Jay-Z ha portato l’hip hop ovunque
Compie oggi 50 anni il rapper che più di ogni altro ha reso il genere un fenomeno mondiale, partendo da una casa popolare di Brooklyn
di Stefano Vizio
Il 4 dicembre 1969, cinquant’anni fa, a Brooklyn nacque Shawn Corey Carter, che più o meno tre decenni dopo sarebbe diventato il più famoso rapper della costa est degli Stati Uniti con il nome d’arte di Jay-Z. Nella sua carriera ha inciso alcuni dei dischi più venduti della storia dell’hip hop, è diventato metà di quella che è stata a lungo la coppia più potente dello show business americano, e ha costruito un impero imprenditoriale che lo ha reso il primo rapper miliardario.
Soprattutto, Jay-Z è stato uno degli artisti che – tra gli anni Novanta e i Duemila – rese definitiva la trasformazione del rap da musica della comunità urbana afroamericana a fenomeno globale, portando a compimento un processo – sociale, culturale ed economico – che era cominciato qualche anno prima ma che soltanto con lui e pochi altri colleghi suoi contemporanei arrivò alla fase della maturità, con conseguenze la cui portata è diventata chiara soprattutto nell’ultimo decennio, quello in cui l’hip hop si è preso definitivamente la musica mainstream.
Jay-Z crebbe nelle Marcy Houses, un complesso di case popolari in mattoni oggi in una delle zone più alla moda di New York, che allora era molto più povera e problematica. Suo padre abbandonò la famiglia quando lui aveva 11 anni, dopo un periodo di alcolismo dovuto alla morte dello zio, accoltellato per strada. Jay-Z fu cresciuto insieme ai suoi fratelli dalla madre, ma appena fu grande abbastanza cominciò a spacciare, una delle poche strade disponibili per un ragazzo nero di Brooklyn negli anni Ottanta. Ma Jay-Z aveva la passione per la musica, e cominciò presto a fare freestyle – cioè a rappare strofe improvvisate sul momento – sulle basi di uno stereo che si era fatto regalare per un compleanno.
Era amico di un tipo grosso e un po’ malinconico di origini giamaicane, che all’epoca si chiamava Christopher George Latore Wallace ma che si sarebbe fatto conoscere nel giro di pochi anni con il nome di Notorious B.I.G. Entrambi partirono facendosi notare nel quartiere improvvisando per strada o esibendosi per pochi minuti nelle serate nei club, facendosi pian piano adocchiare dai rapper già affermati di Brooklyn. Il mentore di Jay-Z diventò quello che era il suo idolo, Jaz O, al quale si era ispirato per il suo nome d’arte, dovuto anche al fatto che da ragazzo gli amici lo chiamavano “Jazzy”. Jaz O era una celebrità locale e lo tirò dentro alcune sue canzoni: come “The Originator” del 1990, che sarebbe effettivamente stata l’origine del successo di Jay-Z.
Fu evidente a tutti che Jay-Z era un talento speciale: aveva vent’anni ma rappava come uno che lo faceva da una vita, e aveva una rara sensibilità per le parole. Era un tipo tranquillo, ma dotato di grande ironia e capace di dire sempre qualcosa di acuto, cosa che emergeva nei freestyle, che diventarono presto il suo pezzo forte. Con la guida di Jaz O e poi di altri rapper che lo fecero esibire con sé, scoprì in fretta di essere un performer carismatico.
Le sue capacità erano evidenti a chi affollava i locali di Brooklyn per vederlo dal vivo, ma non convincevano le etichette discografiche che non gli offrirono nessun contratto: per questo Jay-Z tornò a spacciare. Fece un po’ di soldi, e non fu facile per i suoi amici convincerlo a riprendere con la musica. Alla fine però ci riuscirono, e lo spinsero a usare quei soldi per farsene una da solo, di casa discografica: con i suoi amici Damon “Dame” Dash e Kareem “Biggs” Burke fondò la Roc-A-Fella Records, con la quale nel 1996 pubblicò il suo primo disco, Reasonable Doubt. Anni più tardi avrebbe detto che «la cosa geniale che facemmo fu non mollare. Usammo l’approccio “cosa ne sanno loro”».
A New York Reasonable Doubt fu un successo pazzesco, perché mise subito in chiaro quello che Jay-Z era più bravo a fare: unire il rap più duro e puro, quello dei locali afroamericani delle periferie povere e del freestyle della strada, a un gusto musicale più mainstream e trasversale, con grandi potenzialità commerciali. I testi delle sue canzoni erano autentici, parlavano delle esperienze quotidiane di milioni di ragazzi neri e arrivavano chiaramente da uno che quelle cose le aveva vissute, e che sapeva raccontarle. Jay-Z usava metafore sofisticate, giochi di parole articolati e doppi sensi originali, ma univa queste qualità più intellettuali alla sfrontatezza di chi aveva fatto i soldi – ancora pochi, all’epoca – partendo da zero. Alla fine dei suoi concerti lui, Dash e Burke, che lo accompagnavano ovunque, lanciavano centinaia di dollari sul pubblico, e si atteggiavano a “re del quartiere”.
