Breve storia degli spaghetti al pomodoro
La racconta lo storico Massimo Montanari nel saggio "Il mito delle origini": qui spiega l'antica accoppiata di pasta e formaggio
Il piatto nazionale italiano – la pasta e in particolare gli spaghetti al pomodoro – non è qualcosa di fatto e finito: la sua storia si perde nei secoli.
La pratica di stendere la pasta arriva dall’antico Medio Oriente, i Greci e i Romani la usavano fresca o secca ma non la consideravano un genere a sé e la friggevano o cuocevano al forno. Ci sono tracce esigue di pasta bollita in età imperiale romana e poi discussioni più consistenti in alcuni testi ebraici del III-IV secolo dopo Cristo, che la chiamavano itrium. Perché l’itrium diventasse la pasta che conosciamo ci vollero le invasioni arabe che la diffusero nel Maghreb e poi in Sicilia, dove nacque una piccola industria di pasta dura ed essiccata che la esportava in Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani; fino al Cinquecento, infatti, i “mangiamaccheroni” erano i siciliani e non i napoletani, detti invece “mangiafoglia” perché la loro dieta era a base di carne e cavolo.
Fu solo in seguito alle carestie e al malgoverno spagnolo che, verso il 1630, trovare carne divenne sempre più difficile e la diffusione dell’impastatrice meccanica e del torchio abbassarono il costo della pasta rendendola popolare. Nel frattempo si era già affermato il connubio pasta e formaggio – perché secondo la medicina dell’epoca un cibo umido doveva essere accompagnato a uno secco – ed era nata la forchetta, appositamente per infilzare la pasta bollente e vischiosa, difficile da prendere con le mani. Tutto questo e molto altro – per esempio che la pasta venisse fatta bollire per ore e che la salsa di pomodoro fu importata dalla Spagna – viene raccontato in Il mito delle origini – Breve storia degli spaghetti al pomodoro, un saggio di Massimo Montanari appena pubblicato da Laterza.
Montanari è tra gli studiosi di storia dell’alimentazione più importanti al mondo, insegna Storia medievale e Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, dove dirige il master Storia e cultura dell’alimentazione, e insegna anche all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Ha pubblicato numerosi libri che raccontano l’evoluzione del gusto, dei metodi di cottura e dei piatti; con Laterza sono usciti per esempio Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, L’identità italiana in cucina, Il formaggio con le pere. La storia in un proverbio, Il riposo della Polpetta.
Di seguito un capitolo di Il mito delle origini, quello che racconta come la nascita della pasta abbia contribuito al successo del formaggio, in particolare il parmigiano – o piacentino, lodigiano, milanese, tutti nuovi tipi di formaggi vaccini nati tra il XII e il XIII secolo nelle città e campagne della Pianura Padana.
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La storia della pasta è legata a filo doppio alla storia del formaggio – soprattutto il formaggio stagionato, la cui natura ‘secca’, in perfetta osservanza delle regole dietetiche, era ritenuta ideale per equilibrare la natura ‘umida’ della compagna, grattugiandolo fine (o sfilacciandolo in fettucce) per favorirne il rimescolamento con la pasta ancora bollente.
Benedetto Reguardati, il medico di Norcia che abbiamo visto attento ai ferculis de pasta come nuova categoria alimentare, inserisce le sue considerazioni proprio nel capitolo sul formaggio (de caseo): «Per i cibi di umore viscoso il formaggio è adattissimo, e propriamente si mangia con maccheroni, lasagne e [altri] piatti di pasta». Gli fa eco il trecentesco Liber de coquina: «È da sapere che nelle lasagne e nei corzetti [cerchi di pasta ritagliati dalla sfoglia] bisogna porre una gran quantità di formaggio grattugiato»: debet poni magna quantitas casei gratati.
