Cosa resta del Patto di Varsavia
Fu il fondamento della contrapposizione comunista contro l'Occidente democratico, oggi i paesi che ne facevano parte hanno esigenze diverse tra loro
di Anastasia Buscicchio
Il Patto di Varsavia è un trattato firmato il 14 maggio 1955 in Polonia e oggi dissolto, come anche alcuni paesi che ne facevano parte. Istituì l’Organizzazione del Trattato di Varsavia, un’alleanza tra l’Unione Sovietica (URSS) e le nazioni dell’Europa orientale.
Ufficialmente si chiamava “Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza di Varsavia” ed era una coalizione politica e militare a guida sovietica che era nata dall’esigenza di contrastare la speculare Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), stabilita sei anni prima dalle democrazie occidentali alleate degli Stati Uniti, e come reazione all’ammissione della Germania occidentale – uno dei due stati generati dalla divisione postbellica della Germania – alla NATO stessa.
Gli stati fondatori del Trattato di Varsavia erano, oltre all’URSS, l’Albania, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Germania dell’Est, l’Ungheria, la Polonia e la Romania. Il testo fu promosso da Nikita Krusciov, all’epoca segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, ed era formato da 11 articoli. Il trattato garantiva ai membri dell’alleanza difesa reciproca in caso di aggressione e fondava all’interno dell’Organizzazione un comitato consultivo politico e il comando combinato delle forze armate.
Presto si tradusse in uno strumento di controllo dell’Unione Sovietica sull’Europa orientale per sfruttarne il potenziale nella propria strategia difensiva durante la cosiddetta “Guerra Fredda” contro gli Stati Uniti. Tutti i vertici militari e politici dell’organizzazione erano generali sovietici e l’autonomia militare degli alleati era assoggettata a quella che poi fu chiamata “dottrina Breznev” o “della sovranità limitata”, la politica per cui l’Unione Sovietica era di fatto autorizzata a intervenire, anche militarmente, negli affari interni dei paesi del Patto. Le forze armate degli altri paesi non avevano alcuna direzione operativa o struttura logistica che fosse svincolata dal ministero della Difesa sovietico. Gli unici veri interventi militari dell’Organizzazione avvennero infatti nei confronti di altri paesi membri – Ungheria e Cecoslovacchia – per sopprimerne il dissenso o frenarne le riforme democratiche.
Dopo la morte del dittatore russo Stalin nel 1953, le forze armate dell’Europa orientale furono a poco a poco rinazionalizzate, mentre insurrezioni come l’ottobre polacco e la rivolta ungherese del 1956, pur venendo repressi, turbarono gli equilibri imposti dall’URSS, mettendo in discussione l’affidabilità degli alleati. Negli anni ’60 il parziale distacco dal rigore totalitarista del regime staliniano e il ritiro dell’Albania dal Patto di Varsavia agevolarono una maggiore integrazione tra gli stati aderenti. Oltre al suo ruolo di difesa contro la NATO, il Trattato servì pertanto a mantenere, in un modo o nell’altro, il blocco comunista unito. Fu applicato per giustificare l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e di nuovo per preparare un’invasione della Polonia, che poi non avvenne, nel 1980. Il Patto servì anche come strumento della strategia politica sovietica in Africa e nel Medio Oriente.
L’alleanza iniziò a sciogliersi con l’introduzione nel 1985 della perestroika, la politica di apertura e concessioni di Mikhail Gorbaciov, l’ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’URSS. Una serie di riforme attenuò i limiti del regime comunista sulla privatizzazione di settori economici statali e sulla libertà di informazione. I trattati con gli Stati Uniti per il disarmo e la conseguente ridefinizione delle relazioni tra Europa e Unione Sovietica provocarono la riduzione del controllo militare e politico sui Paesi dell’Est.
