Nello Spazio ti può girare il sangue al contrario
Lo ha scoperto una ricerca condotta a 450 chilometri dalla Terra, ed è un rischio da non sottovalutare per gli astronauti e le future missioni di lunga durata
di Emanuele Menietti – @emenietti
A 450 chilometri sopra le nostre teste c’è il più grande laboratorio scientifico che l’umanità abbia mai costruito fuori dalla Terra: la Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Gli astronauti che la abitano conducono ogni giorno esperimenti e test scientifici di ogni tipo e sono loro stessi delle cavie: lo studio degli effetti dello Spazio sulla loro salute è infatti prezioso per comprendere il modo in cui il nostro organismo si adatta all’assenza di peso, in vista di missioni spaziali di lunga durata sulla Luna e forse un giorno su Marte. Ed è proprio grazie ad alcuni di questi test che i ricercatori, qui sulla Terra, hanno scoperto che gli astronauti possono soffrire di trombosi, un disturbo della circolazione sanguigna molto rischioso; questo effetto collaterale potrebbe condizionare il modo in cui gli equipaggi vivono e lavorano durante le loro missioni spaziali.
Negli ultimi anni, grazie alle missioni di lunga permanenza sulla ISS – che comportano la vita in orbita per almeno sei mesi – i ricercatori hanno scoperto molte cose sugli effetti dell’assenza di peso sul nostro organismo, passati inosservati nei decenni precedenti quando le missioni avevano una durata inferiore. Per esempio, molti astronauti tornano dall’orbita con i bulbi oculari lievemente schiacciati, il nervo ottico rigonfio e qualche conseguente problema alla vista, tanto da aver spinto la NASA a fornire occhiali con diverse gradazioni per gli astronauti che via via subiscono un peggioramento della visione. L’effetto è temporaneo e scompare dopo qualche settimana dal momento del ritorno: i ricercatori sospettano che la causa sia un accumulo di liquidi nella testa, dovuto all’assenza di peso, e alla difficoltà che incontra il nostro organismo nel farli circolare normalmente nel resto del corpo.
Il sospetto ha portato a varie ricerche scientifiche per trovare conferme sui mutamenti nella circolazione. Karina Marshall-Goebel, una ricercatrice della NASA, ha avviato insieme ad altri colleghi un programma di monitoraggio della vena giugulare degli astronauti. La giugulare (interna) si trova nel collo e ha il compito di far defluire insieme alle altre giugulari il sangue – ormai privo di buona parte dell’ossigeno – dal cervello al cuore. La sua funzione è essenziale per fare in modo che il sistema circolatorio porti sangue ossigenato ai neuroni, le cellule del cervello, e porti via i rifiuti cellulari e l’anidride carbonica.
Lo studio ha coinvolto nel complesso nove astronauti e due astronaute, i cui nomi non sono stati diffusi per motivi di privacy. Prima che partissero per la ISS nelle loro rispettive missioni, erano stati sottoposti a esami per misurare il flusso sanguigno nella loro giugulare in diverse condizioni: seduti, sdraiati e su un piano inclinato. Il test non è molto complicato da svolgere e richiede l’utilizzo di una manopola che si appoggia sul collo per effettuare un’ecografia della giugulare. Tutti i partecipanti avevano superato l’esame senza problemi sulla Terra, indicando un corretto afflusso di sangue attraverso la vena, uno dei vasi sanguigni più grandi che passano per il collo.
Le cose sono andate diversamente sulla Stazione Spaziale Internazionale, dove gli astronauti avevano il compito di ripetere periodicamente l’esame per valutare eventuali variazioni, guidati dai ricercatori sul nostro pianeta. In cinque astronauti su undici è stato riscontrato un ristagno di sangue: in alcuni casi fluiva lievemente verso il cuore per poi invertire il senso e tornare verso il cervello. È raro che una condizione di questo tipo si verifichi nella giugulare, mentre talvolta può accadere nelle vene delle gambe: è per esempio un problema per chi affronta lunghi viaggi aerei restando seduto molte ore.
Quando il sangue ristagna in un vaso si può formare un trombo, una massa solida che si forma sull’endotelio, la superficie interna dei vasi sanguigni. La permanenza e le turbolenze nel flusso fanno sì che le componenti fibrose del sangue restino a lungo a contatto con l’endotelio, facendo attivare i processi che portano alla coagulazione. Di solito il problema si risolve da sé grazie ad altre sostanze che favoriscono lo scioglimento dei trombi, evitando che diventino grandi e pericolosi per la salute. Se un trombo non si scioglie completamente, può staccarsi dall’endotelio, proseguire il viaggio nei vasi sanguigni e fare danni anche gravi ad alcuni organi, come i polmoni (embolia polmonare).