Ma quale formaggio? Manuali di dietetica e libri di cucina lasciano aperta la scelta, rispettando gusti e abitudini. Poteva trattarsi di formaggi tradizionali come il cacio pecorino, o di prodotti innovativi come quelli che cominciarono a diffondersi nei secoli centrali del Medioevo, in parallelo con lo sviluppo degli allevamenti bovini. Uno fra tutti fu particolarmente raccomandato: il parmigiano – o piacentino, o lodigiano, o milanese, come furono chiamati i diversi tipi di ‘grana’ che si potevano acquistare nelle città padane. Il parmigiano e i suoi fratelli nacquero proprio in quel periodo, tra il XII e il XIII secolo, nelle grandi aziende – spesso proprietà dei monaci cistercensi – in cui si erano avviate nuove sperimentazioni zootecniche e in cui capitavano, transumando con le loro bestie, pastori delle vicine prealpi: a fianco delle consolidate pratiche di pastorizia ovina (e di allevamento brado dei maiali) si promossero nuovi allevamenti stabulari e si puntò sui bovini – fino ad allora utilizzati quasi esclusivamente come animali da tiro – per la produzione di carne e di latte. A questa innovazione produttiva corrispose la comparsa sul mercato di formaggi vaccini che a poco a poco si affiancarono ai pecorini.
A metà del Quattrocento, l’umanista Platina osserva che sono ormai due le varietà di formaggio che «in Italia si contendono il primato»: il marzolino toscano [pecorino] e il parmigiano delle regioni cisalpine. Lo ribadisce nel 1471 la Summa lacticiniorum di Pantaleone da Confienza – il più antico trattato europeo sui latticini – indicando il fiorentino o marzolino e il piacentino o parmigiano quali formaggi italiani di maggior pregio (aggiungendovi, come terzo, le robiole delle Langhe).
Grazie alla loro reputazione, i nuovi prodotti si affermarono anche negli usi alimentari delle classi alte, fino a quel momento sospettose nei confronti del formaggio, la cui immagine era tradizionalmente legata alla dieta povera dei pastori e dei contadini. Ma non era solo una questione di qualità. Decisivo, in questa affermazione, fu il posto che i formaggi stagionati andarono a occupare nel sistema gastronomico – una struttura coerente all’interno della quale ogni prodotto, ogni ingrediente occupa un ruolo e assume un senso. Nell’analisi storica non è particolarmente utile concentrarsi sulle vicende di uno specifico prodotto: solo il contesto, solo le «associazioni alimentari» – felice espressione di Fernand Braudel – ci permettono di inquadrare storicamente quelle vicende, altrimenti destinate a sconfinare nell’astratto.
La fortuna del ‘grana’ in tutte le sue declinazioni – e più in generale la fortuna dei formaggi a pasta dura – fu l’abbinamento con la pasta, che funzionava sul piano gustativo così come nella riflessione dietetica. Ecco perché la storia dei due prodotti ha viaggiato per secoli di pari passo. Le testimonianze dei libri di cucina e della letteratura si riferiscono sempre al formaggio (preferibilmente parmigiano) come ideale condimento della pasta. Numquam vidi hominem, qui ita libenter lagana cum caseo comederet sicut ipse, ovvero: «Mai vidi uomo che mangiasse le lasagne col formaggio così volentieri come costui». Questa immagine di frate Giovanni da Ravenna, schizzata nel XIII secolo dal francescano Salimbene da Parma, è quasi l’archetipo di una scelta gastronomica di straordinaria e duratura fortuna. Il cacio sui maccheroni entrò subito in proverbio – e mai più ne è uscito – a indicare il connubio ideale, la perfetta realizzazione di un’impresa, mentre maccaron sanza cascio diventava la metafora dell’imperfezione – utilizzata già nel Cinquecento da Pietro Aretino, che la accosta a mancanze altrettanto drammatiche quali una cocina senza cuoco o il mangiar senza bere.
Viceversa, il formaggio grattugiato non aspetta che la pasta. A metà del Trecento è una celebre novella del Decameron a portarci – assieme all’ingenuo Calandrino – nella favolosa contrada di Bengodi, dove il cibo è assicurato a tutti, in abbondanza e senza fatica alcuna: giusto al centro di quel paese «eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la qual stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi, e poi gli gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva».
Bengodi è il fantastico paese di Cuccagna, che a iniziare dal Medioevo compare nelle utopie letterarie di mezza Europa. La montagna di parmigiano su cui rotolano maccheroni e ravioli ne è la variante tipicamente italiana, inaugurata da Boccaccio, proseguita per secoli in letteratura e a un certo punto raffigurata in stampe e disegni. In età moderna i maccheroni saranno ormai altra cosa da come li intendeva Boccaccio, che certamente pensava a una cascata di gnocchi (secondo il più antico significato del termine, che fa funzionare al meglio l’immagine dei maccheroni in caduta libera lungo le pendici della montagna). Non cambierà il condimento, attestato ormai come segno dell’identità culinaria italiana.
(@Laterza 2019)