“È strano che questa storia non sia stata ancora raccontata”
Il nuovo libro di Adriano Sofri, "Il martire fascista", sulla morte di un maestro elementare nel 1930
Il nuovo libro di Adriano Sofri, Il martire fascista, è una storia di storie che non sono come si pensava che fossero, con protagonista un maestro siciliano finito a insegnare vicino a Gorizia e ucciso nel 1930. Ma intorno c’è molto altro, comprese le ragioni “per fatto un po’ personale” che l’autore aggiunge nel secondo capitolo del libro.
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È strano che questa storia non sia stata ancora raccontata. Le occasioni non erano mancate. Nella trama della strage che cinquant’anni fa stravolse la vita civile degli italiani, a Piazza Fontana a Milano, era comparso un personaggio, Nino Sottosanti – «Nino il mussoliniano» – che le biografie descrivevano con frasi vaghe come «figlio di un maestro siciliano ucciso forse da antifascisti sloveni», o «si diceva figlio di martire fascista», o qualcosa del genere – niente di più. Io avevo anche un’altra ragione per arrivare a questa vicenda. Nei luoghi in cui era avvenuta avevo trascorso una parte dell’infanzia e dell’adolescenza, una parte importante: avevo avuto un mio Carso. Mia madre, maestra elementare, aveva vent’anni nel 1930 in cui il maestro siciliano fu ucciso a Verpogliano, e insegnava in un paesino del Carso triestino a una scolaresca di bambine e bambini sloveni. Nelle memorie scritte per noi figli aveva ricordato il modo drammatico in cui aveva appreso la notizia, e una sua doppia verità: un colpo di scena. Quando finalmente ho deciso di ricostruire la storia, non mi aspettavo di trovare una terza verità. Un inaudito colpo di scena.
Tanto meno mi aspettavo che la storia che avrei ricostruito e raccontato potesse essere in misura più o meno ampia sconosciuta agli stessi discendenti dei suoi protagonisti, e dunque forse riservare loro un dolore nuovo o rinnovato.
«Non aveva nemici»
Francesco Sottosanti era nato il 31 luglio del 1894 a Piazza Armerina, al centro della Sicilia. In quell’inizio di ottobre 1930 era anche Comandante interinale, a Vipacco, del Manipolo della 62a Legione Isonzo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, e responsabile dell’Opera Nazionale Balilla.
Tornava da Vipacco, dove aveva trascorso «le ultime ore» al bar presso il Municipio, col segretario politico del luogo e altri conoscenti. Gli attentatori, nell’attesa dell’agguato, hanno bevuto mezza bottiglia di grappa, l’altra metà l’hanno lasciata «nella fuga». Erano forse tre. No: erano due, e hanno sparato ambedue. Con fucili da caccia. Alcuni pallini hanno colpito la bicicletta e si sono conficcati nella porta. Quelli mortali erano pallettoni, del tipo usato per la caccia al camoscio. Uno ha «fracassato la scatola delle sigarette che il Sottosanti teneva in un taschino del panciotto». Però: «non è escluso che uno solo abbia tirato – e doveva essere un tiratore provetto – con un fucile a tre canne, di quelli che in questa regione usano per la caccia al camoscio, e sparano dalle due canne superiori a pallettoni e dalla canna inferiore a palla».
Era «alieno da ogni bega», insistono i cronisti, e «quegli agricoltori volentieri gli affidavano i loro figlioli». Verpogliano è descritto come un paesello d’Arcadia, «perduto sulla strada di Zolla, fra una cornice di monti, dove la vita trascorre calma e serena, monotona ed uguale…».
C’è però una delle note riservate di polizia politica da Gorizia, datata al 19 ottobre, che scrive:
Risulta che la voce dell’eventuale suicidio del Sottosanti si sia formata per qualche espressione fatta dalla stessa vedova, appena accorsa vicino al morente… Difatti il Sottosanti reduce dalla Sicilia dove aveva trascorso la sua licenza, non usciva se non armato, presentendo quasi la sua fine e l’ultimo tratto di strada in salita di solito lo faceva con la rivoltella in pugno.
Questo Sottosanti quasi presago della fine, al punto di percorrere l’ultimo tratto con la pistola in pugno, stride con le assicurazioni che non avesse nemici né ragioni di preoccupazione.
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