Champagne sovietico per il popolo
La storia dello champagne prodotto nell'URSS su ordine di Stalin, per dimostrare che lo stile di vita comunista non invidiava nessuno
Nel 1936 Iosif Stalin decise che anche l’Unione Sovietica avrebbe avuto il suo champagne, per dimostrare che lo stile di vita comunista non era da meno di quello capitalista e che anzi persino un semplice operaio poteva godersi lussi che nel vecchio mondo erano riservati a pochi. «L’idea», ha spiegato Jukka Gronow, autrice del libro Caviar with Champagne, al sito Atlas Obscura, «era rendere cose come champagne, cioccolata e caviale disponibili a prezzi più bassi, per poter dire che il lavoratore sovietico viveva come gli aristocratici del vecchio mondo». Così Stalin ordinò la produzione di massa di quello che sarebbe diventato l’unico spumante dell’URSS: il Sovetskoye Shampanskoye, «un vino frizzante, sciropposo e a buon mercato».
Il vino la cui produzione venne ordinata da Stalin – nato in Georgia, una terra dalla lunga tradizione viticola – non aveva niente a che fare con lo champagne francese, anche se in Russia era effettivamente esistito un vino simile, decenni prima. Lo aveva messo a punto il principe Leo Golitsyn, che a fine Ottocento aveva iniziato a fare degli esperimenti con le uve delle sue tenute in Crimea. Chiamò il risultato Novyj Svet, che significa Nuovo mondo: venne servito all’incoronazione di Nicola II di Russia nel 1896 e nel 1900 venne presentato all’Esposizione universale di Parigi, dove superò le varietà francesi e vinse il Gran Prix de Champagne.
Con la nascita dell’Unione Sovietica, le aziende vinicole vennero abbandonate o riconvertite a produzioni agricole più virtuose e sostanziose in tempi di povertà e razionamento. Negli anni Venti, con l’avvento al potere di Stalin, il governo aveva però spinto i viticoltori a inventare uno champagne per il popolo: economico, rapido e facile da produrre in massa. La soluzione fu trovata dall’enologo Anton Frolov-Bagreyev, che lavorava nell’antica e prestigiosa azienda vinicola di Abrau-Durso: abbandonò la tradizionale tecnica di produzione dello champagne, che richiedeva tre anni di rifermentazione in bottiglia, per uno più rapido dove la fermentazione avveniva in grandi serbatoi in un mese (qualcosa di simile al cosiddetto metodo Charmat inventato nella regione di Bordeaux), e che consentiva di produrre dalle 5.000 alle 10.000 bottiglie di vino alla volta. Frolov-Bagreyev scelse anche la miscela di uva da usare: Aligoté e Chardonnay. La produzione del nuovo spumante venne codificata con un decreto nel 1936 e in quell’anno Stalin ne avviò la produzione su scala industriale.
Grandi terreni vennero convertiti in vitigni, furono costruite fabbriche e magazzini, assunti e addestrati operai; il tutto venne finanziato da milioni di rubli dallo stato. Spesso gli obiettivi imposti dal governo alle aziende erano a malapena raggiungibili: «le aspettative non erano mai realistiche, ma se le aziende non le rispettavano chi ci lavorava o le guidava rischiava di essere tacciato come nemico del popolo ed epurato», ha raccontato ad Atlas Obscura Darra Goldstein, storica del cibo e autrice di Beyond the North Wind: Russia in Recipes and Lore. Per esempio nel 1938 l’antica cantina di Abrau-Durso non riuscì a soddisfarle e il quotidiano sovietico Izobilie mise in dubbio la lealtà del direttore, invitando a «purgarla dai nemici di classe».
Il risultato fu che già nel 1942 vennero prodotte 12 milioni di bottiglie di Sovetskoye Shampanskoye. Nonostante il nome, era uno spumante di bassa qualità. I vecchi vitigni provenienti da Moldavia e Tagikistan erano stati sostituiti con uve più durature, ad alto rendimento e in grado di soddisfare il gusto di Stalin, che preferiva i vini molto dolci. Raccolta in massa, l’uva veniva lavorata in grosse fabbriche centralizzate e il vino veniva imbottigliato in enormi fabbriche, che sfornavano migliaia di bottiglie all’ora usando il metodo Frolov-Bagreyev; spesso il vino veniva tagliato con zucchero e conservanti per mascherarne la qualità. Secondo la scrittrice gastronomica Anya von Brezmen, nata nell’URSS, «era come bere una bevanda frizzante con l’alcol. Aveva una certa dolcezza, un gusto kitsch e divertente».
Nonostante questi difetti lo Sovetskoye Shampanskoye si diffuse in tutta l’Unione Sovietica, un po’ su spinta del governo un po’ perché era l’unico spumante del Paese. Alla fine degli anni Trenta si trovava comunemente a Mosca e nelle altre grandi città, ed era venduto alla spina nei negozi. Era troppo caro per la vita di ogni giorno ma non poteva mancare durante le feste, come Capodanno o l’8 marzo. Era usato dalla propaganda sovietica per dimostrare l’avanzamento economico e culturale del socialismo: «era la Coca Cola dell’Unione Sovietica, era il simbolo del benessere sovietico», ha spiegato Gronow. È anche una delle tante contraddizioni dell’URSS, che ostentava benessere e champagne nel momento di punta delle purghe staliniane, che portarono alla persecuzione e all’arresto di centinaia di migliaia di sospetti oppositori di Stalin all’interno del Partito Comunista. Secondo gli storici, tra il 1936 e il 1938 più di un milione di persone venne arrestato e circa 680 mila vennero uccise o morirono nei campi di lavoro, i gulag. Scrive Atlas Obscura che molte di loro vennero trasportate in furgoncini della polizia sulle cui fiancate era pubblicizzato lo Sovetskoye Shampanskoye.
Dopo la dissoluzione dell’URSS, il governo vendette i diritti dello spumante ad aziende private russe, bielorusse, moldave e ucraine, che continuano a produrlo per nostalgici, appassionati, curiosi o revanscisti. Nel frattempo è ripresa anche la produzione artigianale di spumante pregiato. Il governo russo si è intromesso anche questa volta, finanziando però la versione di lusso e non quella popolare, in particolare in Crimea, dopo averla annessa dall’Ucraina.