Insomma, questo impeachment di Trump?
Cosa dobbiamo pensare a questo punto dell'indagine sul presidente degli Stati Uniti, e da cosa dipendono i suoi sviluppi
di Francesco Costa – @francescocosta
Il 25 giugno del 1973 John Dean testimoniò alla commissione del Senato statunitense che si stava occupando dell’impeachment contro il presidente Richard Nixon. Fino a pochi mesi prima Dean era stato il principale consulente legale di Nixon, che lo aveva licenziato quando aveva appreso della sua volontà di collaborare con le commissioni parlamentari che indagavano sul caso Watergate. Quel giorno del 1973 Dean diventò il primo membro dell’amministrazione Nixon a dire che il presidente era stato direttamente coinvolto nelle operazioni di spionaggio contro il Partito Democratico e nei successivi tentativi di insabbiarle. Dean non presentò prove – era la sua parola contro quella di Nixon – ma le sue accuse trovarono successivamente molte conferme concrete; soprattutto, però, la sua testimonianza risuonò moltissimo nell’opinione pubblica, contribuendo al deterioramento della reputazione di Nixon che lo avrebbe portato più o meno un anno dopo alle dimissioni, dopo essere stato abbandonato dal suo stesso partito.
Diversi giornali statunitensi scrivono ora che mercoledì il procedimento di impeachment contro il presidente Donald Trump potrebbe aver avuto il suo “momento John Dean”, ma le cose sono più complicate di così.
L’uomo che ieri ha testimoniato davanti alla commissione d’indagine della Camera è Gordon Sondland, ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea. Sondland non è un diplomatico di carriera, o uno che possa essere sospettato di simpatie per gli avversari: è un ricco imprenditore del settore alberghiero da tempo legato al Partito Repubblicano, e ha donato un milione di dollari al comitato che organizzò la cerimonia di insediamento di Trump: nella politica statunitense è una prassi che i ricchi finanziatori di chi diventa presidente vengano in qualche modo premiati con incarichi diplomatici in nazioni e regioni che non comportano grandi e delicate questioni di politica estera, soprattutto in Europa. Soltanto pochi giorni fa lo stesso Trump aveva definito Sondland «un uomo davvero per bene e un grande americano», aggiungendo che gli sarebbe piaciuto molto ascoltare una sua testimonianza, certo che lo avrebbe scagionato.
Invece non è successo. Durante la sua testimonianza, Sondland ha confermato tutto quello che si sapeva già sul caso che ha portato all’apertura della procedura di impeachment, aggiungendo elementi e dettagli ancora non noti che aggravano ulteriormente la posizione di Trump e di altri importanti personaggi del governo statunitense.
La storia per come la conosciamo oggi è questa, in estrema sintesi: tra la primavera e l’estate di quest’anno il presidente Donald Trump ha fatto pressioni sul neoeletto presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, perché aprisse un’indagine che danneggiasse uno dei suoi principali rivali politici, Joe Biden, approfittando dell’incarico ottenuto dal figlio di Biden, Hunter, nel consiglio d’amministrazione di una società ucraina (le accuse contro i Biden sono infondate). Le pressioni esercitate da Trump hanno utilizzato la forza e gli strumenti della presidenza e della politica estera degli Stati Uniti: Trump ha fatto esplicitamente la sua richiesta a Zelensky durante una telefonata formale dallo Studio Ovale, dopo aver bloccato una tranche di aiuti economici e militari diretti all’Ucraina, e ha posto l’apertura dell’indagine come condizione per acconsentire a una visita ufficiale di Zelensky a Washington, dove il presidente ucraino stava cercando di essere invitato per legittimarsi davanti alla comunità internazionale. La campagna di pressioni è stata poi portata avanti – su indicazione di Trump – dal suo avvocato personale e alleato politico Rudy Giuliani, aprendo così un secondo informale canale della politica estera statunitense, di cui comunque varie persone della sua amministrazione erano a conoscenza.
