Chi non voleva la Germania unita
Tra i leader europei c'erano molte diffidenze, negli anni della fine del Muro: e Giulio Andreotti creò un caso diplomatico
di Luca Lottero
La sera del 13 settembre del 1984, alla Festa dell’Unità di Roma si parlava di politica internazionale. Ospite d’onore era Giulio Andreotti, che in quel momento era ministro degli Esteri di un governo guidato dal socialista Bettino Craxi. A un certo punto la conversazione toccò l’argomento dei rapporti tra la Germania occidentale (la Repubblica Federale Tedesca, che faceva parte della Nato) e quella orientale, la Repubblica Democratica Tedesca inserita nel Patto di Varsavia, l’alleanza militare contrapposta alla Nato formata dall’Unione sovietica e gli altri paesi comunisti europei
Rispondendo a una domanda, Andreotti prima disse senza mezze misure che le Germanie erano due e che due sarebbero dovute rimanere, poi aggiunse di vedere un rischio di pangermanesimo, che andava fermato. Il pangermanesimo era l’idea politica di riunire in un’unica patria tutti i popoli di lingua tedesca, sfruttata da Hitler per giustificare l’espansionismo del Terzo Reich in Europa.
Il giorno seguente il ministro degli esteri della Germania ovest Hans-Dietrich Gensher convocò l’ambasciatore italiano nell’allora capitale Bonn Luigi Vittorio Ferraris, e protestò formalmente per le parole di Andreotti. In un’intervista al Sole 24 Ore del 2009, lo stesso Ferraris racconterà che in quei giorni rispose a centinaia di lettere di cittadini tedeschi infuriati.
Il tema della riunificazione stava molto a cuore all’opinione pubblica della Germania occidentale e il ricongiungimento tra le due Germanie era posto come obiettivo a lungo termine della Legge Fondamentale tedesca, la Costituzione dell’allora Germania dell’ovest.
La Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei più importanti quotidiani della Repubblica Federale Tedesca, scrisse che da molto tempo un politico di governo occidentale non provocava così tanto danno con così poche parole. Questo giudizio era dovuto al fatto che a parlare così apertamente contro l’unificazione fosse uno dei leader di un paese alleato che per di più, in quanto democristiano, faceva parte della stessa famiglia politica del Cancelliere della Germania dell’ovest Helmut Kohl.
In quell’occasione, Craxi si scusò con il governo tedesco e, in un modo o nell’altro, l’incidente diplomatico fu evitato.
Andreotti, invece, in un’intervista del 2009 rilasciata al mensile 30 Giorni – Nella Chiesa e nel mondo (diretto dallo stesso Andreotti) spiegherà di non essere mai stato contrario all’unificazione tedesca per partito preso, ma semplicemente di aver ritenuto a lungo che non fosse realizzabile. Nel periodo tra la caduta del muro di Berlino la sera del 9 novembre 1989 e la firma del Trattato di Unificazione del 3 ottobre del 1990, invece, Andreotti, questa volta nelle vesti di presidente del Consiglio, fu tra i sostenitori del processo di unificazione. Il governo italiano da lui guidato era allineato alle posizioni degli Stati Uniti, il Paese più importante a volere l’unificazione delle due germanie in un unico Stato.
Dei documenti segreti resi pubblici nel 2009 svelarono che, a differenza di Andreotti, a non volere la Germania unita furono il primo ministro britannico Margaret Thatcher e, anche se con posizioni più sfumate, il presidente della Repubblica francese François Mitterrand.
The Germans are back
Circa due mesi prima della caduta del muro di Berlino, Margaret Thatcher si trovava a Mosca a pranzo con il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione sovietica Michail Gorbachev. Thatcher è ricordata come uno dei leader occidentali più ostili al comunismo, ma in quell’occasione lei e Gorbachev erano d’accordo su un punto: il muro di Berlino doveva rimanere in piedi e la Germania doveva rimanere divisa.
I due erano d’accordo anche sul fatto che la riunificazione della Germania avrebbe modificato in modo troppo radicale i confini fissati dopo la Seconda guerra mondiale, destabilizzato l’Europa orientale e messo a repentaglio il piano di riforme interno all’Unione sovietica intrapreso da Gorbachev, oltre che l’intero equilibrio internazionale e la sicurezza degli stessi paesi occidentali. In quell’occasione, Thatcher disse anche al collega sovietico che quelle non erano solo le sue idee, ma la posizione dell’intero occidente e della Nato, dove nessuno voleva la caduta del comunismo a dispetto delle dichiarazioni ufficiali favorevoli alla riunificazione della Germania e ai movimenti di protesta che stavano nascendo in diversi paesi nell’orbita sovietica.
