Come funziona il “product placement” nei film
È una pratica che nel cinema esiste da sempre: quanto costa alle aziende? E cosa dice la legge?
Nel celebre film fantascientifico Blade Runner ci sono molte cose che attirano l’attenzione: le musiche di Vangelis, i neon della Los Angeles del 2019 con la sua atmosfera fumosa e distopica, il fatto che sia sempre buio e che piova continuamente. Ma fin dai primi minuti c’è una cosa che è impossibile non notare: la frequente ostentazione di marchi famosi, Coca-Cola su tutti. È una pratica che viene chiamata “product placement”, che si è sviluppata molto negli ultimi decenni ma che esiste sotto varie forme da quando esiste il cinema e che riguarda moltissimi film: pensiamo alla scena in cui Forrest Gump si beve 15 bottiglie di Dr. Pepper, oppure alle innumerevoli auto guidate da James Bond, o ancora ai riconoscibilissimi occhiali Ray-Ban usati da Tom Cruise in Top Gun.
Con gli anni e con lo sviluppo dell’industria cinematografica, il “product placement” è diventato un mezzo per incrementare significativamente il budget di un film, e una forma di pubblicità integrata che si usa non solo nel cinema, ma anche nelle serie tv e nei programmi di intrattenimento.
La storia e il funzionamento del “product placement”
Quando il cinema nacque, alla fine dell’Ottocento, non c’era una netta distinzione tra prodotto artistico e prodotto pubblicitario, anche perché i film di allora erano brevissimi e senza una vera trama: alcuni di questi, come Sunlight dei fratelli Lumière, erano incentrati interamente su un prodotto (in questo caso il sapone Sunlight) e probabilmente erano eseguiti su commissione, anche se è difficile stabilire con certezza che tipo di rapporto ci fosse tra gli autori dei film e le aziende.
Quando poi i film hanno cominciato ad assumere la forma che hanno oggi, sono cominciati a comparire i primi casi di “product placement” come lo intendiamo noi, per esempio la bottiglia di Jack Daniels nel film Mildred Pierce del 1945 oppure prima ancora il logo ben evidente di Red Crown Gasoline nel film muto del 1920 The Garage, con Buster Keaton.
Il “product placement” cominciò ad affermarsi negli anni Ottanta, decennio in cui ci furono alcuni casi molto noti: oltre a Blade Runner (che peraltro diede vita a una sorta di “maledizione” che portò sfortuna alle aziende che comparivano nel film) ci furono casi simili anche in Ritorno al futuro ed E.T. l’extraterrestre. Tuttavia è solo di recente che il fenomeno ha cominciato a crescere in modo esponenziale, raggiungendo le dimensioni di oggi: nel 2005 la spesa globale in “product placement” era pari a poco più di 2 miliardi di dollari, mentre nel 2014 ha superato i 10 miliardi.
In generale, si possono distinguere tre diverse modalità con cui mettere in pratica il “product placement”: inserendo un prodotto o un marchio in scena, bene in vista (screen placement); integrando il prodotto o il marchio nella trama del film (plot placement); inserendo un prodotto o un marchio nella sceneggiatura e quindi farlo menzionare da un personaggio (script placement). Nel corso degli anni, poi, soprattutto negli Stati Uniti hanno cominciato a nascere degli specifici dipartimenti della produzione dedicati alla promozione dei film e all’inserimento di prodotti e marchi al suo interno, mentre in Italia, come vedremo, ci sono delle agenzie specializzate.
Cosa dice la legge?
Le leggi che parlano di “product placement” non introducono molte limitazioni per chi vuole pubblicizzare un marchio in un film o in una serie tv. Per esempio negli Stati Uniti non c’è un regolamento chiaro e completo sulla pratica, nonostante quella americana sia l’industria cinematografica più importante e sviluppata al mondo; l’agenzia federale americana FCC (Federal Communications Commission), che si occupa di telecomunicazioni, ha introdotto pochi anni fa la regola di esplicitare la pratica nei titoli di coda, mentre la FTC (Federal Trade Commission), che si occupa di tutelare i consumatori, ha delle regole dettagliate che però riguardano solo le pubblicità esplicite. Perciò se nei film non si fa un riferimento diretto e oggettivo al prodotto per pubblicizzarlo, le regole della FTC non possono essere applicate.