Come facciamo a sapere tutto questo e perché non usiamo condizionali? La storia è emersa in agosto quando un funzionario dell’intelligence statunitense, avendo appreso del contenuto della telefonata tra Trump e Zelensky, ha presentato una denuncia formale ai suoi superiori, considerando l’iniziativa di Trump pericolosa e inopportuna. Seguendo le procedure previste dalla legge, i suoi superiori hanno valutato la denuncia, e l’hanno ritenuta fondata, credibile e di «urgente preoccupazione»: una classificazione legale che implica una valutazione delle commissioni competenti al Congresso. Nelle successive settimane il caso si è arricchito di prove, testimonianze e dettagli che hanno aggravato la posizione di Trump: abbiamo letto la trascrizione della telefonata, nella quale la richiesta avviene in modo esplicito («Vorrei che ci facesse un favore»); abbiamo appreso dei molti incontri avuti a questo scopo da Rudy Giuliani, aggirando la diplomazia statunitense; abbiamo appreso di come gli aiuti economici e militari fossero stati bloccati su indicazione di Trump, e rilasciati solo a seguito della denuncia dell’intelligence; abbiamo appreso di come gli ucraini sapessero che gli aiuti erano stati bloccati per questo motivo; abbiamo appreso di come la Casa Bianca abbia cercato di far sparire ogni traccia della telefonata; abbiamo letto e ascoltato messaggi privati e testimonianze pubbliche di diplomatici statunitensi che hanno confermato ogni aspetto della ricostruzione.
Inoltre, abbiamo ascoltato lo stesso Trump ammettere esplicitamente le sue intenzioni: «Se fossi il presidente Zelensky, aprirei un’indagine sui Biden».
La testimonianza di mercoledì di Gordon Sondland ha fornito ulteriori conferme.
«Ho eseguito gli ordini ricevuti dal presidente», ha detto Sondland, che poi ha coinvolto anche il segretario di stato, Mike Pompeo, e i principali dirigenti dell’amministrazione (qui c’è il video integrale). «Tutti ne erano informati. Non era un segreto. Tutti erano stati informati via email il 19 luglio, prima della telefonata. Come dissi a tutti, io avevo detto al presidente Zelensky che era necessario che assicurasse l’apertura dell’indagine». «So che in questa commissione avete spesso riassunto questa complicata vicenda in una semplice domanda: c’è stato un do ut des? La risposta è sì. Giuliani ha detto chiaramente a vari membri del governo, all’ambasciatore in Ucraina e al governo ucraino che Trump voleva una dichiarazione con cui Zelensky si impegnava ad aprire le indagini. Tutti noi abbiamo appreso che le indagini erano una pre-condizione». Sondland ha mostrato anche il contenuto delle email che corroborano il suo racconto, e ha aggiunto che gli ucraini non avrebbero dovuto davvero indagare sui Biden: a Trump sarebbe bastato l’annuncio di un’indagine, a dimostrazione che il suo obiettivo non era battersi contro la corruzione o perseguire un illecito ma danneggiare pubblicamente un suo avversario.
Allo stato attuale, insomma, non ci sono grandi dubbi su quello che è successo. Ma questo non vuol dire che sia possibile prevedere cosa succederà.
Come ha mostrato l’esito del cosiddetto Russiagate, il presidente degli Stati Uniti non può essere incriminato, a prescindere dal fatto che si possa dimostrare che abbia violato la legge. Anche per questo motivo il Partito Democratico – che ha la maggioranza alla Camera – ha deciso di avviare l’impeachment, cioè il procedimento politico e non giudiziario attraverso il quale è teoricamente possibile rimuovere il presidente dalla Casa Bianca. Le regole dell’impeachment prevedono che sia la Camera a decidere se mettere il presidente in stato d’accusa – al termine di un’indagine, che è quella a cui stiamo assistendo – ma che sia poi eventualmente il Senato a decidere per la rimozione del presidente, con un voto che richiede la maggioranza dei due terzi. Perché un presidente venga rimosso dalla Casa Bianca, il Senato deve accertare che si sia macchiato di «high crimes and misdemeanors», «gravi crimini e misfatti»: una definizione volutamente vaga, e ampia abbastanza da permettere al Congresso di valutare caso per caso.
