I movimenti senza leader
Ce ne sono in mezzo mondo, proprio in questi giorni: e l'assenza di una gerarchia interna è in qualche modo intrinseca alle lotte che portano avanti
Da settimane le notizie dei giornali di tutto il mondo sono piene di storie accomunate dal coinvolgimento di movimenti di protesta che hanno portato tantissime persone per le strade. Anche se le mobilitazioni sono nate da motivi differenti, a seconda del contesto, hanno tra loro un elemento comune: la mancanza di chiari leader. È così a Hong Kong, in Cile, in Iraq, nel Libano e altrove. L’uso dei social media ha avuto un ruolo significativo, ovviamente, contribuendo all’assenza di personalizzazioni: ma la mancanza di una gerarchia interna è in qualche modo intrinseca ai movimenti stessi, e non è casuale né senza precedenti.
Accanto ai movimenti nati intorno a precise rivendicazioni, che si potrebbero genericamente (e semplicisticamente) definire anti-governativi o anti-sistema, ci sono poi movimenti con rivendicazioni più larghe e progetti più radicali, per i quali la condivisione dei processi decisionali e la cosiddetta orizzontalità sono una pratica sostanziale tanto quanto i contenuti che portano avanti: vale per i movimenti femministi, per quelli ambientalisti o per i progetti rivoluzionari di Kurdistan e Chiapas (in quest’ultimo caso almeno da un certo punto in poi) .
Le proteste degli ultimi mesi
La giornalista dell’Atlantic Yasmeen Serhan si è occupata del primo caso, e si è chiesta quanto questi movimenti di protesta anti-governativi possano durare. E ancora se non rischiano forse, senza che dietro ci sia un partito, un gruppo o un’organizzazione di qualche tipo, di trasformarsi in qualcosa che nemmeno chi vi prende parte può controllare. La mancanza di una leadership centralizzata è una fonte di debolezza o di forza?
Nella maggior parte dei casi, le proteste sono iniziate da questioni specifiche, ma si sono poi allargate anche sul piano dei contenuti. In Cile, per esempio, erano cominciate a metà ottobre dopo l’approvazione di una legge che aumentava il prezzo del biglietto della metropolitana della capitale Santiago, ma stanno continuando ancora oggi e nel frattempo si sono concentrate sulle grandi diseguaglianze economiche del paese e sulla richiesta di una nuova Costituzione. A settembre in Indonesia le mobilitazioni erano nate dall’approvazione in parlamento, senza alcun dibattito pubblico, di un disegno di legge che limitava i poteri della commissione anti-corruzione del paese. Anche qui si sono poi allargate contro le posizioni governative sempre più conservatrici e repressive.
A Hong Kong, poi, il movimento è arrivato al suo sesto mese di mobilitazione. Nonostante il ritiro da parte del governo dell’emendamento sull’estradizione che aveva fatto iniziare le proteste, le richieste del movimento sono cresciute (così come la violenta repressione). In Francia la prima manifestazione dei gilet gialli venne organizzata sabato 17 novembre 2018 contro l’aumento del prezzo del carburante e il loro primo anniversario è stato “celebrato” per le strade di tutta la Francia qualche giorno fa (nonostante l’affluenza rispetto al passato si sia notevolmente ridotta).
Poi c’è l’Iraq, dove da metà ottobre si protesta contro il governo e le pessime condizioni economiche in cui si trovano molti iracheni: finora sono state uccise almeno 250 persone negli scontri, ma nonostante le violenze e il controverso intervento dell’Iran le manifestazioni proseguono. In Libano le persone sono per le strade dalla metà di ottobre e non si sono fermate né dopo l’approvazione di alcune riforme né dopo le dimissioni del primo ministro Saad al-Hariri. E ci sono anche le mobilitazioni di Haiti, Egitto, Bolivia, Papua e Papua Occidentale.
