E adesso l’ISIS?
La morte di Abu Bakr al Baghdadi non causerà la scomparsa della potente organizzazione terrorista, ma forse accelererà dei cambiamenti già in atto
Dopo la morte del capo dello Stato Islamico (o ISIS) Abu Bakr al Baghdadi, morto ieri durante un’operazione militare degli Stati Uniti in Siria, diversi analisti ed esperti di terrorismo hanno provato a capire cosa succederà a breve e a lungo termine all’ISIS, la più potente e influente organizzazione terrorista islamista della storia recente, che nel suo momento di massima espansione territoriale era riuscito a ritagliarsi un territorio grande quanto il Regno Unito. Nessun analista, nemmeno il più esperto e informato, ha una risposta definitiva: molto dipenderà da cosa succederà nelle prossime settimane, chi riempirà il vuoto di potere lasciato da Baghdadi e come si comporteranno i paesi dove l’ISIS è più radicato, cioè la Siria e l’Iraq. Intanto, però, possiamo fissare alcuni punti fermi.
Nessuno si aspetta che l’ISIS smetta di esistere. «Nella storia del moderno terrorismo questo tipo di operazioni non ha portato al collasso o alla sconfitta di un’organizzazione terroristica», ha spiegato al Washington Post Javed Ali, che fino al 2017 era il responsabile della strategia antiterrorismo della Casa Bianca. È una convinzione che diversi accademici e analisti sostengono da anni. L’esempio più ricorrente è quello di al Qaida, l’organizzazione islamista responsabile di diversi attacchi in giro per il mondo fra gli anni Novanta e Duemila e di cui inizialmente l’ISIS era una branca, che ha continuato a esistere (sebbene con modalità e leader differenti) anche dopo la morte del suo capo e fondatore Osama bin Laden, avvenuta nel 2011.
L’ISIS, fra l’altro, ha già dimostrato di poter sopravvivere alla morte del proprio capo. Nel 2006 gli Stati Uniti uccisero Abu Musab al Zarqawi, che allora comandava il gruppo da cui nacque lo Stato Islamico. Nel 2010 i suoi due successori più alti in grado vennero uccisi durante un’operazione militare congiunta fra Iraq e Stati Uniti. Fu proprio l’operazione del 2010 che permise a Baghdadi di scalare la gerarchia dell’organizzazione fino a diventarne il capo e successivamente ad annunciare la creazione di un Califfato fra Iraq e Siria, nel giugno del 2014.
Le ragioni portate dagli esperti sono diverse, ma molte hanno a che fare con la struttura di queste organizzazioni. Per riuscire a controllare un territorio enorme e a organizzare e ispirare decine di attacchi in altri paesi, lo Stato Islamico si era affidato a un efficiente apparato amministrativo e burocratico, lo stesso che per esempio permetteva di raccogliere la spazzatura e gestire gli uffici della motorizzazione nelle città che controllava, oltre a coordinare la comunicazione e la propria presenza nei social network. Ciascuno di questi reparti aveva dei dirigenti, che a loro volta facevano capo a dei leader, che ricadevano sotto l’autorità dei principali collaboratori di Baghdadi, fino a risalire a lui. È stato stimato inoltre che l’ISIS negli anni scorsi avesse accumulato un patrimonio di circa 400 milioni di dollari, reinvestito in diverse attività come la piscicoltura, il commercio di automobili e la coltivazione di cannabis.
In altre parole, negli anni lo Stato Islamico è diventato troppo grande per cessare di esistere nel giro di qualche giorno, anche dal punto di vista numerico. Ancora oggi, nonostante abbia perso quasi tutto il suo territorio e migliaia di combattenti, si stima che controlli 18mila persone in Siria e 14mila in Iraq, senza contare le decine di migliaia di persone che si trovano nelle carceri sorvegliate dall’SDF – la coalizione anti-ISIS composta da curdi e arabi – e innumerevoli simpatizzanti nel mondo.
