanchi delle intromissioni sul fronte, Markiv decise di liberarsi di un gruppo di scomodi testimoni. Ordinò prima di aprire il fuoco con le armi leggere, poi, quando Rocchelli e gli altri si nascosero in un fosso, inviò le loro coordinate alle unità dell’esercito regolare guidando il fuoco dell’artiglieria fino a colpirli.
L’articolo di Morani era fondamentale per sostenere questa ricostruzione, poiché è l’unico elemento che collocava con certezza Markiv in una posizione da dove avrebbe potuto uccidere Rocchelli e che consentiva di desumere la sua consapevolezza di aver preso di mira dei giornalisti. Le parole «appena vediamo un movimento carichiamo l’artiglieria pesante» e «Così è successo con l’auto dei due giornalisti e dell’interprete» erano per gli investigatori una confessione extragiudiziale. L’accusa aveva bisogno di qualcosa di molto simile a una confessione, anche perché due anni di indagini non avevano prodotto molto, oltre a una montagna di intercettazioni. Le oggettive difficoltà nell’indagare in una zona di guerra hanno fatto sì che soltanto i difensori di Markiv abbiano visitato il luogo del delitto, mentre sul posto non sono mai andati né l’accusa né gli investigatori. Fotografie, video e mappe dell’area sono state prese in prevalenza da “fonti aperte”, cioè da internet e da Google Maps, che è stata ampiamente usata per cerca di dare un senso alla dinamica dei fatti. Durante il dibattimento, accusa e difesa sono spesso state costrette a utilizzare metodi non proprio scientifici. Per esempio accadeva di continuo che ai testimoni venisse chiesto di disegnare schizzi approssimativi del luogo e della loro posizione nei giorni dell’uccisione di Rocchelli. Schizzi che poi venivano sottoposti ad altri testimoni con conseguenti e comprensibili fraintendimenti e confusioni.
Il processo ha mostrato i limiti evidenti nell’applicare i rigidi criteri della giurisprudenza a uno scenario di guerra. L’accusa, per esempio, ha impiegato moltissimo tempo per cercare di ricostruire con esattezza la postazione che Markiv occupava in cima alla collina e il momento in cui si trovava lì. Questo tentativo, però, si è scontrato con l’inevitabile natura caotica della guerra, in cui di fronte alle emergenze e agli imprevisti di un conflitto non ci sono turni e ruoli che tengano. Tutto è confuso, con persone che si gettano al riparo dove possono e chi non è di turno si trova magari nella trincea più avanzata.
Proprio perché è così fondamentale, l’articolo di Morani è stato sottoposto a un particolare scrutinio da parte degli investigatori. Il risultato è stato produrre ancora più dubbi sulla sua affidabilità. Gli investigatori hanno ricostruito che il giorno dopo la morte di Rocchelli, proprio mentre si trovava in cima alla collina, Markiv ricevette due telefonate da uno dei suoi contatti italiani, il fotogiornalista Marcello Fauci. È con lui che Markiv ebbe la conversazione di cui la giornalista del Corriere della Sera riferisce il contenuto nell’articolo del 25 maggio. Morani non parlò mai direttamente con Markiv (e i due a malapena si conoscono) ma sostiene che quel giorno assistette alla chiamata, prendendo appunti che avrebbe poi usato per pubblicare l’articolo che ha dato l’avvio alle indagini. È qui che le cose si complicano ancora.
Markiv nega non solo di aver parlato al telefono con Morani, ma nega anche di aver mai pronunciato quasi tutti i virgolettati che Morani gli attribuisce. Fauci, il fotogiornalista con cui era al telefono, dice di non ricordare i dettagli della conversazione, e anche Morani in alcuni interrogatori è sembrata piuttosto incerta, anche se ha sempre confermato la correttezza del suo articolo. Anche una terza giornalista italiana presente con loro in albergo in quei giorni, Francesca Volpi, non sembra ricordare i particolari più controversi inseriti da Morani nel suo articolo. Nessuno di loro ha voluto rispondere alle richieste di un commento da parte del Post.
I tre non negano esplicitamente l’autenticità dei virgolettati attribuiti a Markiv, ma non sembra affatto che all’epoca li considerassero una specie di confessione. Insomma, loro stessi furono i primi non prendere alla lettera i virgolettati contenuti nell’articolo. E questa tra l’altro appare l’unica spiegazione del perché nessuno di loro tentò di seguire la pista che, secondo i giudici, Markiv aveva aperto ammettendo che Rocchelli era stato preso di mira esplicitamente e consapevolmente. Né Morani, né Fauci, né Volpi si occuparono nuovamente di quella conversazione, nessuno indagò ulteriormente o parlò più dell’articolo fino agli interrogatori dei magistrati. I tre rimasero invece in ottimi rapporti con Markiv, al punto che Fauci andò successivamente a trovarlo in ospedale e gli chiese di procurargli un giubbotto anti-proiettile.