Senza leader e non settari
In molti dei paesi citati qui sopra, le rivendicazioni sono state portate avanti in modo comune da persone di diversi orientamenti politici e ideologici: studenti, operai, agricoltori, donne, pescatori, attivisti vari, singoli cittadini e movimenti di opposizione che fino a poco tempo fa si mobilitavano separatamente. Per questo si è parlato di movimenti di protesta “non settari”, in contrasto con i sistemi politici prevalenti in alcuni di quei paesi, come Libano e Iraq, basati su accordi di condivisione del potere che dividono il governo (e, per estensione, la società tutta) tra diversi gruppi etnico-religiosi.
La natura senza leader di queste proteste non è casuale, né senza precedenti. «Prima che la politica diventasse populista, lo sono diventati i movimenti sociali», dice Paolo Gerbaudo, sociologo e esperto di comunicazione politica del Centro di Ricerca sulla Cultura Digitale al King’s College di Londra. Secondo Gerbaudo, citato dall’Atlantic, le proteste senza leader di oggi ricordano quelle iniziate quasi un decennio fa, come Occupy Wall Street del 2011 o le manifestazioni anti-austerità di Grecia e Spagna dello stesso anno. «Questi movimenti non fanno appello a categorie specifiche. Si rivolgono a tutti i cittadini che si sentono traditi dalla classe politica». Sono populisti nel senso che intendono rappresentare gli interessi della popolazione contro quelli dell’establishment e delle cosiddette élite (“Tutti loro significa tutti loro”, è uno slogan delle proteste in Libano).
Il successo di queste proteste può essere attribuito in gran parte ai social media, che hanno permesso a chi vi prende parte di comunicare e di organizzarsi in modo decentralizzato. «La tecnologia consente l’assenza di leader in un modo che prima non era possibile», ha detto all’Atlantic Carne Ross, autore di un libro sul tema: «Tecnologia significa che non c’è bisogno di un leader per diffondere la strategia. La strategia si diffonde in senso orizzontale». Ma i social restano uno strumento: hanno sì permesso di schivare il concetto tradizionale di leadership, ma per molti di questi movimenti la mancanza di leadership è un punto centrale. Per vari motivi: nominare dei leader rende più facile per i governi «concentrarsi su di loro, eliminarli, arrestarli, ucciderli, denigrarli», ha spiegato Ross, quindi le proteste senza leader sono più difficili da reprimere («Sii informe, senza limiti come l’acqua», dicono i manifestanti di Hong Kong citando Bruce Lee), ma soprattutto molte di queste proteste si posizionano esplicitamente contro l’accentramento del potere nelle mani di pochi: «Per definizione, questi movimenti saranno insensibili a qualsiasi concentrazione di potere all’interno dei propri stessi ranghi».
La mancanza di un leader, prosegue l’Atlantic, non è però priva di difetti e conseguenze problematiche. Il movimento francese dei gilet gialli ha subito una divisione all’inizio di quest’anno tra coloro che hanno preferito continuare le manifestazioni di strada e coloro che hanno cercato di formalizzare il movimento stesso candidandosi alle elezioni europee (non ha funzionato). Più di recente si è creata una divisione anche nei metodi, tra coloro che vogliono protestare pacificamente e chi è invece disposto a pratiche di resistenza più violente. «Nei movimenti senza leader, c’è ovviamente il pericolo che le minoranze utilizzino tattiche che non sono supportate dalla maggior parte dei manifestanti», ha detto Ross.
Le proteste sono state represse indipendentemente dal fatto che avessero o meno una leadership, ma la mancanza di leader può essere diventata problematica proprio perché mancavano indicazioni precise su come affrontare la polizia, i militari e le autorità in generale durante gli scontri. Gerbaudo pensa che i movimenti di protesta «per loro stessa natura» non siano «sostenibili a lungo», in gran parte a causa della quantità di energia e dell’impegno necessari per mantenerli vivi. A differenza dei partiti e delle organizzazioni ufficiali, «non hanno le strutture burocratiche che li farebbero andare avanti». Per Gerbaudo, comunque, «non ci si dovrebbe aspettare dai movimenti sociali ciò che i movimenti sociali non possono offrire»: non è il loro lavoro risolvere i problemi che li hanno creati. Piuttosto, il loro obiettivo è «sollevare domande che non erano in precedenza nell’agenda politica e mostrare che esiste una grande parte della popolazione che non si sente rappresentata».
