Spotify sta puntando forte sui podcast
Ne parliamo soprattutto per la musica ma da qualche tempo sta investendo molto anche nei contenuti parlati, dove c'è molto più spazio per crescere
Spotify è il più grande servizio di streaming musicale al mondo, con 113 milioni di abbonati e quasi 250 milioni di utenti mensili, che possono scegliere tra più di 50 milioni di canzoni. Nonostante il settore della musica in streaming sia molto complesso e nonostante la concorrenza di aziende grandi e potenti come Apple, Amazon e Google – tutte e tre con un loro servizio di streaming musicale – Spotify è sempre cresciuta e nell’aprile 2018 si è quotata in borsa. Per continuare a crescere, occupando un settore diverso da quello musicale, Spotify ora vuole puntare forte sui podcast.
Nelle parole del suo fondatore e attuale CEO Daniel Ek, Spotify – fondata in Svezia nel 2006 – vuole sfruttare i podcast per diventare «la prima piattaforma audio al mondo». Come racconta un dettagliato articolo dell’Hollywood Reporter, farlo vuol dire mettersi in gioco in un campo molto diverso da quello musicale, che in futuro potrà evolversi in modo non molto diverso rispetto a quello dello streaming di contenuti audiovisivi.
Da almeno un paio di anni il successo dei podcast è stato più volte celebrato e raccontato, e in questo momento su Spotify ci sono più di 500mila podcast. Ma il giro d’affari globale dell’intero settore continua a essere relativamente piccolo: secondo una stima fatta da PwC, nel 2018 ha generato entrate complessive per circa 650 milioni di dollari, pari a circa il 12 per cento delle entrate annuali di Spotify.
Nel settore dei podcast c’è però molto spazio per crescere, perché si pensa che i numeri dei podcast continueranno ad aumentare e perché secondo dati citati dall’Hollywood Reporter si stima che al momento su Spotify si effettuino tra il 10 e il 20 per cento degli ascolti totali di podcast. Spotify ha quindi molto spazio per crescere, all’interno di un settore a sua volta in crescita.
I numeri relativi al terzo trimestre del 2019 dicono che tra luglio e settembre il tempo passato ad ascoltare podcast su Spotify è aumentato del 39 per cento, e che in quel periodo almeno il 14 per cento degli utenti ha ascoltato almeno un podcast. Il 14 per cento può sembrare poco, ma oltre a essere una percentuale in crescita rappresenta una percentuale di utenti che a Spotify interessa molto: i dati a sua disposizione dicono, infatti, che capita spesso – con valori definiti «quasi troppo belli per essere veri» – che l’ascolto dei podcast sia determinante per convincere un rilevante numero di utenti nel passare da un account gratuito (con la pubblicità e alcune restrizioni) a uno a pagamento (una cosa che ovviamente fa molto piacere a Spotify).
Ma c’è anche un altro motivo per cui Spotify è interessata a crescere nel settore dei podcast: ha a che fare con il fatto che, quando si tratta di canzoni, Spotify si limita a distribuire contenuti controllati da altri, in cui il suo guadagno è solo una piccola percentuale del totale. Nel caso delle canzoni succede, semplicemente, che Spotify deve pagare alle case discografiche una piccola cifra per ogni ascolto di una loro canzone. Di conseguenza, più aumentano gli ascolti e più aumentano i soldi che Spotify deve dare alle case discografiche. «È difficile fare profitti», ha scritto Bloomberg, «quando i proprietari dei diritti d’autore si prendono 75 centesimi di ogni dollaro che ti entra». Nel caso dei podcast, invece, Spotify può produrseli da sé, cambiando di conseguenza il modo in cui spende e guadagna soldi.
Spotify ospita da diversi anni podcast sulla sua piattaforma, ma ha iniziato a interessarsene in modo attivo piuttosto tardi, dopo che già c’erano stati i successi di podcast come Serial o The Daily, fatto dal New York Times. Ek ha raccontato che iniziò a credere davvero nelle possibilità dei podcast solo dopo il 2017, grazie alla Germania. Insieme ai suoi collaboratori si accorse che gli ascolti in Germania erano improvvisamente e notevolmente cresciuti, senza che lui né altri sapessero spiegare il perché. Dopo un po’ di tempo si capì che alcune case discografiche tedesche avevano i diritti di moltissimi audiolibri e che, potendolo fare, avevano deciso di caricare quei file audio su Spotify. Erano stati quei file, molto ascoltati, a migliorare i numeri di Spotify in Germania, nonostante la piattaforma non fosse ancora pensata per l’ascolto di contenuti di quel tipo.
