I porti italiani devono pagare le tasse?
La Commissione Europea ha chiesto esplicitamente all'Italia di adeguarsi alle norme sugli aiuti di stato: il governo probabilmente lo farà, con qualche scetticismo
di Paolo Bosso
Da qualche anno la Commissione Europea ha avviato un processo di restrizione dell’autonomia fiscale dei porti commerciali per evitare la concorrenza sleale tramite “aiuti di Stato”, i finanziamenti diretti o indiretti del pubblico al privato. Lo scopo è creare le condizioni per una competizione paritaria tra gli scali. I porti infatti competono tra loro intercettando i corridoi commerciali, attirando investitori e creando le condizioni per far sviluppare le imprese. La Commissione vuole evitare che questa competizione sia più facile nei paesi dove si fanno pagare ai porti poche o nessuna imposta: è un problema che riguarda i porti di diversi paesi a vocazione marittima, fra cui l’Italia.
I porti commerciali italiani sono gestiti da un ente pubblico che non fa profitto. Tra il 1994 e il 2016 sono stati gestiti da “autorità portuali”, una per ciascun porto, mentre nel 2016 queste sono state accorpate nelle “autorità di sistema portuale” e amministrano più porti. Il presidente è incaricato dal ministero dei Trasporti su voto consultivo, cioè non vincolante, delle commissioni parlamentari. Oggi di fatto le autorità portuali sono delle estensioni dello Stato, e convertirle in un’azienda sarà complesso. Come ha detto un po’ di tempo fa Pietro Spirito, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Tirreno centrale che gestisce i porti campani di Napoli, Salerno e Castellammare di Stabia, la Commissione Europea sta chiedendo al papà di tassare la paghetta del figlio.
Il caso era iniziato quasi nove mesi fa, l’8 gennaio, quando la Commissione Europea aveva ufficialmente invitato l’Italia (e la Spagna) ad adottare un regime fiscale (corporate income tax) per i loro porti: in poche parole, a uniformarsi alla nuova politica europea, decisa già nel 2013. Quello della Commissione non è un ultimatum ma soltanto l’inizio di un negoziato, come spesso accade per transizioni delicate e sostanzialmente imposte dall’Unione Europea.
In una prima fase la Commissione invita lo stato membro ad allinearsi alle regole sugli aiuti di Stato. Successivamente, sulla base degli elementi e della rimostranze dello stato, la Commissione studia una risposta e propone ufficialmente le misure da adottare. Al momento siamo in questa seconda fase. Se l’Italia non intenderà applicare le misure richieste, la Commissione europea avvierà una seconda indagine, più approfondita, che se confermerà la prima porterà all’apertura di una procedura di infrazione (cioè una specie di multa al governo italiano, che comunque avrà altri strumenti per evitarla).
Finora l’Italia ha preso tempo, ma negli ultimi tempi qualcosa si è mosso. Dopo che per mesi l’interlocuzione era stata discontinua per via del cambio di governo, la scorsa settimana le misure proposte a gennaio dalla Commissione europea sono state esaminate per la prima volta in via ufficiale dal governo italiano nella Conferenza delle autorità di sistema portuale, la prima presieduta dalla ministra Paola De Micheli (subentrata a settembre a Danilo Toninelli).
Si è discusso in generale delle nuove politiche europee e di come proseguire la trattativa, ma De Micheli ha sottolineato che la cosa più importante è che non si arrivi a una procedura di infrazione: lasciando intendere che il governo intende venire incontro alle richieste della Commissione. «Abbiamo la percezione che il governo italiano si sia impegnato sul dossier ed è molto positivo che abbia avviato questo dialogo con noi», ha detto venerdì scorso la commissaria europea alla Concorrenza, Margrethe Vestager, secondo la quale l’adeguamento della fiscalità portuale è una questione «prioritaria».
Vestager spiega che i porti hanno una attività doppia: c’è il «lavoro delle autorità portuali» e «un lato economico». Il “lavoro” delle autorità portuali è quello amministrativo, di gestori del demanio pubblico, mentre il “lato economico” è la riscossione dei canoni demaniali, cioè l’affitto delle banchine alle imprese private, che nelle idee della Commissione costituisce le entrate da tassare. In diversi porti europei le due attività sono strettamente legate. Il ragionamento che fa Vestager è quello alla base delle politiche contro gli aiuti di Stato adottate in questi anni: se ciascun porto non scorpora le attività pubbliche da quelle commerciali e adotta peraltro un regime fiscale autonomo, la Commissione non può pianificare lo sviluppo del settore in maniera uniforme né avere una politica europea dei trasporti efficace, perché ci sarà sempre un governo che proverà ad avvantaggiare uno dei propri porti tassandolo poco o nulla, creando così distorsioni nel mercato.
