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  • Sabato 16 novembre 2019

Le paradossali leggi statunitensi sulla violenza domestica

In molti stati portano a lunghe incarcerazioni per le donne che non hanno "evitato" le violenze dei padri sui loro figli, mentre le persone violente ricevono condanne molto più lievi

(AP Photo/Jacquelyn Martin)
(AP Photo/Jacquelyn Martin)

Sui media statunitensi sta circolando molto la storia di una donna dell’Oklahoma che venne condannata a trent’anni di carcere per non aver protetto i propri figli dagli abusi del compagno di cui lei stessa era vittima. Dopo quindici anni, e una lunga battaglia legale, venerdì 8 novembre la sua pena è stata rivista e lei è stata liberata. All’epoca il compagno, responsabile degli abusi, aveva ricevuto una pena decisamente inferiore e dopo due anni di prigione era stato rilasciato. In Oklahoma e in molti altri stati degli Stati Uniti, infatti, ci sono leggi per la protezione dei minori che di fatto consentono che una delle vittime, la madre abusata, possa essere considerata a sua volta colpevole, e possa ricevere condanne superiori a quelle di chi ha realmente commesso l’abuso.

Almeno 29 stati americani hanno leggi che criminalizzano esplicitamente l’incapacità dei genitori di proteggere i propri figli dagli abusi. In alcuni stati questi reati vengono definiti “lesioni su un minore per omissione”, in altri si parla di “favoreggiamento” o di “complicità” nell’abuso. Queste leggi rendono i genitori – spesso la madre che subisce violenza domestica come i suoi figli – responsabili di ciò che non hanno fatto.

Quando aveva vent’anni, nel 2004, Tondalao Hall fu arrestata in Oklahoma dopo aver portato i propri figli in ospedale: erano stati picchiati dal suo compagno di allora, Robert Braxton (la figlia di tre mesi, tra le altre cose, aveva il femore e le costole rotte). Anche la donna era stata vittima di abusi domestici, ma venne considerata responsabile di non aver protetto i propri bambini e condannata a trent’anni di prigione. Braxton fu accusato e condannato, ma a soli dieci anni; e venne rilasciato dopo due anni. Nel 2016 l’ACLU dell’Oklahoma, un’organizzazione non governativa statunitense a favore dei diritti civili, era stata coinvolta nel caso. Dopo vari altri tentativi, aveva presentato per tre volte una richiesta di commutazione di pena. Le prime due domande vennero respinte, l’ultima finalmente fu accettata: «Siamo riusciti a farla uscire di prigione con 15 anni di anticipo, ma anche con cinque anni di ritardo».

«Questo è un ottimo esempio della mancanza di comprensione della violenza domestica nel sistema giudiziario dell’Oklahoma», ha dichiarato dopo la liberazione di Tondalao Hall la sua avvocata, Megan Lambert. Una donna abusata si trova intrappolata all’interno di un sistema di dominio e di controllo, portato avanti attraverso violenze psicologiche, fisiche, economiche e sessuali. Il meccanismo che meglio definisce le fasi di una condizione di violenza domestica subita da una donna viene chiamato “spirale” o “ciclo” della violenza, parole che indicano le modalità attraverso cui l’uomo violento raggiunge il proprio scopo di sottomissione facendo sentire la compagna incapace, debole, impotente e totalmente dipendente da lui. Le fasi della spirale della violenza possono presentarsi in un crescendo e poi “mescolarsi”: isolamento, intimidazioni, minacce, ricatto dei figli, aggressioni fisiche e sessuali si alternano spesso a una fase di relativa calma, definita “luna di miele”, con l’obiettivo di confondere la donna e indebolirla ulteriormente. Spesso le decisioni delle donne vittime di violenza seguono la logica della paura: a causa della paura non se ne vanno, tornano, cercano costantemente di gestire la violenza stessa per evitarne una più grave, e la presenza di minori all’interno di questa dinamica agisce in questa direzione, piuttosto che in quella contraria.

Se per chi si occupa di violenza contro le donne tutte queste dinamiche sono prove di quanto quelle donne siano vittime, per il senso comune continua invece a prevalere una posizione che si può riassumere nella formula “perché non l’hai lasciato?” o “perché non l’hai denunciato?”. Molte leggi sulla protezione dei minori degli Stati Uniti si basano proprio sulla logica che sta dietro a queste domande: la violenza subita da una madre diventa una prova contro di lei e la madre maltrattata diventa lei stessa colpevole.

