La crisi del completo da uomo
Oggi lo indossa solo chi deve indossarlo, perché la circostanza lo richiede, e sono sempre meno le circostanze che lo richiedono; intanto i più eleganti e potenti scelgono altro
Nella vita di tutti i giorni e sui posti di lavoro ci si veste in modo sempre più informale: magliette, jeans, felpe, sneaker e tute, come vogliono la moda casual, lo streetwear (cioè quella ispirata al mondo dei rapper e degli skater) e l’athleisure (con gli abiti da casa e da palestra usati nella vita di tutti i giorni).
Da un lato è cambiata la nostra idea di eleganza, dall’altro sono cambiate le regole su come vestirsi in alcuni posti di lavoro, anche nei più formali; tutto questo ha portato a una grossa crisi del completo da uomo, cioè quello composto da giacca, pantaloni e, a volte, gilet abbinati. Allo stesso tempo il completo si è evoluto come abito “di potere” delle donne e come capo simbolo della moda neutral gender (cioè gli abiti di genere neutro, che rispondono a una nuova idea di bellezza e che possono essere portati dagli uomini come dalle donne). Il giornalista Mark Dent ha fatto un punto della situazione su Vox, raccontando come si è arrivati a questo punto, perché e come ci potremmo vestire in ufficio nei prossimi anni.
Dent fissa un momento chiave della storia recente del completo da uomo: quando, nell’aprile del 2018, Mark Zuckerberg si presentò davanti al Congresso degli Stati Uniti per testimoniare sul caso Cambridge Analytica, vestito non come al solito con felpa e maglietta ma con un completo, giacca blu e cravatta un po’ più chiara, quasi color Facebook. Se ne scrisse tantissimo sui giornali e sui social network, e il New York Times lo soprannominò “I’m Sorry Suit”, il completo-mi-dispiace.
Secondo Dent non era una scelta saggia o particolarmente rispettosa di Zuckerberg verso l’autorità, ma indicava semplicemente che «in una delle poche volte della sua vita adulta, mentre sudava sotto una raffica di domande dal governo, Zuckerberg non aveva il controllo della situazione. E di questi tempi, quando non hai il controllo, ti metti un completo».
Un tempo, almeno fino agli anni Cinquanta, il completo era la scelta naturale degli uomini potenti, e ancora nel 1987, ricorda lo scrittore americano Bret Easton Ellis nel suo nuovo libro Bianco: «sembrava che allora chiunque indossasse un completo; solo di rado andavo da qualche parte senza indossarne uno, e lo stesso valeva per la maggior parte degli uomini di mia conoscenza», e ancora «mi ero ritrovato a condividere della cocaina con Jean-Michel Basquiat (entrambi indossavamo un completo)».
Ora invece fa pensare a qualcosa di stantio, ingessato, da sfigati: viene ancora indossato da pochi tradizionalisti, in occasioni molto formali o, in versioni spesso economiche e a volte scadenti da alcune categorie di lavoratori, come gli impiegati di banca, i colletti bianchi della classe media, i venditori, i candidati a un colloquio di lavoro, tutte persone che non possono decidere come vestirsi, contrariamente ai fondatori di startup di successo, a chi ha successo nell’informatica e nella tecnologia, ai grandi imprenditori, agli stilisti e agli artisti: «È diventato l’uniforme dei meno potenti».
Anche secondo Deirdre Clemente, storica della cultura e della moda e autrice di Dress Casual, «c’è un elemento classista. Puoi permetterti di non indossare un completo solo se appartieni a una certa classe socioeconomica»; gli altri lo devono fare per «per compiacere qualcun altro, che sia un datore di lavoro o il Congresso».
A fine anni Quaranta, secondo l’Associazione statunitense dei produttori di abbigliamento, venivano venduti circa 25 milioni di completi da uomo all’anno – una media di mezzo completo a testa – per un totale di circa 12,5 miliardi di dollari attuali (11,4 miliardi di euro).
Nel giugno del 2019, secondo l’istituto di statistica americano, il costo medio dei completi calò del 25 per cento rispetto al 2000. Gli americani comprano sempre meno completi: secondo l’istituto di ricerca Euromonitor, dal 2013 al 2018 le vendite dei completi da uomo sono passate da 2,2 miliardi di dollari a 1,9 miliardi (da 2 a 1,7 miliardi di euro) e quelle dei completi da donna sono scesi da 795 milioni a 402 milioni di dollari, cioè da 728 a 368 milioni di euro).