In Italia la prima legge a parlare di “product placement” fu un decreto del governo del 2004, poi abrogato da una legge del 2016. Le indicazioni di quel decreto legge sono però rimaste in un decreto del ministero dei Beni culturali, il quale in sostanza dice che la pratica è permessa ma che nel film deve esserci «un avviso nei titoli di coda che informi il pubblico della presenza dei marchi e prodotti all’interno del film», e che la presenza di marchi e prodotti «deve integrarsi nello sviluppo dell’azione, senza costituire interruzione del contesto narrativo». La stessa indicazione viene data da una legge europea del 2007, che poi è stata recepita da un decreto legislativo del 2010, attualmente in vigore e quindi principale riferimento normativo per il “product placement”.
Secondo questo decreto, l’inserimento di prodotti è consentito in film, serie tv, programmi sportivi e di intrattenimento a meno che non siano per bambini e può avvenire «sia dietro corrispettivo monetario» sia «dietro fornitura gratuita di determinati beni e servizi». La legge pone alcune condizioni: è vietato incoraggiare esplicitamente all’acquisto del prodotto o marchio inserito; è vietato inserire prodotti a base di tabacco; è vietato inserire prodotti medicinali o «cure mediche che si possono ottenere esclusivamente su prescrizione».
Quanto costa far comparire un marchio in un film?
La risposta a questa domanda è: dipende. In certi casi costa molto, in altri relativamente poco, in altri ancora le aziende offrono una fornitura dei loro prodotti invece che denaro. In generale, più il film è una grossa produzione più è alto il prezzo da pagare per comparire o essere citati, ma ci sono molte variabili e le cifre possono variare molto. Inoltre, quello che può sembrarci a prima vista un “product placement” potrebbe non esserlo: a volte capita che gli autori di un film vogliano un prodotto o un marchio particolare in una certa scena per esigenze artistiche, facendo in un certo senso pubblicità gratuita.
Un caso di questo tipo è quello della serie di Netflix Stranger Things: pur essendo piena di quelli che possono sembrare “product placement” (dalla Coca-Cola ai waffle Eggo), Netflix ha detto al sito Vox che tutti i prodotti che si vedono nella serie contribuiscono a creare «lo storytelling dei fratelli Duffer», cioè gli autori della serie, e quindi non sono stati messi lì dietro pagamento né su richiesta delle aziende; un altro esempio è Cast Away, con Tom Hanks, in cui tra gli altri compare spesso e molto evidentemente il marchio della multinazionale FedEx, specializzata in spedizioni: come racconta The Week in quel caso FedEx non pagò nulla e c’era anche il rischio che non accettasse di comparire nel film a causa della scena dell’incidente aereo, che si temeva potesse danneggiare l’immagine dell’azienda.
Un caso emblematico di “product placement” vero e di successo è quello di E.T. l’extraterrestre. Durante la produzione del film, uscito nel 1982, c’era la necessità di girare una scena in cui comparivano le M&M’s con una parte funzionale alla trama, e quindi venne contattata l’azienda produttrice Mars per stipulare un accordo di collaborazione. La Mars non era interessata, e quindi la produzione si rivolse alla Hershey che produce delle noccioline ricoperte di cioccolato simili alle M&M’s. Hershey accettò e investì nel film un milione di dollari in totale, ma il ritorno fu quasi immediato e ben visibile. Le vendite della Hershey aumentarono del 70 per cento nel mese successivo all’uscita di E.T. e in moltissimi cinema cominciarono a comparire i Reese’s Pieces che si vedono nel film. La collaborazione è diventata famosa al punto tale da legare l’immagine dei Reese’s Pieces e quella di E.T. anche negli anni successivi e da aprire la strada ad altri casi.