Fu la stessa Thatcher a raccontare di aver parlato molto con Gorbachev in quel periodo, in un’autobiografia (The Downing Street Years) pubblicata nel 1993 in cui, tra l’altro, definì le proprie idee di allora sulla riunificazione della Germania il suo più grande errore in politica estera.
I dettagli di quella conversazione, però, li conosciamo dai documenti riservati del Politburo (l’organo centrale del Partito comunista sovietico) che un ricercatore della Fondazione Gorbachev di nome Pavel Stroilov portò con sé quando si trasferì a Londra da Mosca negli anni novanta, e che vennero resi pubblici nel 2009. Stroilov riuscì a portare in Inghilterra più di 1000 documenti, di cui la fondazione aveva conservato delle copie dopo l’uscita di scena politica di Gorbachev.
Più o meno nello stesso periodo in cui venivano pubblicati i documenti sovietici, il Foreign Office britannico (l’equivalente del nostro Ministero degli Esteri) pubblicava altri documenti sull’atteggiamento complessivo del Regno Unito nei confronti del processo di riunificazione tedesca, tra il 1989 e il 1990. Anche in questo caso, l’aspetto più commentato furono le posizioni di Margaret Thatcher.
Thatcher, cresciuta nel mito di Winston Churchill e della sua posizione anti-tedesca in occasione della seconda guerra mondiale, sembrava credere che una Germania unita avrebbe per propria stessa natura cercato di imporre la propria egemonia sul continente europeo, e che rafforzare le istituzioni europee per incanalare la potenza tedesca in un processo di integrazione non sarebbe stato sufficiente per contenere la naturale aggressività dei tedeschi. Inoltre, temeva che una Germania unita avrebbe sostituito il Regno Unito nel ruolo di partner privilegiato degli Stati Uniti in Europa.
Tra i documenti pubblicati c’è anche il diario del segretario personale di Thatcher Charles Powell, che racconta di un seminario organizzato da Thatcher a Chequers (la tenuta di campagna del Primo ministro britannico) con un gruppo di storici britannici e statunitensi per discutere della situazione in Germania. Secondo il racconto di Powell, a quell’incontro, che si svolse a marzo del 1990, gli storici presenti ipotizzarono che alcune delle “infelici” caratteristiche storiche della Germania sarebbero potute riemergere, nel caso una nuova nazione tedesca riunificata si fosse trovata di fronte a una difficoltà come una grave crisi economica. Powell annotò che sarebbe stato “imbarazzante” se i contenuti di quel seminario fossero diventati pubblici, visto il modo in cui si parlava di un alleato del Regno Unito.
Quando quei documenti vennero pubblicati, nel 2009, in effetti fecero molto scalpore in Germania, ma Timothy Garton Ash, uno dei sei storici presenti al seminario, commentò sul Guardian che la versione data da Powell era fuorviante e che, in realtà, la maggior parte dei partecipanti al seminario era a favore della riunificazione tedesca. Nello stesso articolo Garton Ash dà un giudizio molto negativo del comportamento di Thatcher in quella fase storica, definendo le conversazioni di Thatcher con Gorbachev “un atto di incredibile slealtà”, oltre che un tradimento dell’ideale di libertà con cui Thatcher amava farsi identificare. La sua posizione generale sul processo di unificazione tedesca viene descritta come poco lungimirante e dettata da un pregiudizio anti-tedesco.
Altri storici hanno un giudizio più indulgente nei confronti di Thathcer, altri ancora (soprattutto in ambienti euroscettici) pensano che tutto sommato avesse ragione a temere una Germania troppo potente, vista l’attuale preponderanza di Berlino all’interno dell’Unione europea. In ogni caso, quello che emerge dai documenti è che in realtà Thatcher si ritrovò piuttosto isolata in questa sua posizione. Non solo rispetto alla maggior parte degli altri leader occidentali, ma anche all’interno del suo stesso governo, in cui il Segretario degli Esteri Douglas Hurd era su posizioni opposte alle sue. Nonostante in pubblico sostenesse la linea prudente del governo, in privato Hurd considerava il processo di unificazione della Germania irreversibile e pensava che il governo britannico avrebbe dovuto adeguarsi di conseguenza, anziché cercare di ostacolare o rallentare il processo. Da quanto emerge dai documenti pubblicati dal Foreign Office, che includono lettere e parti del diario personale dello stesso Hurd, il segretario ebbe un ruolo importante nello smussare le posizioni di Thatcher, che col passare dei mesi divenne sempre più conciliante. Dopo un incontro con il suo primo ministro a febbraio del 1990, Hurd annotò sul proprio diario: “Solita diatriba sull’egoismo dei tedeschi, ma il desiderio di fermare l’unificazione emerge meno spesso”.
