La Bolivia prima e dopo Evo Morales
Come l'ex presidente socialista costretto alle dimissioni ha cambiato profondamente il paese più povero dell'America Latina
di Davide Maria De Luca
«A differenza di altri leader latino americani con tendenze all’autoritarismo, Evo Morales ha dominato il suo paese più con il consenso che con la coercizione». Queste parole, pubblicate da un giornale che non gli è certo ideologicamente vicino come l’Economist, potrebbero essere l’epitaffio dei quasi 14 anni che l’ex sindacalista dei coltivatori di coca Evo Morales ha trascorso alla guida della Bolivia prima di essere costretto alle dimissioni da settimane di proteste di piazza, dall’ammutinamento della polizia e dalla richiesta dei generali dell’esercito.
Ma anche se corretto, sarebbe probabilmente un commento incompleto ai lunghi anni che Morales ha trascorso al potere, tra i più importanti nella recente storia del paese. Morales è stato il primo presidente indio di un paese dove la maggioranza indigena è stata a lungo oppressa. Ha guidato il paese in un periodo di spettacolare crescita economica e di riduzione della povertà, vincendo tre elezioni consecutive e raccogliendo un enorme consenso. Negli ultimi anni però la debolezza del ciclo economico, la fine della spinta riformista dei suoi governi, le sue tendenze autoritarie e la sua ostinazione a rimanere al governo hanno contribuito a oscurare i suoi successi e a mettere fine al suo lungo governo.
Morales era stato eletto la prima volta nel 2005, quando divenne il primo candidato presidente nella storia della Bolivia a ottenere più della metà dei voti. Il paese che si apprestava a guidare era uno dei più complicati del continente. Insieme al Paraguay, è l’unico stato del Sud America che non affaccia sul mare. Ha una superficie pari a tre volte quella dell’Italia ma una popolazione di appena 10 milioni di abitanti. A ovest il paese è arido e si estende su un altipiano al centro della catena montuosa delle Ande (la capitale La Paz, che si trova a un’altitudine di 3.600 metri, è la capitale costruita più in alto al mondo). A est delle montagne si estendono le pianure umide dove si trova la seconda città più importante del paese, Santa Cruz, abitata in prevalenza da bianchi benestanti (e in genere ostili al governo di Morales). Ancora più a est inizia l’immensa Foresta amazzonica, costantemente erosa dai coltivatori di soia e dagli allevatori in cerca di nuovi terreni.
La Bolivia è una nazione dove abbondano le risorse minerali (argento, rame, litio e gas naturali), ma nonostante le ricchezze del suo sottosuolo rimane il paese più povero del Sud America. Ancora negli anni Ottanta il tasso di analfabetismo era superiore al 20 per cento e la mortalità infantile superiore a 66 casi per ogni mille nati. La popolazione, costituita per il 65 per cento da indios di etnia Quechua o Aymara, sopravviveva nelle campagne grazie all’agricoltura di sussistenza o viveva in baraccopoli ai bordi delle grandi città. Anche se la situazione è molto migliorata negli ultimi anni, la Bolivia è ancora in fondo alle classifiche di sviluppo umano del continente.
I profondi divari che separano le classi sociali boliviane si riflettono nella composizione etnica del paese. I poveri e gli analfabeti sono in gran parte indios e “mestizo” (cioè persone di etnia mista: circa il 30 per cento dei boliviani si identifica così), mentre i ricchi che hanno dominato la politica boliviana a partire dalla conquista spagnola nel Cinquecento si identificano in genere con antenati bianchi ed europei (sono circa il 12 per cento della popolazione).
Gli indios sono stati a lungo oppressi con la forza, in particolare tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, quando il paese fu governato per quasi un ventennio da un sanguinario regime militare sostenuto dagli Stati Uniti. Il regime, appoggiato da organizzazioni para-fasciste sopravvissute fino a oggi, reclutò tra gli altri il criminale di guerra nazista tedesco Klaus Barbie (fuggito nel paese per evitare un processo in Francia). Le milizie del regime ottennero un momento di visibilità internazionale quando nel 1967 catturarono e uccisero il rivoluzionario Ernesto “Che” Guevara, che si trovava nelle montagne del paese per organizzare un movimento di resistenza indios contro il regime.