Una mattina di ottobre del 2008, in Texas, una donna di nome Latricia Chance si avvicinò all’appartamento della sua amica Arlena Lindley. Sulla porta c’era suo figlio Titches, tre anni, dentro c’erano Lindley e il suo ragazzo, Alonzo Turner. Stavano discutendo. All’improvviso Turner aprì la porta di ingresso e trascinò Titches in salotto: il bambino aveva sporcato i suoi pantaloni del pigiama con la colazione. Turner gli ordinò di chinarsi e di toccarsi le dita dei piedi. Lo frustò con una cintura di cuoio, poi lo sbatté contro il muro, lo prese per il collo, lo buttò a terra e gli schiacciò il piede sul petto. Poi lo raccolse, lo trascinò in bagno, gli spinse la faccia nel gabinetto e si rivolse a Lindley, dicendole che se avesse cercato di portare Titches fuori di casa lui l’avrebbe uccisa. Lindley (che dai documenti del tribunale aveva alle spalle una prolungata storia di violenze, abusi e minacce) ci provò lo stesso: afferrò il figlio e corse con l’amica verso la porta d’ingresso. Ma era troppo lenta. Turner le strappò il bambino dalle braccia e chiuse fuori di casa Lindley e la sua amica Chance. Le due donne cercarono di capire che cosa fare. Chance voleva che Lindley chiamasse il 911, ma lei era preoccupata che questo potesse mettere ulteriormente in pericolo Titches: il suo primo pensiero, disse poi in tribunale, era calmare Turner, riportare la situazione sotto controllo e solo a quel punto, quando lui fosse uscito per andare al lavoro, scappare con il figlio. Invece di chiamare il 911, quindi, Lindley chiamò Turner, negoziando un suo ritorno a casa. Alla fine della giornata, Titches sarebbe morto e Turner sarebbe stato arrestato per omicidio. Cinque giorni dopo, uno degli investigatori che aveva preso la testimonianza di Lindley venne alla sua porta con un mandato di arresto. Le disse che quando Turner stava picchiando Titches, lei avrebbe dovuto chiamare il 911. Venne condannata a 45 anni di prigione.

Secondo un’inchiesta del 2014 di BuzzFeed, almeno 29 stati americani hanno leggi che criminalizzano esplicitamente l’incapacità dei genitori di proteggere i propri figli dagli abusi. In alcuni stati questi reati vengono definiti “lesioni su un minore per omissione”, in altri si parla di “facilitazione” o di “complicità” nell’abuso. In Oklahoma la legge cosiddetta di “non protezione” stabilisce pene particolarmente severe per le madri che sono esse stesse vittime di violenza, ma che non denunciano il proprio partner alla polizia. L’avvocata di Hall ha detto che, tra il 2009 e il 2018, 48 persone sono state condannate per omissione di protezione in 13 delle 77 contee dell’Oklahoma. In 14 di questi casi, le donne hanno ricevuto condanne più lunghe rispetto agli uomini che sono stati effettivamente ritenuti colpevoli e condannati per abuso di minori. Situazioni simili ci sono anche in altri stati e in ognuno di questi casi, dice BuzzFeed, c’erano prove che anche la donna era stata vittima di abusi.

Nel 2000, la giudice e deputata statale dell’Oklahoma Jari Askins scrisse il disegno di legge che introduceva il reato che in inglese è “enabling child abuse”, dove la parola “enabling” significa “consentire” e anche “acconsentire”: nel testo, l’incapacità di agire era insomma sufficiente a giustificare un procedimento giudiziario. In un’intervista, Askins ha raccontato di essersi impegnata contro gli abusi domestici contro le donne durante tutta la sua carriera, fin dagli anni Ottanta, quando non c’era alcuna legge specifica a riguardo. Ma durante la creazione della legge per la protezione dei minori, la prospettiva che potesse portare al carcere le donne maltrattate non venne considerata: «Non stavamo pensando alla violenza domestica», ha detto Askins, precisando però che possono sempre essere gli avvocati della difesa a sollevare quel tipo di questione in tribunale.

In tribunale sono spesso i pubblici ministeri a spiegare che la donna era maltrattata: alcuni indicano però i tentativi falliti di lasciare il partner violento come prova del fatto che la madre non fosse completamente impotente e che avrebbe potuto dunque fare di più per salvare i propri figli. Altri citano i contatti avuti con la polizia o con gli operatori dei servizi sociali come opportunità mancata di condividere il pericolo. Molti, in un modo o nell’altro, presentano la violenza dell’uomo come prova di un cattivo processo decisionale della madre. I gruppi femministi parlano a tal proposito di “violenza istituzionale” o “violenza dei tribunali”. Nella sua dichiarazione di apertura di un processo a una madre dell’Oklahoma accusata di aver lasciato che l’abuso sul figlio avvenisse, il pubblico ministero ha dichiarato ad esempio alla corte che l’uomo abusava anche di lei. Ma ha aggiunto: «Ha preso la decisione di restare. Qui, si tratta di mettere a rischio tuo figlio a causa delle scelte che fai, quelle di rimanere in una relazione violenta».

Quando alla fine degli anni Settanta in Texas venne creata la legge sugli abusi contro minori “per omissione”, durante una breve udienza in commissione, fu chiamato un solo testimone, un procuratore della contea. Alla domanda su che tipo di situazioni avrebbe coperto la legge, lui citò i genitori che non danno da mangiare ai propri figli e fanno patire loro la fame. Non citò i casi delle donne che non riescono a impedire ai loro partner violenti di abusare di loro e anche dei bambini. Le leggi di altri stati sono state approvate in circostanze e in momenti diversi, ma tutte non tengono conto (o lo fanno in modo molto limitato) della violenza domestica. L’anno scorso, una deputata dell’Oklahoma ha presentato una proposta di legge che avrebbe fissato a quattro anni di prigione la pena massima per i crimini “di omissione”. La legge non è stata approvata.

Secondo l’avvocata Megan Lambert, ci sono molte detenute che hanno storie che ricordano quella di Tondalao Hall: «Attendiamo con impazienza il giorno in cui tutte le altre donne incarcerate ingiustamente per i crimini dei loro aggressori potranno tornare in libertà».