La dimenticata moda di lusso di Berlino
Faceva concorrenza a Londra e Parigi ma era gestita da famiglie ebraiche e fu distrutta dal nazismo: ora qualcosa sta tornando
Delle grandi capitali europee, Berlino è l’unica a non avere una Settimana della moda rilevante – cioè il momento in cui stilisti e aziende fanno sfilare le loro collezioni – e marchi di abbigliamento di lusso a livello internazionale. I pochi che ci sono sfilano hanno successo soprattutto all’estero, come Hugo Boss a New York e Jil Sander a Milano, mentre lo stilista tedesco più geniale di tutti, Karl Lagerfeld, era stato praticamente adottato dalla Francia con Chanel. Tra le poche eccezioni c’è l’italiano Stefano Pilati, ex direttore creativo di Yves Saint Laurent, che si è trasferito a Berlino e nel 2017 ci ha fondato il suo marchio, Random Identities.
La Germania non è nota per il gusto nel vestire, anzi, l’espressione moda tedesca vi farà forse venire in mente un paio di calzini infilati nei sandali. Meno di cent’anni fa però Berlino era una delle capitali della moda di lusso in Europa, e negli anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale teneva testa a Parigi e a Londra per qualità di tessuti, raffinatezza sartoriale e bellezza. Era però un’industria gestita soprattutto da famiglie ebree, e per questo venne spazzata via dai nazisti: marche un tempo desiderate e indossate dai berlinesi eleganti, come mostrano i giornali del tempo, sono ora sconosciute a tutti. Vanessa Friedman, la giornalista di moda del New York Times, ha raccontato quella storia perduta e il tentativo di farla rinascere nei nostri giorni.
Se ne sta occupando in particolare un gruppo d’investimento tedesco, Jandorf Holding, che sta ricomprando i marchi di quelle vecchie aziende per riportarli in vita e rilanciare la moda tedesca nel mondo. Tra gli azionisti di Jandorf c’è Lothar Eckstein, che scoprì questa storia dieci anni fa, quando si trasferì da Stoccarda a Berlino, dove dirigeva la sezione tedesca di Amazon e aveva fondato un’azienda di media indipendente. Da allora Jandorf – di cui fanno parte anche l’avvocato Matthias Düwel e Christian Boros, esperto di pubblicità e collezionista d’arte – ha iniziato a raccogliere i nomi degli eredi e a rintracciarli.
Tra loro c’è anche Andreas Valentin, che ha 66 anni, insegna all’università statale di Rio de Janeiro ed è l’ultimo erede di Manheimer, una delle più grandi aziende di lusso nella Germania di inizio Novecento: era soprannominato “il re dei cappotti” e fu forse il primo negozio, o comunque uno dei primi, a produrre abiti già confezionati, detti Konfektion, anticipando la nascita del prêt-à-porter (cioè i vestiti che si comprano già pronti e che non vengono fatti su misura da un sarto, come era normale in Europa fino alla Seconda guerra mondiale). Manheimer, fondato nel 1839 e gestito da una famiglia ebraica, chiuse nel 1929, ma a novembre è stato riaperto da Jandorf, con una cerimonia di inaugurazione in cui era presente e aveva preso la parola anche Valentin. Per ora il gruppo ha recuperato 32 aziende, tra cui l’orologiaio F. L. Löbner, il produttore di valigie M. Würzt & Söhne, il calzaturificio Breitsprecher e Hermann Gerson, negozio di abbigliamento di lusso che riforniva la corte di Prussia; la maggior parte di queste aziende si trovava nella Hausvogteiplatz.
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A inizio Novecento la moda era uno dei settori di maggior peso in Germania: esportava nei Paesi Bassi, in Regno Unito, negli Stati Uniti e in Brasile e, come dicevamo, la maggior parte delle aziende era di proprietà ebraica e aveva dipendenti ebrei. «Nella Berlino del 1933 c’erano circa 2.700 aziende di moda di prima qualità, nel 1939 erano meno di 150», spiega Uwe Westphal, ex giornalista e autore di Fashion Metropolis Berlin, che ricostruisce l’ascesa e la distruzione dell’industria di abbigliamento in Germania. Molte aziende tedesche hanno ammesso e chiesto scusa per il loro passato nazista o compromesso con il regime: Hugo Boss venne per esempio fondata da un iscritto al partito nazista e si servì del lavoro dei prigionieri dei campi di lavoro, Adidas e Puma furono avviate dai fratelli Adolf e Rudolf Dassler, membri del partito nazista. Non si è mai parlato però delle aziende scomparse durante il regime, e del contributo fondamentale che diedero alla moda tedesca: in parte perché nel dopoguerra i nuovi dirigenti occupavano i posti lasciati liberi da quelli perseguitati, uccisi o costretti a fuggire, successivamente perché se n’era persa la memoria. Inoltre, contrariamente a settori come la scienza, l’arte, la letteratura e la musica, «la moda non è documentata in modo così chiaro».
Il lavoro di riscoperta iniziò nei primi anni Novanta a partire dal primo libro sull’argomento di Uwe Westphal, pubblicato nel 1992 senza ottenere attenzione. Nel 2000 venne allestita nella Hausvogteiplatz un’installazione per ricordare i negozi distrutti mentre i loro nomi vennero scritti su delle placche sui gradini della metro; nel 2007 uscì un altro libro decisivo, Broken Threads: The Destruction of the Jewish Fashion Industry in Germany and Austria di Roberta Kremer, nel 2017 la Commissione sull’Olocausto dello stato americano della Georgia organizzò una mostra itinerante a tema, “Fashioning a Nation: German Identity and Industry, 1914-1945”.
Jandorf vuole partire dalla storia di ognuna di queste aziende per rilanciarle, sfruttando i social network e organizzando eventi come l’inaugurazione di Manheimer. Per ora vende soltanto abiti da uomo ma se andrà bene avrà anche abbigliamento da donna; i capi sono realizzati quasi tutti in Italia con tessuti di Loro Piana, tranne il Berliner Mantel, il marchio di fabbrica, che sarà confezionato a Berlino. Si può acquistare solo online, i completi costano tra i 1.000 e i 1.500 euro, le camicie in cotone 180, i cappotti in cashmere 2.500; farà concorrenza a marchi come Burberry e Caruso. Jandorf non ha fornito informazioni finanziarie ma si parla di un investimento a sette cifre. Il prossimo marchio che riaprirà, entro la fine dell’anno, è la cristalleria Josephinenhütte, fondata nel 1842.
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