La dittatura militare finì all’inizio degli anni Ottanta a causa della pressione congiunta della comunità internazionale e della situazione economica internazionale, che in quegli anni si trovava in una delle cicliche fasi di declino nei prezzi delle materie prime esportate dal paese. I successivi vent’anni furono dominati da un’instabile coalizione di partiti di centro e di destra (quest’ultima composta in larga parte da ex militari e membri del vecchio regime). I nuovi governi affrontarono la crisi con uno dei più severi programmi di austerità e privatizzazioni del continente: le grandi società pubbliche create nei decenni precedenti furono smantellate, i servizi pubblici furono privatizzati e grandi concessioni agricole e minerarie furono messe all’asta per attirare capitali stranieri.
Le politiche dei governi di centrodestra portarono sotto controllo l’inflazione (che all’inizio degli anni Ottanta aveva raggiunto punte del 24 mila per cento annuo) ma acuirono le profonde fratture sociali nel paese e diedero nuova spinta ai movimenti regionalisti e identitari che fino a quel momento erano stati repressi dal regime militare. I ricchi abitanti bianchi della provincia di Santa Cruz (dove erano stati trovati giacimenti di gas naturale) iniziarono a chiedere la secessione e costrinsero i governi a spostarsi sempre più a destra, mentre le proteste contro le politiche neoliberiste del governo portano alla saldatura dei legami tra i partiti di sinistra e le comunità indios.
Fu in questo clima che Evo Morales iniziò la sua ascesa politica. Era nato nel 1959 in una famiglia di contadini Aymara nella regione montuosa dell’Oruro, nel Sud Ovest del paese. Ultimo di sette fratelli (di cui solo tre raggiunsero l’età adulta), orfano di madre, morta di parto subito dopo la sua nascita, Morales iniziò molto presto ad aiutare il padre nel lavoro nei campi e accompagnandolo nei suoi viaggi al mercato della capitale provinciale (un tragitto che facevano a piedi, accompagnati da un lama, e che poteva durare fino a due settimane).
Negli anni Ottanta la sua famiglia si trasferì nella parte orientale del paese ed iniziò a coltivare la coca, una pianta utilizzata da secoli nella cultura andina come stimolante e per combattere il mal d’alta quota. Diventato adulto, Morales iniziò a lavorare come sindacalista dei “cocaleros”, i coltivatori di piante di coca che grazie al crescente mercato della cocaina, estratta proprio dalle piante di coca, stavano diventa sempre più numerosi tra gli agricoltori indios. Quando il governo boliviano, come parte della sua campagna per stringere buone relazioni con gli Stati Uniti e aprire il paese agli investimenti esteri, iniziò una massiccia campagna di eradicazione delle coltivazioni di coca, Morales divenne uno dei leader della rivolta che infuriò per anni al grido di “Causachun coca! Wañuchun yanquis!” (“Viva la coca! Morte agli yankee!”).
Morales si rivelò un leader carismatico e un abile manovratore. Dopo aver scalato i ranghi del sindacato fondò e divenne il leader del Movimento per il Socialismo (MAS), un partito indio che chiedeva la fine delle privatizzazioni, la legalizzazione della coca e una più equa distribuzione della ricchezza nel paese. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, la Bolivia entrò in una fase di profondi disordini sociali in seguito al tentativo dei governi di privatizzare la distribuzione dell’acqua. Ci furono scontri e blocchi stradali in tutto il paese e Morales, che era diventato il principale leader della rivolta e nel 2002 si era candidato presidente ed era stato sconfitto per pochi voti, fu espulso dal parlamento boliviano. Ma il governo non riuscì a resistere alle proteste e nel 2005 furono indette elezioni anticipate. Morales, sostenuto dal MAS, vinse con il 53 per cento dei voti diventando il primo presidente indio del paese.
