La battaglia di Seattle
Vent'anni fa una delle prime manifestazioni del movimento no-global fece parlare di sé soprattutto per le violenze della polizia e dei "black bloc"
Vent’anni fa, il 30 novembre 1999, si tenne a Seattle, negli Stati Uniti, una grossa manifestazione di protesta che secondo molti portò alla nascita del movimento internazionale dei no-global, cioè degli attivisti contro la globalizzazione economica e sociale che si stava avviando in quegli anni. Ma nei giorni immediatamente successivi i giornali e le tv non parlarono delle conseguenze astratte della protesta, ma delle violenze della polizia nei confronti dei manifestanti perlopiù pacifici – che portarono alle dimissioni del capo della polizia della città – e del vandalismo della frangia più estrema, i cosiddetti black bloc.
Il movimento contro la globalizzazione era nato diversi anni prima, quando i primi osservatori notarono che l’apertura non regolata dei mercati e delle frontiere avrebbe potuto aumentare le diseguaglianze, soprattutto nei paesi più ricchi, e più in generale introdurre notevoli squilibri nei modelli economici e sociali del mondo sviluppato. A quel tempo il mondo politico – anche quello progressista – tendeva a sottolineare soltanto gli aspetti positivi della globalizzazione, come una maggiore interconnessione fra i paesi che ne beneficiavano.
I suoi critici non avevano ancora trovato il modo di rendersi visibili, ma le cose stavano per cambiare. A cavallo fra novembre e dicembre del 1999 l’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), la principale organizzazione internazionale che promuove il libero mercato, aveva organizzato il biennale convegno dei suoi dirigenti allo State Convention and Trade Center di Seattle. Il convegno era stato programmato con largo anticipo e gli attivisti anti-globalizzazione si organizzarono di conseguenza. In un articolo di qualche anno fa pubblicato dall’Atlantic, l’economista Noah Smith ricorda che fra gli organizzatori delle proteste c’era un po’ di tutto:
«Sindacati preoccupati dalla competizione sleale dalla manodopera straniera a basso costo, ambientalisti critici verso la pratica di dare in appalto le lavorazioni inquinanti, gruppi di protezione dei consumatori preoccupati dalle importazioni che violavano gli standard di sicurezza, attivisti per i diritti dei lavoratori turbati dalle cattive condizioni di lavoro negli altri paesi, e attivisti di sinistra di varie sfumature interessati a sfogare la loro rabbia contro il capitalismo»
Jamie McCallum, un sociologo che quel giorno partecipò alle proteste, di recente ha raccontato la sua esperienza sulla rivista Prospect: già alle 7.30 di mattina «gli attivisti avevano occupato l’intero centro della città, riuscendo a impedire ai delegati del WTO di partecipare alle loro riunioni, e in alcuni casi persino di lasciare i propri hotel. Ci incatenammo l’uno all’altro: eravamo un unico muro umano, una manifestazione fisica della solidarietà alla fine del millennio». Si stima che alla manifestazione parteciparono circa 40mila persone, delle quali circa 10mila impedivano l’accesso al Paramount Theatre and Convention Center, dove erano programmate molte delle riunioni. I manifestanti riuscirono persino a impedire la partecipazione di Kofi Annan, allora segretario generale dell’ONU, alla sessione inaugurale del convegno.
Più o meno a metà giornata le cose sfuggirono di mano. La polizia di Seattle fu sopraffatta dal numero e dall’efficacia della protesta, e iniziò a usare gas lacrimogeni, manganelli e proiettili di gomma sui manifestanti, piuttosto indiscriminatamente. Il Seattle Magazine ancora oggi racconta di «cassonetti in fiamme, polizia in tenuta antisommossa che prende di mira una folla largamente pacifica, finestre rotte e distributori di quotidiani usati come arieti o barricate». Anche l’allora ministro del Commercio britannico Stephen Byers raccontò al Guardian di essere stato preso di mira dal gas lacrimogeno. Non esistono statistiche precise su feriti e arrestati, ma le violenze furono tali che ancora oggi viene ricordata più come una “battaglia” che come una manifestazione.
Le autorità cittadine si spaventarono molto: il governatore dello stato dichiarò lo stato di emergenza e nei giorni successivi furono indetti parecchi coprifuoco e zone dove le proteste erano proibite. Ancora oggi alcuni abitanti si ricordano di essere rimasti a casa dal lavoro, su invito dei propri superiori.
Nella battaglia di Seattle si fecero notare anche i black bloc, il gruppo di anarchici che non era ancora noto con quel nome (il Washington Post li definì «persone che indossavano indumenti neri e maschere da sci»). Nonostante fossero poche decine, i black bloc si distinsero per la violenza delle loro proteste: fra le altre cose attaccarono una gioielleria e un negozio della catena Gap, spaccarono le vetrine di un McDonald’s e minacciarono i giornalisti che tentavano di filmarli.
Il presidente statunitense Bill Clinton tentò di mediare fra i manifestanti e i delegati del WTO, spiegando che «dovremmo aprire il processo decisionale a tutte le persone che stanno là fuori», ma il convegno fu praticamente smantellato per i troppi disagi. Nei giorni seguenti le manifestazioni continuarono, scemando progressivamente. Il 6 dicembre il capo della polizia di Seattle si dimise affermando di avere la piena responsabilità per le decisioni prese durante il picco delle proteste.
Negli anni successivi il movimento no-global sarebbe cresciuto fino a diventare enorme e capace di notevoli dimostrazioni di forza, come le manifestazioni a Genova del 2001 contro il G8. Seattle invece rimase più o meno la stessa, scrive il Seattle Magazine. All’epoca la città venne scelta dal WTO per la sua attenzione alle imprese e al libero commercio – nei pressi della città ha sede la Boeing, e nei dintorni ci sono ancora oggi moltissimi agricoltori – ma se non altro la battaglia del 30 novembre 1999 dimostrò che la città «ha visioni contrastanti, come lo yin e lo yang: un posto dove le imprese sono a loro agio, con una tradizione di proteste e di inclinazione a sinistra», conclude il Seattle Magazine.