Il primo punto da accertare quindi è se la condotta di Trump – aver usato il potere della sua istituzione e gli strumenti degli Stati Uniti per tentare di danneggiare un avversario politico – si possa considerare un «grave crimine» o un «grave misfatto». I precedenti suggeriscono di sì, e non solo per la gravità delle accuse ma anche per i comportamenti relativi. Nel caso di Nixon, per esempio, uno dei capi d’accusa dell’impeachment era semplicemente basato sui suoi tentativi di nascondere quanto accaduto, e sulla decisione di non collaborare con l’indagine del Congresso. Anche la Casa Bianca di Trump ha deciso di non collaborare con l’indagine, opponendosi alla diffusione di documenti e invitando i suoi funzionari a sottrarsi alle audizioni; e in precedenza aveva tentato di insabbiare la telefonata con Zelensky.
Il secondo punto da accertare però – ed è quello dirimente in un procedimento di impeachment – è se il Partito Repubblicano avrà la volontà politica di comportarsi di conseguenza: la decisione finale su Trump non spetterà a un tribunale o una giuria bensì ai parlamentari eletti, e il quorum richiesto per arrivare alla rimozione di Trump richiede l’adesione di un pezzo importante del Partito Repubblicano (almeno venti senatori). Fino a questo momento il Partito Repubblicano ha difeso Trump con grande compattezza, e cambiando linea di giorno in giorno: alcuni lo hanno fatto sostenendo che le accuse siano completamente infondate, ma è un argomento che diventa sempre più debole; altri ammettendo che Trump abbia sbagliato ma sostenendo che quello che ha fatto non sia grave abbastanza da giustificare una scelta epocale e traumatica come l’impeachment.
L’atteggiamento del Partito Repubblicano fin qui è una conseguenza dell’atteggiamento dei suoi elettori. Se l’opinione pubblica statunitense è molto divisa sull’impeachment, con i favorevoli che oggi superano di poco i contrari, secondo i sondaggi la base del partito è ancora saldamente dalla parte di Trump, ed è disposta a difenderlo a qualsiasi costo. Scopriremo nei prossimi giorni l’eventuale impatto della testimonianza di Sondland, ma a oggi i senatori del Partito Repubblicano che dovessero esporsi a favore dell’impeachment andrebbero incontro a grosse contestazioni da parte dei loro stessi elettori, compromettendo così le proprie possibilità di rielezione. Quando la Camera ha votato per aprire l’indagine contro Trump, non un solo deputato del Partito Repubblicano ha votato a favore.
Per questo motivo si attendeva molto l’inizio delle audizioni pubbliche alla Camera, sulla base dell’idea che una parte degli americani – e dei Repubblicani – potesse cambiare idea ascoltando le testimonianze delle persone coinvolte in questa storia, e sulla base della speranza – da parte dei Democratici – di trovare un “momento John Dean”: una testimonianza credibile, grave e inequivoca sulla condotta del presidente degli Stati Uniti. Quel momento è arrivato, apparentemente, ma non è chiaro che conseguenze avrà. Al contrario di quanto accadde per Richard Nixon e Bill Clinton, per i quali gli scandali furono più o meno “un fulmine a ciel sereno”, come da semplificazioni giornalistiche, l’intera breve carriera politica di Donald Trump è stata ininterrottamente costellata da scandali su scandali, dal caso Russia alle accuse di corruzione, dai tentativi di favorire le proprie imprese ai soldi versati a un’attrice di film porno perché negasse la sua relazione col presidente. La sensibilità dell’opinione pubblica statunitense è cambiata moltissimo dagli anni Settanta a oggi, ed è stata ulteriormente intorpidita dalla radicalizzazione asimmetrica della politica statunitense – il Partito Repubblicano oggi ha posizioni di estrema destra simili a quelle di Alternative Für Deutschland, il partito neofascista tedesco – e dai numerosissimi scandali dell’amministrazione Trump, per il quale l’asticella delle aspettative e delle pretese da parte degli elettori è molto bassa.
L’esito dell’impeachment non dipenderà quindi dall’eventualità che sia accertata o meno la condotta di Trump rispetto all’Ucraina, sulla quale razionalmente non ci sono più dubbi, né strettamente sul giudizio che i senatori ne daranno, bensì su quanto sia ancora vera nel 2019 la famosa frase che Trump disse a gennaio del 2016: «Potrei sparare a qualcuno in mezzo a Fifth Avenue e comunque non perderei voti».