Diversi esperti citano la struttura messa in piedi dall’ISIS anche fra le ragioni dello scarso impatto che potrebbe avere la morte di Baghdadi, almeno nel breve termine.
Mano a mano che l’organizzazione perdeva porzioni di territorio, alle sue sezioni locali veniva garantita sempre maggiore autonomia. Agli affiliati del gruppo in paesi lontani dal Medio Oriente, come le Filippine o l’Afghanistan, veniva garantita una certa indipendenza già negli anni del Califfato, mentre ai gruppi di miliziani in Siria e in Iraq è stata concessa autonomia affinché si concentrino sulla loro sopravvivenza, ha spiegato al Washington Post Sam Heller, esperto di terrorismo dello International Crisis Group. Diversi gruppi sono addirittura diventati autonomi dal punto di vista economico grazie soprattutto a estorsioni e ricatti sulla popolazione locale, che anche negli scorsi anni era un’importante fonte di entrate per tutta l’organizzazione.
Il New York Times ha fatto notare inoltre che negli ultimi tempi Baghdadi aveva ridotto al minimo i suoi contatti con l’esterno: da anni aveva smesso di usare telefoni, e ultimamente faceva affidamento soltanto a un circolo molto ristretto di collaboratori (ad aprile si era mostrato per la prima volta in video da cinque anni, anche per smentire le numerosi voci sulla sua morte). In un altro articolo pubblicato dal New York Times e scritto dalla giornalista Rukmini Callimachi, una delle più esperte di terrorismo e ISIS, alcuni collaboratori di Baghdadi hanno raccontato che per incontrarlo di persona venivano condotti bendati in un luogo segreto distante ore di viaggio, e dopo appena 15 o 30 minuti di riunione venivano congedati e costretti ad aspettare diverse altre ore prima di potersene andare. Per il New York Times tutto questo «significa che la sua organizzazione agiva già con scarse indicazioni che provenivano da lui, cosa che riduce di fatto le conseguenze della sua morte».
Da tempo gli esperti avevano notato che in Siria e Iraq l’ISIS si stava riorganizzando e concentrando soprattutto su operazioni più piccole: aveva ripreso le operazioni di reclutamento, soprattutto nei campi profughi siriani che accolgono migliaia di familiari di miliziani dell’ISIS, e continuava a essere attivo nelle zone rurali e più in generale in posti dove non esiste una forte autorità centrale. Insomma, la morte di Baghdadi potrebbe accelerare processi già in atto, avviati con la fine del controllo territoriale esercitato dall’organizzazione.
Il fatto che l’ISIS continuerà a esistere e a fare sostanzialmente quello che faceva prima non significa che la morte di Baghdadi non avrà alcuna conseguenza.
L’ISIS potrebbe ad esempio perdere la sua capacità di attrazione per i gruppi affiliati che agiscono molto lontano dal Medio Oriente, ad esempio nell’Africa subsahariana o nel Sudest asiatico. «Cosa succederà ai loro alleati?», si è chiesto su Twitter l’analista Hassan Hassan, che si occupa di terrorismo per il think tank Center for Global Policy: «forse diventeranno meno fedeli a un eventuale nuovo leader», spiega Hassan, che però infine ipotizza che i dirigenti iracheni e siriani avranno la forza per tenere sotto controllo i capi delle sezioni affiliate in giro per il mondo.
Secondo alcuni la morte di Baghdadi potrebbe spingere alcuni miliziani a una ritorsione. Omar Abu Layla, un attivista siriano che gestisce un sito di news indipendente, ha detto al New York Times che «alcune cellule operative in Europa e in Occidente potrebbero provare a compiere attacchi per far capire che continueranno a esistere anche senza Baghdadi». In realtà ipotesi di questo tipo non sono citate con frequenza dagli analisti. Non successe niente di simile, per esempio, dopo la morte di bin Laden: l’unico attentato rilevante compiuto da al Qaida dopo la morte del suo capo fu quello contro la redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo, compiuta peraltro a quasi quattro anni di distanza dalla morte di bin Laden.