In molti altri paesi gli audiolibri non sono però su Spotify, e quindi l’azienda decise di puntare sulla cosa che più gli assomigliava: i podcast. Nel 2018, quando già c’erano circa 15mila podcast sulla sua piattaforma, Spotify iniziò a fare i primi contratti per far realizzare a persone famose podcast in esclusiva (per esempio con l’attrice e comica Amy Schumer) e assunse Dawn Ostroff, ex presidente di Condé Nast Entertainment, come sua chief content officer, cioè come direttrice operativa con responsabilità sulla produzione di contenuti. Fino a quel momento Spotify era stata quasi solo una società tecnologica, che sviluppava tecnologie per offrire agli utenti contenuti prodotti da altri; da lì in poi Spotify iniziò a essere anche una società di contenuti.
Per diventare sempre più una società di contenuti, dal 2018 Spotify si è mossa soprattutto in due modi: ha acquisito, spendendo centinaia di milioni di dollari, importanti società che producevano e distribuivano podcast (come Gimlet, Anchor o Parcast) e ha messo sotto contratto persone in grado di creare contenuti importanti, da proporre in esclusiva. Alcuni mesi fa, per esempio, ha fatto un accordo con Barack e Michelle Obama, la cui società di produzione Higher Ground realizzerà una serie di podcast in esclusiva per Spotify (in alcuni casi con le voci della coppia). Come ha scritto Hollywood Reporter, «molti altri sono poi arrivati, in scia agli Obama»: si parla infatti di circa trenta simili accordi chiusi o in via di definizione con personalità come Jordan Peele, Paul Feig e Lele Pons (una youtuber il cui canale ha 15 milioni di iscritti). Hollywood Reporter ha scritto che solo nell’ultimo anno Spotify ha speso 400 milioni di dollari per investire sugli aspetti produttivi e tecnologici della realizzazione di podcast.
Parlando con Hollywood Reporter, Ek ha spiegato che «per molto, molto, molto tempo la musica continuerà a essere la cosa più ascoltata» su Spotify, ma già a inizio anno aveva scritto nel blog di Spotify che «col tempo, più del 20 per cento degli ascolti totali di Spotify sarebbe stato fatto con contenuti non-musicali». Guardando ancora oltre – diciamo fra “molto, molto molto tempo” – Hollywood Reporter scrive che Spotify finirà anche per interessarsi alle radio, un settore che vale 40 miliardi di dollari. Ek ha detto:
«Così come la TV si è spostata dall’offline all’online, lo stesso sta succedendo con la radio. Se guardi il tempo totale che le persone [negli Stati Uniti] passano ascoltando la radio, è simile a quello che passano guardando contenuti audiovisivi. Ma il settore audio è circa un decimo di quello video. La domanda, quindi, è: le nostre orecchie valgono un decimo dei nostri occhi? Secondo me non è così e più andremo avanti più l’audio assumerà valore».
L’interesse di Spotify per una maggiore produzione e una migliore riproduzione di podcast, possibilmente in esclusiva per i suoi abbonati, va quindi vista come una prima mossa di una ben più grande partita per la produzione e la distribuzione in streaming di contenuti audio di ogni tipo. Per certi versi, è lecito aspettarsi che possa succedere qualcosa di simile a quanto sta succedendo in questi mesi nel settore dello streaming di contenuti audiovisivi. Sotto molti punti di vista, Spotify parte in testa in questa partita, grazie alla sua grandezza e diffusione. Ma, così come Netflix quando si parla di streaming, Spotify è un’azienda relativamente piccola, che molto probabilmente si troverà sempre più a doversela vedere con aziende immense come Apple, Google o Amazon.
Il problema, scrive Hollywood Reporter, è che «i rivali di Spotify usano la musica [e i podcast] per vendere più iPhone o far comprare più prodotti su Amazon», potendosi quindi permettere di operare in perdita in questo settore pur di fare soldi altrove. Come ha sintetizzato l’analista Kevin Rippey, «Spotify deve fare soldi in un settore in cui i suoi principali concorrenti possono permettersi di non farne». Il concorrente più temibile al momento è Apple, per la sua capacità di spesa e perché ha 900 milioni di iPhone in giro per il mondo. Per il momento, però, Hollywood Reporter spiega che Apple non ha fatto mosse per investire sulla produzione o la distribuzione in esclusiva di podcast, cosa che invece ha fatto per la musica, il cinema e la tv.