Giovedì si vota nel Regno Unito
Il 12 dicembre si deciderà non solo il nuovo governo, ma anche il futuro di Brexit: i conservatori del primo ministro Boris Johnson sono dati in grande vantaggio
Giovedì 12 dicembre nel Regno Unito si voterà per le elezioni anticipate decise lo scorso ottobre. I favoriti sono i Conservatori guidati dall’attuale primo ministro Boris Johnson, mentre i Laburisti, guidati dal capo dell’opposizione Jeremy Corbyn, si trovano a circa dieci punti percentuali di distacco secondo i sondaggi. Da questo voto dipenderà non soltanto la formazione del prossimo governo britannico, ma anche il futuro della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Il conservatore Johnson, infatti, ha promesso che se vincerà il suo governo porterà a termine Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, mentre Corbyn ha promesso che se vincerà negozierà un nuovo accordo di uscita dall’Unione Europea e poi lo sottoporrà a un nuovo referendum popolare.
Brexit è la grande questione che incombe sul voto britannico, oltre che la principale ragione per cui si è arrivati alle elezioni anticipate. Da oltre un anno, infatti, i Conservatori che guidano il governo stanno tentando di far approvare al Parlamento un accordo che conduca all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ma finora non sono mai riusciti a mettere insieme la maggioranza necessaria.
Questi fallimenti hanno portato alle dimissioni della prima ministra Theresa May, a cui lo scorso 24 luglio è subentrato Boris Johnson, sostenitore di una Brexit molto più netta e dura di quella negoziata da May. Ma anche Johnson ha fallito nell’ottenere una maggioranza parlamentare con cui realizzare Brexit. Di fronte a un Parlamento oramai bloccato, Johnson non ha avuto altra scelta che chiedere nuove elezioni.
Johnson e i Conservatori hanno concentrato la loro campagna elettorale sulla necessità di portare a termine Brexit, e per questo hanno chiesto ai cittadini britannici di dare loro una maggioranza sicura con cui raggiugnere questo obiettivo (dalle ultime elezioni del 2017, invece, i conservatori governavano grazie ai voti di un piccolo partito nordirlandese). In questa campagna elettorale i conservatori hanno così adottato lo slogan “Get Brexit Done”, che potremmo tradurre in “Facciamo la Brexit”. La strategia di concentrarsi su Brexit e per di più su un’uscita netta dall’Unione per ora sembra aver funzionato. Il partito è cresciuto nei sondaggi e ha di fatto svuotato i consensi del suo principale avversario “a destra”, il Brexit Party di Nigel Farage, che con il 30 per cento dei consensi era stato il partito più votato alle elezioni europee dello scorso maggio.
Brexit ha dominato il dibattito pubblico britannico negli ultimi anni e si è tramutato nella questione più divisiva e identitaria del panorama politico britannico. Questa situazione ha messo in grosse difficoltà i Laburisti di Jeremy Corbyn. All’interno del partito, la minoranza moderata ha fatto forti pressioni affinché Corbyn facesse della permanenza nell’Unione Europea (l’opzione “Remain”) il tema principale del partito, in opposizione alla scelta fatta dai conservatori.
Ma Corbyn ha tentato fino all’ultimo di mantenere una posizione che permettesse di tenere uniti i sostenitori del “Remain” (che compongono il 90 per cento di iscritti e militanti del partito) e quelli del “Leave”, particolarmente forti nelle città dell’Inghilterra settentrionale (circa un terzo di coloro che hanno votato Labour alle ultime elezioni ha votato “Leave” al referendum su Brexit). Anche per questa ragione il partito ha subito una scissione da parte dei sostenitori del “Remain” (che però non ha avuto fortuna: il partito che ne è nato, Change UK, al momento non viene nemmeno rilevato dai sondaggi).
Secondo molti osservatori, la maggior chiarezza della posizione dei Conservatori su questo tema chiave aiuta in parte a spiegare il loro vantaggio sul Labour: mentre i Conservatori sono dati sistematicamente sopra il 40 per cento dei consensi, il Labour, anche se in crescita, è fermo pochi punti sopra il 30 per cento. Inoltre, per quanto Johnson sia uno dei primi ministri con il gradimento più basso di sempre (solo il 35 per cento dei britannici ha un’opinione positiva di lui), Corbyn è ancora più impopolare (il suo tasso di approvazione è fermo al 21 per cento).