Senza leader e con un progetto politico più strutturato
Accanto a questi movimenti di protesta, sebbene facciano meno notizia, ci sono poi movimenti o progetti politici più radicali e strutturati per i quali l’assenza di leader e una forma decisionale ben organizzata, ma diffusa e condivisa, sono pratiche sostanziali e si riflettono nei contenuti e negli obiettivi delle lotte stesse. Non solo: la loro intersezionalità non è una conseguenza del malcontento diffuso, ma era presente fin dall’inizio o è subentrata a un certo punto, come punto politico comunque centrale. Il fatto dunque di unire la lotta all’autoritarismo, al razzismo, all’omotransfobia, al sessismo, alla lotta di classe, alla lotta sul lavoro, al capitalismo e all’anticolonialismo ha portato questi movimenti a intersecare diverse questioni, e diventare degli spazi politici ampi e ambiziosi che sono stati in grado di lavorare – in modo non occasionale ma duraturo – non solo sul fronte di un’opposizione contingente, e non tanto su quello di una richiesta di cambiamento (di leggi o di governi), ma soprattutto su quello della proposta e della sua autonoma messa in pratica.
Vale per esempio per i movimenti femministi che oggi riempiono piazze e strade di mezzo mondo: non hanno leader né portavoce, nella maggior parte dei casi sono organizzati in modo diffuso attraverso nodi territoriali connessi tra loro a livello nazionale e transnazionale, hanno processi decisionali assembleari che non passano attraverso la conta dei voti ma il consenso, hanno processi di scrittura collettiva e proposte alternative che spesso praticano concretamente (basti citare le case delle donne contro la violenza maschile, le cooperative di produzione, i consultori autogestiti o le varie pratiche mutualistiche).
Ma vale anche per il progetto del Confederalismo democratico del Kurdistan, realizzato attraverso un sistema di autogoverno fondato su femminismo, ecologismo, democrazia diretta e municipalismo. Nel Confederalismo democratico (che ha un ispiratore, Abdullah Öcalan, ma che non ha leader) la vita collettiva, dall’amministrazione alla giustizia, dall’autodifesa all’economia, dalla scuola alla sanità, viene decisa e gestita in assemblee e consigli popolari locali in cui ciascuno è chiamato a “fare politica”.
Vale infine per il movimento rivoluzionario degli indigeni messicani, che in Chiapas si sono riappropriati di territori che gestiscono in modo autonomo. Il movimento dei guerriglieri era guidato da un insegnante universitario non indio, il “subcomandante Marcos” (che si definiva sottocomandante perché obbediva alla sua gente) che con il suo passamontagna e la sua pipa è diventato una specie di icona globale e che ancora oggi viene citato come leader del movimento. Nel 2014, per decisione collettiva, il subcomandante Marcos smise però di essere la voce del movimento zapatista («La mia immagine pubblica è diventata una distrazione», disse). Scrisse un lungo comunicato in cui annunciò la fine del sistema che promuove «il culto dell’individuo a scapito del collettivo. Noi, gli zapatisti e le zapatiste, abbiamo creato il personaggio, noi lo distruggiamo».
Al di là della funzionalità che per un certo periodo – e per gli zapatisti stessi – ha avuto l’immagine del subcomandante Marcos, il loro progetto politico si basa soprattutto su una gestione civile e pubblica dove l’economia, la giustizia, l’istruzione, la sanità e il lavoro passano attraverso le Giunte del Buon Governo, organi composti da civili che ancora oggi amministrano a rotazione la vita nelle comunità in autonomia, secondo i principi non capitalistici e il principio del «comandare obbedendo» (obbedendo al popolo, anche in questo caso). All’interno di queste comunità vengono organizzati incontri internazionali, festival dedicati all’arte, alla scienza e al femminismo, insieme a movimenti provenienti da tutto il mondo.