I soliti, cattivi tedeschi
Tra le pagine del diario di Charles Powell pubblicate dal Foreign Office britannico c’è anche il resoconto di un incontro tra il primo ministro britannico e il presidente francese del 20 gennaio 1990 all’Eliseo, il palazzo che ospita la Presidenza della Repubblica francese.
Se in quell’occasione Thatcher elencò i suoi soliti timori su un processo che stava avvenendo troppo velocemente e al di fuori del controllo dei paesi occidentali, Mitterrand non fu da meno e rispose che, a suo avviso, la prospettiva di una prossima riunificazione aveva provocato ai tedeschi un’eccessiva euforia, che avrebbe potuto farli tornare a essere i “cattivi” tedeschi che erano stati in passato. Nel suo resoconto, Powell mette tra virgolette la parola “cattivi”, come a sottolineare che il presidente francese avesse utilizzato proprio quell’espressione.
Mitterrand andò avanti sostenendo che la volontà di riunificazione fosse più forte nella Germania occidentale che in quella orientale, che i tedeschi si stessero comportando con una certa brutalità e che per quanto avessero il diritto all’autodeterminazione non avevano quello di stravolgere la realtà politica europea. I due leader, inoltre, condividevano un giudizio negativo sul comportamento del Cancelliere della Germania Ovest Helmut Kohl, che a loro avviso stava perseguendo l’obiettivo della riunificazione in modo troppo precipitoso, rifiutando il confronto con gli altri Paesi europei.
Gli storici francesi si dividono tra chi sostiene che in quell’occasione Mitterrand si comportò come un leader del passato, influenzato dalla storica rivalità franco-tedesca e incapace di leggere il nuovo corso degli eventi, e chi invece sostiene che, nonostante alcuni dubbi, seppe comportarsi da grande statista e da grande europeo. Subito dopo la caduta del muro, in effetti, Mitterrand definì quel momento “un avvenimento gioioso, che segna un progresso della libertà in Europa”.
Quello su cui tutti concordano, però, è che Mitterrand fu piuttosto restio a mostrare un’eccessiva empatia per la causa dell’unificazione. Quando Kohl, a inizio 1990, gli propose di rilasciare un’intervista alla tv tedesca per supportare l’unificazione lui rifiutò giustificandosi così: “Se fossi tedesco, sarei per la riunificazione per patriottismo. Essendo francese, non ci metto lo stesso entusiasmo”.
Quali che fossero le convinzioni private di Mitterrand, alla fine, secondo l’interpretazione storica più accreditata, prevalse il pragmatismo. Il presidente francese decise di accettare di fatto l’unificazione della Germania ovest con quella est, ma si impegnò affinché il nuovo Stato venisse pienamente integrato nelle istituzioni europee, e per un’accelerazione del processo di integrazione della Comunità europea.
L’8 e il 9 dicembre del 1989 il presidente francese organizzò un Consiglio europeo straordinario a Strasburgo, dove si avviò il processo di integrazione monetaria che avrebbe portato all’euro. In quella sede, Kohl accettò la rinuncia al marco (una moneta molto forte) da parte della Germania, in cambio del sostegno degli altri Paesi europei – a cominciare dalla Francia di Mitterrand – al processo di riunificazione. L’idea di fondo era che, con l’euro, sarebbe stato più semplice contenere la potenza economica di una Germania riunita. “Formalmente, non si può parlare di ‘mercanteggiamento’ – scrisse lo storico francese Frédéric Bozo nel suo libro Mitterrand, la fine della Guerra Fredda e l’unificazione tedesca – ma di fatto, il do ut des tra Kohl e Mitterrand, per quanto implicito, fu evidente”.
Questo e gli altri articoli della sezione La fine del Muro di Berlino sono un progetto del corso di giornalismo 2019 del Post alla scuola Belleville, progettato e completato dagli studenti del corso.