Nel 2018, sempre negli Stati Uniti, sono stati venduti 8,6 milioni di completi, una media di 0,07 per ogni uomo; in Regno Unito solo un uomo su dieci lo indossa in ufficio. Più in generale: oggi indossa un completo solo chi deve indossare un completo, perché l’occasione lo richiede; e sono sempre meno le occasioni che lo richiedono, come vedremo tra poco. Prima non era così.
A inizio Novecento, infatti, gli uomini indossavano i completi tutto il tempo: per andare a guardare lo sport e per giocarlo (dal golf al tennis), per andare al lavoro e nella vita in famiglia. Prima che arrivassero gli anni Sessanta e gli hippy a metterli in discussione, la loro eleganza era stata raramente scalfita. Per esempio negli anni Venti gli studenti della prestigiosa università di Princeton sostituirono le giacche con i blazer, dalle spalle più morbide, più larghi e comodi, mentre negli anni Quaranta iniziarono a portare i pantaloni chinos (comunemente detti pantaloni), che abbinati al blazer nel cosiddetto spezzato diedero il via allo stile cosiddetto preppy, quello delle famiglie bene americane.
Ora invece le persone di potere e di buon gusto si vestono in modo casual o seguono lo streetwear e anche nelle occasioni più eleganti, come i red carpet, i completi sono diventati una scelta poco interessante. Agli ultimi premi Oscar vennero apprezzati per il loro stile gli attori Chadwick Boseman del film Black Panther e Billy Porter della serie tv Pose, che si presentarono rispettivamente con una sorta di abito di Givenchy e con una gonna di Christian Siriano.
Dal 2016 i 237mila impiegati della banca JPMorgan hanno potuto seguire un nuovo dress code chiamato business casual, che prevede chinos, camicie (stirate), magliette polo di colori neutri, bianco, blu, nero e grigio ma non ammette ancora i jeans, le sneaker, le magliette, le felpe, i colori accesi e le fantasie eccessive. Lo stesso avviene oggi in moltissime aziende italiane ed europee, anche quelle che fino a pochi anni fa adottavano stili più formali: società di consulenza, banche, studi legali. Lo scorso marzo anche Goldman Sachs ha allentato il suo dress code, non richiedendo più strettamente il completo con giacca e cravatta.
È una scelta che rispecchia i tempi e i dipendenti, che appartengono sempre di più alle generazioni nate dagli anni Ottanta in poi e che guardano «con sospetto» – scrive Dent – chi porta abitualmente i completi: spesso sono considerati fuori luogo, non un bell’abito da portare ma un’uniforme lavorativa sgradevole e imposta.
A sostegno di questo modo di vedere, Dent riporta l’esauriente opinione di Christopher Kratovil, un avvocato di Dallas: «In alcuni tribunali dell’Inghilterra e del Canada gli avvocati devono indossare parrucche bianche simili a quelle di William Penn e George Washington, ma se le tolgono appena escono dal tribunale per non apparire ridicoli. Kratovil è convinto che un giorno gli avvocati americani vedranno i loro completi come ora vedono le parrucche e che si cambieranno prima di rientrare nel mondo di fuori. Spera che quel giorno arrivi presto». I completi sono evitati dai 30-40enni anche perché nella vita di famiglia risultano scomodi: un tempo erano un simbolo del potere che «isolava gli uomini, fisicamente e simbolicamente, dalle faccende di casa»; per gli uomini d’oggi però, che scaldano il latte, stendono i panni e cambiano i pannolini prima di fuggire al lavoro, il completo è diventato un intralcio.
Secondo altri critici, però, i completi torneranno di moda: per i più pessimisti sta già succedendo a causa dell’affacciarsi di una nuova recessione, un tempo di incertezza che spinge a ripararsi nelle tradizioni. Altri invece colgono i primi segni di un’evoluzione del completo, come si è visto alle sfilate maschili degli ultimi anni: da quelli eccentrici e perfetti sia per le donne che per gli uomini, a volte con giacche portate sul petto nudo o su una maglietta trasparente, come quelli indossati dal cantante Harry Style e disegnati dal direttore creativo di Gucci Alessandro Michele, a quelli che combinano tagli sartoriali, tessuti preziosi e un gusto streetwear, come quelli creati da Virgil Abloh, direttore creativo di Louis Vuitton.