Possiamo difenderci davvero dai disastri naturali?
Il Giappone ci prova da anni e investe molto nelle infrastrutture, ma come dimostra il tifone Hagibis non sempre basta
Tra il 12 e il 13 ottobre il Giappone è stato colpito dal tifone Hagibis, uno dei più forti di sempre ad abbattersi sul paese. Il tifone, i cui venti hanno superato in alcuni momenti anche i 260 km/h, ha causato l’esondazione di diversi fiumi, che hanno allagato vaste aree residenziali, lasciato mezzo milione di case senza corrente elettrica, e causato la morte di almeno 80 persone. La zona con più vittime è stata quella di Fukushima, ma ci sono stati molti danni anche a Nakano e Nagano, a nord-ovest di Tokyo, dove gli argini del fiume Chikuma sono crollati e l’acqua per le strade ha raggiunto i due metri di altezza.
L’argine del fiume Chikuma è solo uno dei 55 che il tifone Hagibis ha abbattuto con il suo passaggio: tutti costruiti per resistere a grosse alluvioni, eppure inefficaci. Il Giappone ha una lunga storia di eventi atmosferici devastanti, e nel corso degli anni ha investito moltissimo denaro in infrastrutture e tecnologia per prevenire nuovi eventi del genere. Come dimostra il caso del tifone Hagibis, però, non sempre questi sforzi servono a qualcosa, e tanto per il Giappone quanto per il resto del mondo: viene da chiedersi quindi se ci si possa davvero difendere dai disastri naturali, soprattutto quando i cambiamenti climatici stanno generando eventi atmosferici dalla portata imprevedibile.
Ne ha scritto di recente il New York Times, che ha provato a capire come mai gli sforzi del governo giapponese si siano rivelati inutili di fronte alle alluvioni causate da Hagibis, e quali potrebbero essere le alternative nel caso di eventi simili in futuro. Yasuo Nihei, professore di ingegneria fluviale alla Tokyo University of Science, ha detto che in diverse zone del Giappone si sta assistendo «a piogge di un’intensità che non si era mai vista prima. Se prendiamo in considerazione i costi, credo che sia chiaro che i programmi di controllo delle inondazioni debbano essere accelerati». Eppure, ha aggiunto Nihei, «realisticamente, ci saranno piogge da cui non ci si potrà difendere». Il Giappone da anni investe nella ricerca di soluzioni che possano contrastare gli eventi atmosferici potenzialmente più disastrosi, a cominciare da terremoti e tifoni. Nel 1958, dopo che il tifone Ida uccise più di 1200 persone, il governo decise di prevenire eventuali nuovi eventi del genere rinforzando gli argini di moltissimi fiumi di tutto il paese e cementificandone i letti in alcuni casi.
Questi grandi investimenti infrastrutturali contribuirono alla crescita del debito pubblico giapponese, ma oggi ci si chiede se abbia senso investire ulteriormente o se invece sia meglio pensare a soluzioni alternative. Shiro Maeno, professore di ingegneria idraulica all’università di Okayama, ritiene che i sistemi adottati finora siano insufficienti ad affrontare possibili disastri naturali sempre più intensi: «Allo stato attuale, un’alluvione potrebbe avvenire ovunque, e in qualsiasi momento. Negli ultimi anni hanno cominciato a verificarsi cose che non avevamo mai preso in considerazione».
Il problema maggiore, secondo Daniel Aldrich, professore di scienze politiche alla Northeastern University di Boston e esperto di gestione delle emergenze, è che l’investimento in infrastrutture genera nella popolazione un falso senso di sicurezza che pone in secondo piano una soluzione che sarebbe più efficace in certe situazioni: l’evacuazione. «Perché scappare quando c’è un sistema che ti protegge? Perché spostarsi in un altro luogo?», ha detto Aldrich, che ha spiegato come però ora il cambiamento climatico stia facendo spostare sempre più l’attenzione dagli interventi ingegneristici a “misure soft”, come appunto i piani di evacuazione.
A questo proposito nel 2017 il governo giapponese ha modificato la legislazione vigente sulla preparazione in vista di eventi meteorologici disastrosi, in modo da ridurre al minimo il numero di morti causati dalla mancata evacuazione. Con la nuova legislazione le amministrazioni locali dovranno prepararsi all’arrivo di eventi molto più rari ma potenzialmente molto più devastanti. Per capire la differenza tra la vecchia legislazione e la nuova il New York Times fa l’esempio del piano di evacuazione della città di Naganuma, una delle più colpite dal tifone Habigibis: prima prevedeva che in caso di alluvione le acque avrebbero potuto sommergere la città fino a circa 5 metri, mentre il nuovo piano prevede che l’acqua possa arrivare anche a quasi 20 metri.
Il fatto che possano verificarsi eventi molto più disastrosi che in passato pone davanti all’interrogativo se sia ancora utile o no investire in infrastrutture. Questo riguarda soprattutto le piccole città come Naganuma, con poche disponibilità economiche, per cui la soluzione migliore ai disastri naturali è istruire la popolazione a evacuare il prima possibile. «Dobbiamo abituarci all’idea che non importa quali infrastrutture ci siano: arriverà un’alluvione da cui non ci potremo difendere», ha detto Hiroki Okamoto, responsabile della gestione del fiume Chikuma.