La requisitoria finale dell’avvocato di Markiv, Raffaele Della Valle, è durata sei ore. Oltre a ricordare i dubbi sull’articolo di Morani, Della Valle ha preso in esame uno per uno gli elementi della ricostruzione del procuratore. Ha ricordato che la zona della fabbrica Zeus era una delle zone più pericolose del fronte, che c’erano stati molti combattimenti e che il gruppo di giornalisti la stava raggiungendo proprio per vedere gli effetti di un bombardamento. Ha ricordato che nessuno di loro aveva distintivi di riconoscimento della stampa, anzi Mironov indossava una tuta mimetica e il taxi non aveva insegne. Ha ricordato i filmati della televisione russa RT, che mostrano il treno di fronte alla fabbrica Zeus usato come barricata dai miliziani filo-russi, molti dei quali appaiono vestiti con abiti civili. Ha mostrato le fotografie scattate durante il suo sopralluogo a Karachun, che mostrano quanto sono lontane dalle posizioni ucraine la strada e la ferrovia e quanto sia difficile distinguere cosa accade lì sotto da quella distanza. A sostegno della tesi che sia stato un caso di fuoco incrociato, Della Valle ha detto che è molto improbabile che i primi colpi sentiti dal gruppo siano arrivati dagli ucraini, a millesettecento metri di distanza, una gittata troppo grande per sparare con precisione con un’arma leggera (i kalashnikov e gli altri fucili d’assalto si usano a distanze al massimo di poche centinaia di metri). Lo stesso Roguelon nella sua prima deposizione alla magistratura francese disse che non poteva identificare la provenienza di quegli spari. In un video, recuperato da una delle macchine fotografiche, si sente Mironov dire che il gruppo è finito in mezzo al fuoco incrociato.
Insomma, secondo Della Valle non ci sono prove per dire che fu un attacco intenzionale, e anzi tutti gli indizi puntano al contrario. Ma il problema più grande dell’accusa, sostiene, è che non ha modo di legare Markiv all’attacco. Al momento della morte di Rocchelli, Markiv era sulla collina, ma con lui c’erano tra i 40 e i 150 uomini, a seconda di quale posizione si consideri, e tra questi almeno un suo superiore. Nulla indica che sia stato lui ad avvistare i giornalisti, a riconoscerli come tali e a dare ordine di colpirli. Nulla, a parte un’interpretazione letterale di un articolo di giornale su cui, ha ricordato Della Valle, sussistono diversi dubbi.
Poche settimane prima, durante la sua requisitoria, il pm aveva parlato per molto meno tempo. Per Markiv aveva chiesto 17 anni di carcere, ma allo stesso tempo aveva annunciato una concessione piuttosto insolita in questi casi: se Markiv fosse stato assolto, ma se allo stesso tempo si fosse dato per accertato che il fuoco di mortai che avevano ucciso Rocchelli e Mironov proveniva dall’Ucraina, lui avrebbe rinunciato a fare appello. Quando la corte si riunì per decidere il verdetto, l’avvocato Della Valle, Markiv e la sua famiglia sentivano di avere la vittoria in tasca.
Il 12 luglio, il giorno in cui sarebbe stata letta la sentenza, Pavia era una città in attesa, ha raccontato Olga Tokariuk, che quel giorno si trovava lì. Nelle edicole i giornali locali annunciavano l’imminente fine del processo che da oltre un anno monopolizzava l’attenzione della città. L’aula era affollata di giornalisti, familiari e persone della comunità ucraina locale. La mattina la presidente del tribunale entrò in aula e iniziò a leggere la sentenza, con la voce continuamente interrotta dall’emozione o dalla fatica. Disse che il tribunale aveva ritenuto Markiv colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, e gli negava le attenuanti generiche. Markiv venne condannato a 24 anni, il doppio esatto della pena media assegnata in Italia per l’omicidio volontario. Alla lettura della sentenza, l’avvocato Della Valle ha avuto un malore.
Oggi Markiv attende il processo di appello, che dovrebbe cominciare nella primavera del 2020. Sembra difficile che i giudici della Corte d’Appello di Milano avranno molti nuovi elementi a disposizione per decidere. Nei processi di appello quasi mai vengono ammessi nuovi elementi e, in ogni caso, non sembra facile nemmeno produrli. Il luogo della morte di Rocchelli continua a essere lontano e complicato da raggiungere, mentre difficilmente il governo ucraino fornirà nuovi elementi in grado di incolpare o di discolpare Markiv. I testimoni più importanti, Fauci, Morani e Roguelon, non sembrano intenzionati a cambiare le versioni fornite finora. Alla Corte d’Appello di Milano non resterà che decidere se le prove raccolte dalla procura di Pavia sono sufficienti a condannare un uomo a 24 anni di carcere.