Lo stavano effettivamente diventando, i re del quartiere, anche perché nel 1997 quello che era riconosciuto come il miglior rapper della costa est degli Stati Uniti era stato ucciso per via di una delle rivalità più celebri e assurde della storia dell’hip hop: pochi mesi dopo la morte di Tupac, Notorious B.I.G. fu ucciso a colpi di pistola mentre era a Los Angeles. Jay-Z ne uscì distrutto, ma la morte del suo amico significava anche che si era liberato il posto come rapper che rappresentasse New York.
Jay-Z firmò quindi con la Def Jam, la più celebre etichetta hip hop dell’epoca, fondata quasi 15 anni prima da Russell Simmons e Rick Rubin. A occuparsi del suo secondo disco fu Sean Combs, cioè Puff Daddy, che allora aveva appena debuttato come rapper con enorme successo, ma che fino a pochi mesi prima era ancora noto soltanto come produttore. Non era un gran periodo per Jay-Z: In My Lifetime, Vol. 1 fu un disco storto e di cui si sarebbe in buona parte pentito. Le canzoni e i video erano decisamente più commerciali e “patinati”, e a molti sembrò che Jay-Z si fosse già perso per il rapido successo e per la troppa voglia di far soldi. Si sbagliavano.
L’anno dopo, infatti, Jay-Z pubblicò Vol. 2… Hard Knock Life, un disco apprezzatissimo e che vendette un sacco tanto da finire subito in cima alla classifica di Billboard. Le basi erano ricercate, ma erano accompagnate da ritmi martellanti e a tratti pesanti, come quelli sui quali aveva cominciato a fare freestyle. I testi tornarono a parlare della cosa che conosceva meglio, cioè la vita nel ghetto, ma lo facevano senza l’artificiosità e l’arroganza ormai stantie del gangsta rap, quello con il quale i rapper degli anni Ottanta avevano raccontato le proprie vite criminali ma che ormai aveva fatto il suo corso, sulla costa Est come in quella Ovest.
Il disco andò benissimo e rese Jay-Z una celebrità anche fuori da New York. Nel 1999 collaborò con Mariah Carey, poi pubblicò altri due dischi che andarono molto bene, uno dei quali era stato diffuso illegalmente in anteprima con un bootleg. La sera del primo dicembre 1999, Jay-Z era alla festa per la pubblicazione di un disco del rapper Q-Tip, quando incontrò il produttore che sapeva avere distribuito il suo disco in anticipo. Ci litigò, e si infuriò così tanto che – ha raccontato lui – perse la ragione e lo accoltellò. Il produttore lo denunciò la sera stessa. Jay-Z fu condannato a tre anni di prigione per aggressione, ma evitò il carcere per la condizionale.
Nello stesso periodo Jay-Z fece un’altra cosa fondamentale per un rapper degli anni Novanta e Duemila: iniziò una rivalità. Cominciò a litigare con Nas, altro grande rapper quasi suo coetaneo, con il quale si stava contendendo il titolo di rapper più importante di New York. Si sarebbero insultati nei testi delle loro canzoni per anni, prima di risolverla pubblicamente con un’esibizione insieme nel 2005.
L’11 settembre 2001, poche ora prima che due aerei abbattessero le Torri Gemelle cambiando la storia della sua città, Jay-Z fece uscire The Blueprint. Ancora oggi è considerato da praticamente tutti il suo disco più bello, nonché uno dei più importanti della storia dell’hip hop. Fu scritto e registrato piuttosto in fretta, e per l’occasione fu assoldato un giovane produttore di Chicago dal carattere introverso e vagamente lunatico, che da anni era noto nell’ambiente per le sue grandi basi: si chiamava Kanye West e stava maturando il sogno di diventare a sua volta un rapper. Jay-Z, che all’inizio era piuttosto scettico, lo avrebbe poi aiutato negli anni successivi a iniziare la sua carriera, che sarebbe diventata una delle più controverse della storia recente dell’hip hop.
The Blueprint diede una nuova spinta e un nuovo senso alla carriera di Jay-Z, che sembrava aver perso la carica creativa e l’originalità degli esordi. In parte per l’influenza di West, fu uno dei primi dischi hip hop a recuperare l’uso di sample soul, che da anni erano stati sostituiti da basi più ritmate e allineate con i gusti degli anni Novanta, il decennio della musica house e della jungle.
