Perché è fallita la conferenza sul clima
Alcuni paesi sono stati accusati di avere ostacolato apertamente le trattative per arrivare a un accordo sulla riduzione delle emissioni inquinanti e che alterano il clima
La 25esima conferenza sul cambiamento climatico organizzata dall’ONU, la cosiddetta COP25, è stata considerata praticamente da tutti un fallimento.
Alla conferenza – durata una decina di giorni, a Madrid – hanno partecipato i rappresentanti di più di 190 paesi del mondo, che tra le altre cose si erano dati l’obiettivo di trovare una soluzione su uno dei punti più importanti e discussi dell’Accordo di Parigi sul clima: il meccanismo previsto dall’articolo 6, che dovrebbe permettere ai paesi che inquinano meno di “cedere” la loro quota rimanente di gas serra a paesi che inquinano di più, per permettere loro una transizione più facile senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi generali. Oltre a non avere concordato nulla sull’articolo 6, la COP25 non ha prodotto niente di vincolante sull’obbligo per i singoli paesi di presentare piani per ridurre ulteriormente le proprie emissioni di gas serra, necessari per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi nel 2015.
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Il fallimento della COP25 è dovuto a una serie di fattori. Alcuni paesi, soprattutto Brasile, Australia e Stati Uniti, sono stati accusati di avere ostacolato apertamente un accordo, per evitare di sottostare a regole più rigide per quanto riguarda l’emissione di gas serra. In particolare è stato molto criticato il governo statunitense, che aveva già annunciato il suo ritiro dall’Accordo di Parigi nel giugno 2017, attirandosi molte critiche da buona parte della comunità internazionale, ma che sarà ufficialmente fuori dal trattato nel novembre 2020.
I paesi più sviluppati, inoltre, non hanno dato garanzie sufficienti per la creazione di un meccanismo che preveda finanziamenti adeguati e sistematici verso i paesi più esposti agli impatti del cambiamento climatico, e che avranno quindi bisogno di più risorse economiche per finanziare la messa in sicurezza delle coste, nuove infrastrutture e il trasferimento di milioni di persone che oggi vivono nelle aree costiere a rischio. Anche i paesi meno sviluppati, che in generale non amano le misure anti-inquinamento perché pensano possano arrestare la loro crescita economica, chiedono da tempo misure compensative da parte dei paesi più industrializzati e nei quali la transizione verso la sostenibilità è già stata avviata, per quanto lentamente.
La COP25 era partita peraltro senza grandi ambizioni. Fin dall’inizio la discussione si era concentrata sui dettagli tecnici relativi all’articolo 6, mentre non era stato previsto un dibattito ampio e approfondito per fissare nuovi obiettivi.
Chema Vera, direttrice ad interim dell’organizzazione Oxfam International, ha detto al Guardian: «Il mondo sta chiedendo a gran voce di agire, ma la riunione [di Madrid] ha risposto con un sussurro. Le nazioni più povere stanno facendo a gara per sopravvivere, e molti governi si sono mossi a malapena dai blocchi di partenza. Invece di impegnarsi in tagli più ambiziosi delle emissioni di gas serra, i paesi hanno voluto discutere su dettagli tecnici».
Le questioni che sono state rimandate, per esempio la decisione su come attuare l’articolo 6 dell’Accordi di Parigi, saranno discusse durante la COP26 a Glasgow, in Scozia, che si terrà nel 2020. Non c’è comunque molto ottimismo tra gli osservatori, viste le forti reticenze di molti paesi influenti ad assumersi nuovi impegni e responsabilità sulle questioni legate al cambiamento climatico.
A fine settembre il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), gli scienziati ed esperti delle Nazioni Unite che studiano il riscaldamento globale, ha diffuso un nuovo rapporto speciale sul clima, dedicato soprattutto al peggioramento delle condizioni degli oceani e delle calotte di ghiaccio. Il documento è il frutto dell’analisi di circa 7mila ricerche scientifiche e nelle sue conclusioni dice che il livello del mare continua ad aumentare, i ghiacci si sciolgono rapidamente e molte specie si stanno spostando alla ricerca di condizioni più adatte alla loro sopravvivenza. Il cambiamento, scrivono gli scienziati, è dovuto principalmente alle attività umane e alle loro emissioni che peggiorano l’effetto serra.
Il rapporto è il terzo degli speciali prodotti dall’IPCC nell’ultimo anno. In precedenza il Gruppo aveva pubblicato un documento sugli effetti di un aumento della temperatura media globale di 1,5 °C entro la fine del secolo, con serie conseguenze per buona parte della popolazione mondiale e un altro rapporto sugli effetti del cambiamento climatico sulle terre emerse.
L’estate del 2019 è stata la più calda mai registrata nell’emisfero settentrionale, secondo le analisi condotte dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale degli Stati Uniti che si occupa di oceani e clima. Su scala globale, il periodo tra giugno e agosto è stato il secondo più caldo mai registrato negli ultimi 140 anni (da quando ci sono dati affidabili) con una temperatura media di 16,5 °C, superata solo nel 2016 quando si raggiunsero 16,6 °C: la temperatura media del Ventesimo secolo era 15,6 °C.