Sebbene fosse stata rinnovata nel 1985, come previsto dal trattato, l’alleanza mostrava chiari sintomi del suo declino, tra cui l’aggravarsi delle condizioni economiche e le sempre maggiori aspirazioni individuali delle nazioni dell’Europa orientale. Nessuno dei cambiamenti proposti in quel periodo si rivelò sufficiente a frenarne lo scioglimento, fino all’evento risolutivo: l’apertura del Muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione di tutti i regimi comunisti dell’Europa Orientale. Le ultime strutture politiche dell’Organizzazione furono formalmente abolite a Budapest il 1° luglio 1991.
Il bipolarismo tra il blocco orientale, sovietico, e quello occidentale, capitalista, aveva diviso il mondo dal 1945 fino alla rottura sostanziale del Patto di Varsavia nel 1989.
Dal 1991 al 1996 gli stati che appartenevano al blocco sovietico aderirono a diversi accordi, manifestando la volontà di entrare nell’Unione Europea. Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia e Slovenia, avviarono i negoziati bilaterali per l’approvazione nell’aprile 1998; Bulgaria, Lituania, Lettonia, Romania e Slovacchia nel febbraio 2000. L’ingresso è avvenuto nel 2004 per Polonia, Ungheria, Slovacchia, Estonia, Lituania e Lettonia; nel 2007 per Bulgaria e Romania. Dal 2004, tutti i paesi del Patto di Varsavia sono membri della NATO.
Per molti anni le trattative per l’adesione all’Unione Europea e alla NATO furono condotte parallelamente. L’appoggio delle istituzioni occidentali era sentito non tanto per condivisione di valori e principi, quanto per la necessità di far parte di una comunità politicamente e strategicamente contrapposta al vecchio regime. Escludendo il passato comune sotto il comando sovietico e un reddito pro capite relativamente basso, i paesi dell’ex blocco hanno infatti oggi poco in comune tra loro. La Russia è vista come una minaccia in Polonia e nei paesi baltici, ma non in Slovacchia o Ungheria. Slovenia, Slovacchia e gli Stati baltici sono membri della zona euro, mentre gli altri hanno ancora le proprie valute. La maggior parte, ma non Bulgaria e Romania, fa parte dell’area Schengen, zona libera dai controlli alle frontiere. Gli stati baltici hanno un’identità nordica e cooperano strettamente con i paesi scandinavi, mentre Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia hanno una loro alleanza politico-culturale, il Visegrád (V4).
Oggi, gli stati orientali dell’Unione Europea stanno vivendo uno sviluppo economico dinamico, attraverso una generosa gestione dei fondi europei. Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria crescono più rapidamente di qualsiasi altra realtà dell’Europa occidentale e registrano livelli di disoccupazione minimi. Eppure le tendenze illiberali e gli attacchi allo stato di diritto che avvengono soprattutto in Polonia e Ungheria mostrano ancora un ritardo nell’adesione ai principi democratici dell’Unione Europea.
Entrambi i paesi hanno respinto la richiesta dell’Unione Europea di accogliere una quota di richiedenti asilo e hanno unito le forze per resistere alle sanzioni sulle riforme giudiziarie in Polonia. La Polonia, membro a pieno titolo della NATO, è lo stato più grande dell’ex blocco sovietico a aderire all’Unione Europea – da cui ha ricevuto un ingente sostegno economico – per cui l’adesione è popolare nel paese. Molti cittadini polacchi però – al pari dei vicini ungheresi e cechi – non accettano di buon grado l’ingerenza straniera nei loro affari interni. Partiti come Diritto e Giustizia (PiS) stanno guadagnando consenso, incoraggiando sentimenti nazionalisti che mal si conciliano con i valori istitutivi di un organismo sovranazionale come l’Unione Europea.
Questo e gli altri articoli della sezione La fine del Muro di Berlino sono un progetto del corso di giornalismo 2019 del Post alla scuola Belleville, progettato e completato dagli studenti del corso.