Come abbiamo detto, però, le cifre variano molto: si può andare dal milione di dollari speso da Hershey, ai 300mila dollari spesi dalla compagnia petrolifera Exxon per comparire su una delle auto di Giorni di tuono, passando per i 50mila dollari spesi dalla marca di pannolini Pampers per comparire nel film Tre scapoli e un bebè e i 3 milioni di dollari spesi da BMW per far guidare una sua auto a James Bond, in GoldenEye; inoltre, la produzione può rivolgersi a più aziende contemporaneamente arrivando a raccogliere cifre considerevoli, come è successo con Man of Steel nel 2013: la produzione del film ricavò 160 milioni di dollari grazie ad accordi pubblicitari con 100 diverse aziende, molte delle quali comparvero anche nel film.
Un altro film famoso per ostentare e citare esplicitamente marchi e prodotti è Ritorno al futuro, in cui però il “product placement” è avvenuto in un modo un po’ insolito. Infatti, lo sceneggiatore e produttore del film Bob Gale ha raccontato che la collaborazione tra Nike e la saga di Ritorno al futuro nacque in maniera del tutto casuale: le riprese erano già iniziate con Eric Stoltz nel ruolo del protagonista Marty McFly, il quale poi venne sostituito da Michael J.Fox, che era la prima scelta ma inizialmente non era disponibile. Al momento in cui Fox si presentò sul set la prima volta non c’erano scarpe adatte a lui, ma il regista Robert Zemeckis disse di girare lo stesso lasciando addosso a Fox le scarpe con cui era venuto: un paio di Nike, appunto. Dopodiché chiamarono la Nike perché le scarpe di Fox, un modello “Bruins” bianco e rosso, erano fuori produzione, e la Nike gliene mandò una decina di paia.
La presenza della bevanda Pepsi in Ritorno al futuro fu più ragionata: l’azienda venne coinvolta con la richiesta di procurare alla produzione insegne e materiali degli anni Cinquanta per girare la scena in cui McFly si ritrova nel passato e ordina una Pepsi “free”, cioè senza zucchero, generando l’equivoco con il barista del 1955 il quale crede che McFly stia chiedendo una Pepsi “free” nel senso di gratis. In questo caso la Pepsi non spese soldi per essere citata nel film: alla produzione bastò avere il materiale d’epoca e una fornitura gratuita di Pepsi per il cast e per la troupe.
E in Italia?
Le produzioni cinematografiche italiane non sono minimamente paragonabili a quelle statunitensi per risorse disponibili e impatto, quindi difficilmente le aziende spendono cifre più alte di 500mila euro per comparire in un film italiano.
In genere in Italia le agenzie che si occupano di “product placement” sono normali agenzie pubblicitarie, ma ce ne sono alcune che si sono specializzate, come Camelot ed Echo, entrambe con sede a Milano. In pratica, queste agenzie fanno da tramite procurando il contatto tra le aziende interessate e le case di produzione. Anche qui le cifre possono oscillare, perché non c’è un tariffario e il prezzo si stabilisce al momento del singolo contratto pubblicitario.
Francesco Brambilla di Camelot ha spiegato che fin dai primi anni l’agenzia cominciò a lavorare quasi esclusivamente con inserimenti di prodotti in commedie, stipulando contratti che andavano da un minimo di 20mila euro a un massimo di 500mila. Il più famoso e forse riuscito “product placement” dell’agenzia Camelot è quello fatto con Poste Italiane e Benvenuti al Sud, nel 2010: nel corso degli anni è diventato un esempio molto citato di plot placement, dato che Poste Italiane è una sorta di protagonista perfettamente integrato nella trama del film.
Le cifre di riferimento per un contratto di “product placement” negli anni non sono cambiate, anzi. Brambilla ha raccontato che è diventato sempre più raro che un’azienda spenda più di 300mila euro per un “product placement”, tuttavia sono aumentati i clienti interessati a comparire in un film, ed è cambiata anche la loro sensibilità. Se prima le aziende erano interessate principalmente alle commedie – per essere sicure di associarsi a un messaggio positivo – di recente ci sono stati casi di “product placement” in film più drammatici come La corrispondenza di Giuseppe Tornatore oppure come A casa tutti bene di Gabriele Muccino, nel quale compaiono gli elettrodomestici dell’azienda modenese Bompani.