Arrivato al potere in un momento favorevole alla sinistra in tutto il continente (la “marea rossa” dei primi anni duemila, che portò al potere governi con idee simili in, tra gli altri, Venezuela, Argentina e Brasile), Morales, fedele ai suoi lunghi anni di militanza, formò un governo composto quasi completamente da inesperti attivisti indios e intellettuali di sinistra. Il suo primo atto fu dimezzare il suo stipendio e quello dei suoi ministri. Il secondo fu la nazionalizzazione dei proventi delle risorse naturali del paese. Fino a quel momento, infatti, le società straniere che estraevano il gas naturale pagavano al governo il 18 per cento dei loro profitti. Morales decise di invertire simbolicamente la proporzione: dal 2006 lo Stato riceve l’82 per cento dei profitti e le società possono tenere soltanto il 18 per cento. Le entrate annue dalla tassa sull’estrazione degli idrocarburi passarono così dai circa 200 milioni di dollari dell’inizio del decennio a 1,3 miliardi.
Morales utilizzò questi soldi per compiere imponenti investimenti infrastrutturali e per aiutare la parte più indigente della popolazione. Nei suoi 13 anni al governo la povertà assoluta nel paese è scesa dal 38 al 17 per cento, anche grazie a una serie di sovvenzioni mirate e condizionate, come il sussidio per gli anziani, quello per le donne incinte e per i ragazzi che non abbandonano la scuola. L’analfabetismo è quasi scomparso e la mortalità infantile si è dimezzata. Anche grazie alla crescita nel prezzo delle materie prime, il paese ha avuto una crescita media annuale del 5 per cento, uno dei livelli più alti del continente e pari al doppio della media dell’America Latina. Nello stesso periodo il PIL pro capite è triplicato, passando da mille a 3.600 dollari a persona.
Con il passare degli anni Morales si è lentamente spostato verso il centro. Anche se il suo linguaggio è sempre rimasto quello del leader populista e la sua ostilità agli Stati Uniti non è mai cessata, nel concreto Morales ha spesso adottato politiche pragmatiche e in qualche modo si è distanziato dalle azioni più radicali compiute dai governi di paesi come il Venezuela, guidato dai suoi alleati Hugo Chavez e Nicolas Maduro. Per sostenere la crescita economica, Morales ha autorizzato nuove concessioni minerarie e ha acconsentito a disboscare ampi tratti di Foresta amazzonica per piantare campi di soia e fare spazio agli allevamenti di bestiame. Dopo 13 anni trascorsi al potere, i suoi recenti manifesti elettorali non parlavano più dei radicali cambiamenti del passato, ma promettevano un “Futuro sicuro” per la classe media sempre più numerosa.
Questo spostamento però non è servito a ricucire i rapporti con la minoranza bianca e benestante del paese, danneggiata dalle sue politiche contrarie alle piccole imprese e spesso contraria al suo sostegno alla cultura indio (la nuova costituzione voluta da Morales nel 2009 definisce la Bolivia uno stato “pluri-nazionale”, riconosce oltre trenta diverse lingue locali e ha tolto lo status di religione di stato al cattolicesimo). L’ostilità dell’élite bianca e mestiza nei suoi confronti non solo è rimasta forte ma negli anni si è radicalizzata. Sempre più spesso i leader moderati sono stati rimpiazzati da estremisti religiosi, razzisti e sostenitori della dittatura militare.
Il consenso di Morales è stato ulteriormente eroso dalle sue tendenze autoritarie. Pur senza raggiungere gli estremi di altri regimi sudamericani, Morales ha spesso osteggiato la stampa critica e l’opposizione e ha occupato sistematicamente la macchina burocratica dello stato. Anche tra i suoi sostenitori, in molti si sono lamentati di come Morales abbia spesso accusato tutti i critici, anche i più moderati, di essere burattini nelle mani dell’imperialismo americano e di come il suo governo si sia allontanato dall’attivismo delle origini (nell’ultimo gabinetto i ministri che si identificavano come indios erano appena tre su venti).