Non tutti ritengono che l’approccio della Commissione sia il migliore possibile, specialmente per quanto riguarda i porti del Mediterraneo (quindi anche quelli italiani).
Secondo alcuni osservatori l’adeguamento alle norme europee sarà l’inizio di un’inesorabile trasformazione dell’economia marittima italiana verso porti commerciali gestiti da società private a partecipazione pubblica, come sono quelli della cintura industrializzata del Nord Europa (Le Havre, Anversa, Rotterdam, Amburgo). I porti che si affacciano nel Mediterraneo, invece, tendono ad essere controllati dagli stati; eccetto il porto del Pireo, unico caso al mondo di scalo privatizzato e letteralmente venduto nel 2016 dalla Grecia a Cosco, il più grosso gruppo armatoriale controllato dalla Cina. Il rischio è che una volta trasformati in società private, seppur a partecipazione pubblica, i porti italiani più in difficoltà potrebbero attirare capitali stranieri per ottenere liquidità, “svendendo” proprietà peraltro particolarmente strategiche per lo Stato.
Eppure, obiettano i più favorevoli, Fincantieri e le Ferrovie dello Stato sono aziende a tutti gli effetti, sebbene controllate dallo Stato, e non sembra che abbiano “svenduto” alcunché. La transizione sarà sicuramente più semplice per i porti del Nord Europa, che sono già delle aziende pubbliche e funzionano soprattutto da porta d’accesso delle merci provenienti da Oriente. Lo stesso non si può dire dei porti mediterranei, che funzionano diversamente. Il timore di alcuni presidenti dei porti italiani è che aderire alle richieste della Commissione Europea significhi non capire le peculiarità dell’Italia, che ha un altro mercato rispetto a quello del Mar Baltico.
Nei prossimi mesi il governo italiano potrebbe spingere per una linea “meridionalista”, spiegando a Vestager che i porti italiani competono con i porti del Nord Africa e della Spagna per accaparrarsi il traffico che viene dal canale di Suez, e che il loro compito è soprattutto fare “rimbalzare” le merci quando fanno trasbordo, oppure servire mercati vicini ma extraterritoriali come l’Africa e il Medio Oriente. Al contrario, i porti del Nord Europa hanno una vocazione commerciale più spiccata perché sono strettamente legati al commercio nell’entroterra. In altre parole: mentre i porti del Nord sono parte di un sistema di trasporti prettamente commerciale, tanto che sono gestiti da vere e proprie aziende, quelli del Mediterraneo sono più simili a isole – schiacciati come sono dall’urbanizzazione storica delle loro città – e funzionano più come una base di appoggio, come i porti dell’antichità.
In realtà Italia e Spagna non sono gli unici paesi a cui la Commissione ha chiesto qualcosa, e sembra difficile che possano avanzare delle pretese particolari.
Tre anni fa l’invito a cambiare regime fiscale portuale era toccato a Belgio e Francia, il primo per tutta una serie di sgravi e vantaggi tributari che garantiva ai propri porti, il secondo per il suo generale regime defiscalizzato, simile all’Italia. La Germania, che ha un solo grosso porto principale, Amburgo, ha creato da pochi anni – su esortazione della Commissione – un meccanismo di finanziamento portuale più trasparente che separa le attività di competenza pubblica dalle attività economiche, andando incontro a una esplicita richiesta della Commissione che chiedeva una divisione netta fra il reparto amministrativo-portuale e quello commerciale.
Insomma, la richiesta della Commissione ha creato problemi a diversi paesi europei. La Commissione però ha sempre sostenuto che la rimozione di vantaggi fiscali ingiustificati non significa che i porti non possano più ricevere un sostegno statale. Nel maggio 2017 sono state semplificate le regole per gli investimenti pubblici nei porti: significa che gli stati membri possono investire fino a 150 milioni di euro nei porti marittimi senza verifica preventiva dalla Commissione su eventuali aiuti di stato, basta che riguardino investimenti «non problematici», come li chiama la Commissione. Si coprono per esempio i costi di dragaggio delle vie navigabili, e le compensazioni per i servizi di interesse economico generale.