A compensare la debolezza della sua posizione su Brexit, il Partito Laburista può contare su un programma radicale in cui viene promessa la fine dell’austerità e dei tagli degli ultimi anni, nazionalizzazioni di molti servizi privatizzati negli anni Novanta e un trasferimento di poteri verso il basso, per esempio tramite la delega di competenze alle comunità locali oppure tramite la partecipazione dei lavoratori ai consigli d’amministrazione delle imprese. Un altro tema su cui il Labour ha puntato molto è l’aumento della spesa sul servizio sanitario nazionale, l’NHS. Si tratta di un tema molto sentito nel paese, e su cui i Conservatori di Johnson si sono trovati spesso all’inseguimento del Labour.
Ma nonostante questo, la campagna elettorale e il dibattito pubblico britannici sembrano ancora ruotare intorno a Brexit. Su questo tema, una posizione molto più netta rispetto a quella del Labour è quella dei Liberal Democratici, un partito centrista il cui slogan in proposito è molto chiaro: “Stop Brexit”. I LibDem, come vengono chiamati, promettono che se andranno al governo revocheranno l’articolo 51, cioè il meccanismo dei trattati europei che ha messo formalmente in moto l’uscita del paese dall’Unione.
Anche grazie a questa posizione così chiara, alle elezioni europee i LibDem avevano ottenuto un ottimo risultato, diventando il secondo partito del paese con quasi il 20 per cento dei voti. Ma come il Brexit Party, anche loro sembrano aver perso molti consensi negli ultimi mesi (i sondaggi li danno a poco più del 10 per cento dei voti). Attualmente è sostanzialmente impossibile per i LibDem formare una maggioranza autonoma e, con ogni probabilità, per arrivare al governo dovranno passare per una difficile alleanza con i laburisti di Corbyn (che però accusano da tempo di essersi spostati troppo a sinistra).
Per avere i numeri per governare, una eventuale coalizione anti-Conservatori dovrà con ogni probabilità includere anche il Partito Nazionale Scozzese (lo SNP), un partito regionale, favorevole all’indipendenza della Scozia e alla permanenza nell’Unione Europea, con forti inclinazioni socialdemocratiche. Anche se i sondaggi danno l’SNP intorno al 4 per cento dei voti, il particolare sistema elettorale britannico, che premia i partiti che riescono a concentrare i loro voti in pochi collegi, fa sì che l’SNP sarà probabilmente il terzo o quarto partito più grande in Parlamento. Il successo o meno dello SNP è considerato da molti un indicatore sulla possibilità che nel prossimo futuro si tenga un nuovo referendum sull’indipendenza della regione. Un nuovo referendum potrebbe essere più probabile se il partito dovesse andare bene localmente e se al contempo i conservatori dovessero ottenere una netta vittoria nel resto del paese.
Le altre forze che partecipano alle elezioni difficilmente avranno un ruolo determinante il giorno del voto, anche se i loro deputati potrebbero diventare fondamentali per garantire la maggioranza al futuro governo. Tra questi abbiamo già visto il Brexit Party di Farage, che in seguito a un accordo elettorale non si presenterà nei collegi dove i conservatori rischiano di perdere ma soltanto in quelli dove può disturbare il Labour, sottraendogli i voti dei favorevoli alla Brexit.
Il Brexit Party non dovrebbe riuscire a eleggere nemmeno un deputato, così come i Verdi (entrambi i partiti sono dati sotto il 5 per cento). Una ventina di seggi, infine, saranno ottenuti dai piccoli partiti regionali di Galles e Irlanda del Nord. Il gallese Plaid Cymru potrebbe entrare a far parte di una coalizione anti-Conservatori e anti-Brexit. Il Democratic Unionist Party, il partito dei protestanti dell’Irlanda del Nord, potrebbe tornare ad allearsi con i conservatori, se questi non ottenessero una maggioranza da soli, come ha già fatto nell’attuale legislatura. Infine, come accade da oltre 20 anni, un certo numero di seggi sarà vinto dagli indipendentisti nordirlandesi dello Sinn Fein, che però rinunceranno ad occupare i loro scranni e quindi, con ogni probabilità, non parteciperanno alla vita parlamentare.