Come spiegano i ricercatori nel loro studio, in due casi il sangue degli astronauti ha iniziato a scorrere al contrario, dal cuore verso il cervello. L’ipotesi è che l’inversione sia avvenuta a causa di un trombo che impediva il normale flusso venoso verso il cuore, una circostanza che si può verificare anche sulla Terra in particolari condizioni di trombosi. Marshall-Goebel ha usato un’efficace analogia spiegando il fenomeno all’Atlantic: “È quasi come una deviazione, di quelle che capita di fare quando stai guidando e devi andare in direzione opposta per poi arrivare dove volevi andare”.
In un caso, un astronauta stava eseguendo il test guidato da Terra quando è stata rilevata la presenza di un trombo. Sono quindi intervenuti i medici della NASA per ulteriori accertamenti a distanza: l’astronauta non aveva particolari sintomi, ma per precauzione gli sono stati prescritti farmaci anticoagulanti da assumere per il resto della sua permanenza in orbita.
Sempre nell’ambito della loro ricerca, Marshall-Goebel e colleghi hanno chiesto agli astronauti di indossare le tute russe Chibis, dotate di particolari pantaloni con un aspiratore per creare una decompressione nelle gambe, in modo da contrastare l’eccessivo afflusso di sangue verso la testa. Le tute hanno contribuito a migliorare la circolazione sanguigna in alcuni astronauti, ma in altri casi non si sono dimostrate molto efficaci nel ridurre i problemi rilevati a livello della giugulare.
Tutti gli astronauti, una volta tornati sulla Terra in condizioni normali di gravità, sono progressivamente migliorati tornando alle condizioni pre-partenza. Secondo i ricercatori, questo è un ulteriore segno del fatto che sia l’ambiente spaziale a condizionare l’afflusso di sangue e a contribuire alla formazione di trombi.
Marshall-Goebel non nasconde di essersi preoccupata quando ha visto i primi dati, ma sempre sull’Atlantic ha ricordato che gli studi come il suo servono proprio a valutare potenziali rischi e a capire come attenuarli: “Penso sia stato preoccupante per tutti. Ma penso anche che il fatto di averlo scoperto sia una cosa molto molto positiva: sapendo che si tratta di un fattore di rischio per i viaggi spaziali, diventa qualcosa che può essere tenuto sotto controllo e per il quale si può fare prevenzione”.
Ulteriori ricerche potrebbero evidenziare differenze nell’incidenza del problema tra astronauti e astronaute. Alcune di loro preferiscono assumere la pillola contraccettiva mentre sono in missione, in modo da non avere problemi con il ciclo. La pillola può favorire la formazione di trombi, e quindi le astronaute che la utilizzano potrebbero essere esposte a qualche rischio in più.
Alla luce degli esiti della ricerca, la NASA sta valutando l’avvio di un programma per tenere sotto controllo gli astronauti in orbita, con periodiche analisi per rilevare rischi associati alla trombosi. I medici di volo hanno inoltre stabilito che sulla ISS siano sempre presenti farmaci anticoagulanti e altri medicinali per trattare eventuali problemi.
Lo studio di Marshall-Goebel e colleghi dimostra quanto ci sia ancora da scoprire sugli effetti dello Spazio sul nostro organismo. Il maggior rischio di soffrire di trombi ha probabilmente accompagnato tutti i protagonisti delle esplorazioni spaziali con esseri umani, e non possiamo escludere che senza saperlo avesse interessato anche i primi astronauti che raggiunsero la superficie della Luna 50 anni fa. Seppure confinate in un’orbita di “appena” 450 chilometri dalla Terra, le missioni spaziali odierne durano molto di più di quelle condotte dalle missioni Apollo a 380mila chilometri e questo espone l’organismo a maggiori sollecitazioni, alcune delle quali ancora da comprendere pienamente.
Grazie alle procedure di emergenza sviluppate dalle agenzie spaziali, un astronauta che avesse seri problemi di salute potrebbe essere riportato sulla Terra in poche ore dalla Stazione Spaziale Internazionale. Le cose sarebbero invece più complicate per gli astronauti che un giorno vivranno nella stazione orbitale che la NASA progetta di costruire intorno alla Luna, e in un futuro più remoto su Marte. Il loro rientro richiederebbe giorni di viaggio nel primo caso e mesi nel secondo, rendendo quindi necessari interventi direttamente nello Spazio. Gli astronauti sono comunque formati per affrontare tutte le principali emergenze sanitarie durante le loro missioni, e possono contare sull’assistenza a distanza dei medici di volo. Non siamo fatti per lo Spazio e il nostro organismo prova spesso a ricordarcelo, ma tutto sommato ce la caviamo piuttosto bene.