Con Blueprint, la sua carriera entrò in una fase nuova, quella del successo planetario e delle collaborazioni con i più importanti artisti del pop americano. Soprattutto afroamericani, ma non solo: una delle sue canzoni più famose, “Numb/Encore”, la fece proprio in questo periodo con i Linkin Park. E sempre negli anni successivi a Blueprint, Jay-Z conobbe Beyoncé, che con lui registrò il singolo che lanciò la sua carriera da solista dopo la prima fase nelle Destiny’s Child, “’03 Bonnie & Clyde”. Andò talmente bene che ne fecero subito un altro, che sarebbe diventato una delle canzoni pop più famose del decennio: “Crazy in Love”. Si piacquero, si frequentarono, e anni più tardi si sposarono diventando una delle coppie più celebri del mondo, e per un periodo anche la più ricca dello show business americano.
Nella seconda metà dei Duemila, Jay-Z diventò una specie di azienda. Era il rapper più famoso del momento, e da anni aveva trasformato la Roc-A-Fella da etichetta discografica a marchio vero e proprio, con una propria linea di abbigliamento che vendette nel 2006 facendoci più di 200 milioni di dollari. Iniziò così la sua carriera da imprenditore, che con fortune alterne lo ha portato a possedere tra le molte cose un pezzo di una squadra di basket NBA, i Brooklyn Nets, un servizio di streaming musicale, Tidal, un’agenzia che rappresenta sportivi in mezzo mondo, e interessi milionari in un sacco di settori diversi.
Jay-Z raccolse l’eredità di quei rapper come i Public Enemy, Tupac, Notorious B.I.G. e Dr. Dre, che avevano trasformato l’hip hop da musica della comunità urbana afroamericana a fenomeno di massa. Ma fu soltanto negli anni Duemila, con i successi suoi e di altri artisti come Nas, 50 Cent ed Eminem, che l’hip hop diventò un vero fenomeno mainstream e di rilevanza mondiale.
Quando cominciò Jay-Z, l’hip hop non doveva più dimostrare la propria dignità musicale e la propria importanza sociale, e quindi fece il salto successivo, diventando un mezzo culturale di influenza enorme, capace di dettare l’agenda su cosa fosse alla moda e cosa no, con conseguenze in molti settori diversi e da cui cominciarono a dipendere grandi interessi economici. Iniziò quel processo, che sarebbe stato poi portato avanti da Kanye West e concluso, tra gli altri, da Drake, con il quale il rap è arrivato ovunque, arrivando a essere il genere musicale più ascoltato al mondo e, in un certo senso, diventando la nuova musica pop.
Come ha spiegato a Forbes Kasseem “Swizz Beatz” Dean, produttore dietro grandi successi di molti rapper, Jay-Z diventò «più grande dell’hip hop. È il modello per la nostra cultura, la sua espressione . Un tipo che ci assomiglia, che canta come noi, che ci ama, e che è arrivato a essere qualcosa che ci era sempre sembrato sopra di noi». Jay-Z mostrò che quello che era da sempre uno dei pilastri della cultura hip hop, cioè l’emancipazione sociale raggiunta attraverso il successo economico, poteva essere portato a livelli mai immaginati in precedenza.
Nel 2008 Jay-Z diventò il primo rapper ad esibirsi al festival inglese di Glastonbury, roccaforte del rock vecchia scuola, e nel 2011 ridefinì il concetto di collaborazione tra rapper con il disco Watch the Throne, che registrò insieme a Kanye West mettendo insieme due delle più grandi star dell’hip hop. Per un po’ sembrò seduto sui suoi successi, quando nel 2013 pubblicò Magna Carta Holy Grail, un disco riuscito un po’ a metà ma che vendette comunque milioni di copie. Ma quando ormai a qualcuno sembrava avesse detto tutto quello che doveva dire, nel 2017 pubblicò 4:44, un disco acclamato dalla critica con il quale dimostrò di essere ancora tra i migliori del mondo a raccontare l’identità afroamericana.
4:44 ha in un certo senso ufficializzato la nuova fase della carriera di Jay-Z, quella di vecchio saggio dell’hip hop, amico di Barack Obama, portavoce delle battaglie per i diritti civili degli afroamericani e disinvolto nel farsi intervistare dal direttore del New York Times. Nel 2018 ha fatto un disco dimenticabile con Beyoncé, che è stato l’occasione per un monumentale tour, a quattro anni dall’ultima volta in cui avevano girato gli stadi del mondo insieme. Poco tempo prima, dopo anni di relativa riservatezza, il loro matrimonio aveva attraversato una fase scandalistica quando Beyoncé denunciò nel suo disco Lemonade il tradimento di lui con una certa “Becky dai bei capelli”. Ma le cose oggi sembrano risolte, anche perché nel frattempo nel 2017 lei e Jay-Z hanno avuto una coppia di gemelli – Rumi e Sir – che si sono aggiunti alla loro prima chiacchieratissima figlia, Blue Ivy, nata nel 2012.