Ma anche la sua ostinazione nel rimanere al potere a qualsiasi costo e il frequente tradimento delle sue stesse promesse non lo hanno aiutato. Nel 2008, Morales promise che non si sarebbe candidato per un terzo mandato, ma nel 2014 partecipò ugualmente alle elezioni (e vinse con oltre il 60 per cento dei voti). La Costituzione a quel punto gli vietava un quarto mandato, ma nel 2016 Morales indisse un referendum per eliminare il limite ai mandati e venne sconfitto. Morales fece ricorso al Tribunale Supremo, un organo fortemente influenzato dal MAS, e la corte stabilì che il limite dei mandati era una violazione dei diritti umani e che il risultato del referendum era stato alterato dall’influenza occulta degli Stati Uniti. Morales poté candidarsi alle elezioni fissate per l’ottobre del 2019 con l’obiettivo di ottenere un quarto mandato.
Il clima nel paese, però, era profondamente cambiato rispetto agli anni d’oro della sua presidenza. Violare il risultato del referendum aveva mobilitato l’opposizione e gli aveva alienato il consenso della parte più progressista della classe media. Nel contempo, le sue politiche economiche pragmatiche e pro-business lo avevano privato di importanti basi di consenso tra i suoi sostenitori più radicali, in particolare nei distretti minerari andini. Nelle settimane che hanno preceduto il voto, lo scetticismo nei confronti del presidente era sempre più diffuso.
Il giorno delle elezioni molti boliviani si sono trovati di fronte a una scelta difficile, come ha raccontato tra gli altri il Guardian. Da un lato potevano scegliere un governo che sembrava oramai aver esaurito la sua energia propulsiva e che sempre più spesso mostrava tendenze autoritarie e la sua vulnerabilità alla corruzione. Dall’altro potevano dare la loro preferenze a un’opposizione divisa (oltre a Morales altri sette candidati hanno partecipato alle elezioni), composta spesso da razzisti con tendenze autoritarie altrettanto pronunciate.
Anche grazie alle divisioni dell’opposizione, il giorno del voto Morales è riuscito a ottenere la maggioranza relativa: quasi il 50 per cento dei voti (comunque il suo risultato più basso dal 2002), ma il candidato centrista ed ex presidente Carlos Mesa è arrivato a circa 10 punti percentuali di distanza. Il risultato così ravvicinato ha contribuito ad alimentare le accuse di brogli che a loro volta hanno portato a una massiccia serie di proteste da parte dell’opposizione nelle principali città boliviane. Gli scontri tra polizia e manifestanti sono stati molto duri e hanno portato alla morte di 3 persone e al ferimento di altre decine.
Dopo 13 anni trascorsi al governo, Morales ha faticato a mobilitare i suoi sostenitori e, a parte alcuni impressionanti sfoggi di forza, l’opposizione ha largamente dominato le piazze e l’opinione pubblica internazionale si è rapidamente espressa contro Morales. Quando dopo tre settimane di protesta la polizia ha iniziato ad ammutinarsi e l’esercito ha chiesto a Morales di lasciare il potere, il presidente ha comunicato le sue dimissioni e ha abbandonato il paese. Al suo posto la vicepresidente del Senato Jeanine Áñe, esponente di un partito di estrema destra, si è autoproclamata presidente con il sostegno dei militari. Cosa accadrà ora alla Bolivia, se il paese tornerà ad elezioni, se finirà sotto un regime militare o sotto un governo autoritario della destra reazionaria, rimane da vedere. Ma di certo, nel bene o nel male, il suo futuro sarà legato alle scelte, alle iniziative e agli errori del suo primo presidente indio, Evo Morales.