La vera incertezza attorno all’ISIS riguarda il medio e il lungo termine. Prima di tutto bisognerà capire chi prenderà il posto di Baghdadi. La giornalista del Washington Post Liz Sly, che da tempo si occupa di terrorismo e ISIS, ha scritto che i funzionari dell’intelligence americana hanno individuato sei dirigenti considerati parte della linea di successione dopo Baghdadi.
Uno dei nomi circolati di più è quello di Al Haj Abdullah Qardash, considerato uno stretto collaboratore di Baghdadi nonché ex detenuto della prigione militare statunitense in territorio iracheno di Camp Bucca, proprio come Baghdadi. Altri analisti ritengono che il nuovo leader potrebbe provenire dall’esterno del circolo di Baghdadi, anche perché in questi anni moltissime delle persone a lui vicine sono state uccise. A poche ore di distanza dalla morte di Baghdadi, sembra che il suo collaboratore e portavoce dell’ISIS Abu Hassan al Muhajir sia stato ucciso in una operazione militare separata da quella di Baghdadi e compiuta nel nord della Siria. Il capo dell’SDF Mzloum Abdi ha scritto su Twitter che Muhajir è stato ucciso durante una missione congiunta delle sue truppe e dell’esercito americano.
Following the previous ops, a senior assistent for al- Bagdadi is called Abu Hesen al Mouhjir was targeted in a village named Ein al Baat near Jaraboul city, the mission was conducted via direct coordination of SDF Intel & US military apart the ongiong ops to hunt ISIS leaders.
— Mazloum Abdî مظلوم عبدي (@MazloumAbdi) October 27, 2019
È difficile prevedere oggi cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi o anni. Nuovi vuoti di potere negli stati del Medio Oriente – soprattutto in quelli più fragili come l’Iraq, dove pochi giorni fa sono ricominciate estese proteste contro il governo – potrebbero convincere l’ISIS a provare a riguadagnare il controllo di alcuni pezzi di territorio. Oppure la nuova dirigenza potrebbe decidere di cambiare decisamente direzione, cambiando nome o proponendo un riavvicinamento con gli storici avversari di al Qaida, come suggerisce il Wall Street Journal.
È significativo che Baghdadi fosse nascosto nei pressi di Idlib, una zona della Siria in cui sono molti attivi i miliziani di Hayat Tahrir al Sham, il gruppo terrorista nato come la sezione siriana di al Qaida. «Non è irragionevole pensare che [l’ISIS e Hayat Tahrir al Sham] stessero cercando di avviare un dialogo», ha detto l’analista Nicholas Rasmussen al Washington Post.
A prescindere da chi diventerà il nuovo leader e da quale strategia imporrà, sembra certo che nelle prossime settimane i dirigenti rimasti dell’ISIS proveranno a consolidare le loro forze e rafforzare le loro reti amministrative e militari, anche a rischio di esporsi. Diversi analisti sono concordi nel fatto che gli Stati Uniti, il paese occidentale finora più impegnato nella campagna contro l’ISIS, non sarà nelle condizioni di approfittare di questa situazione.
A causa della decisione di Trump di ritirare buona parte dell’esercito americano dalla Siria, che ha causato di fatto la progressiva ritirata dell’SDF dal nordest della Siria, avviando una discreta destabilizzazione della regione, né gli Stati Uniti né i loro alleati dell’SDF avranno le capacità per condurre operazioni sul campo, a parte alcune isolate missioni come quella in cui è morto Baghdadi. «Le nostre operazioni si stanno riducendo», ha detto al Wall Street Journal Myles Caggins, un portavoce dell’esercito americano in Iraq: «la nostra priorità è il ritiro delle truppe».